Foeura di ball
Non è del tutto tipico quel «Foeura di ball» (fuori dalle balle) con cui Umberto Bossi ha finto di poter liquidare la questione dei profughi in arrivo dall’Africa a Lampedusa. Proprio la formula scelta dal ministro per le Riforme Istituzionali rivela una chiusura, una forma di arroccamento forse più radicale di quanto non sia tradizionale per la direzione della Lega e di quanto non richiederebbero le stesse tattiche politiche e pre-elettorali di circostanza.
«La soluzione è: Foeura di ball»: questa la frase originale. Incomincia in italiano e finisce in dialetto, in controtendenza con il faticoso apprendimento della lingua comune compiuto oramai da pressoché tutta la nazione. Bossi non ha mai esagerato con il dialetto, ne ha sempre considerato i rischi di esclusione oltre ai vantaggi di inclusione. Il successo espansivo della Lega degli anni Ottanta e inizio Novanta (quando dalla Lombardia si è allargata al Veneto sino a intestarsi l’intero «Nord») fu dovuto anche al sostanziale abbandono delle rivendicazioni linguistiche. Queste furono limitate ai cartelli stradali, quando notturni verniciatori biffavano le lettere finali dei toponimi, ottenendo così indicazioni per «Milan», «Bergam», «Monz», «Lecc»...; oppure alle iniziative sporadiche di consiglieri comunali che intervenivano in dialetto per poi presumibilmente vantarsene al bar con gli amici del camparino corretto bianco. Analoga funzione simbolica e dimostrativa, solo un po’ più in grande, ebbero quei recenti numeri estivi dialettali del quotidiano La Padania, capaci di suscitare più sbadigli che scandali.
A maggiore arroccamento, la frase di Bossi contiene inoltre quel fonema difficile da scrivere e impossibile da pronunciare per gli italiani nati troppo lontano dal Ticino: la «oeu» o «ö» di «foeura». «Vocale turbata», la chiamano i fonologi: turbata e anche conturbante, per chi deve pronunciarla senza averla acquisita nei primi anni di vita. Gianni Brera usava l’arrogante espressione tradizionale «Milan, e poeu pù» (Milano, e poi basta, nient’altro) come «shibolleth», ovvero come rivelatore di provenienza: nessun meridionale, diceva Brera, sa pronunciarla senza franare in un «Milàn, è poppù». Erano anni in cui non esisteva localismo organizzato o secessionismo mentale: il socialista Brera poteva giocare di paradosso senza far favori a nessuno. Ma oggi cosa ne diremo? Può una vocale contenere un’identità, difendere da un assedio, rappresentare una nevrosi, se non addirittura scongiurare una paranoia?
«Foeura di ball» realizza linguisticamente un brusco gesto di estromissione, come quello di chi butta una cartaccia per strada. Si noti, oltretutto, che l’originale folkloristico milanese è in sé quasi benevolo: la volgarità è stemperata, la rudezza dell’invito è in fondo amichevole. Gli inviti ad andare «foeura di ball» a ad «andàa a dàa via i ciàpp» suonano molto più leggeri degli equivalenti italiani «fuori dalle palle» o «vaffanculo», che si dicono proprio per dare sui nervi e provocare la rissa. È solo nella caricaturale versione leghista del padano come combattente highlander che ci si può vedere una significazione arcigna e padronale: statevene nel vostro e non venite nel nostro.
Bossi usa quindi frasi in dialetto a cui dà il significato e il potenziale pragmatico d’offesa che avrebbero, al contrario, in italiano. Ancor più posticcio, nel suo presentarsi come dialettale e arroccato, è il pensiero che corrisponde alla frase: il problema epocale vissuto come fastidio e «rottura di balle» locale, da far spostare come un mucchietto di polvere in un altrove qualsiasi. Davvero la Lega torna a queste sue origini? Davvero la crescita continua di importanza e peso all’interno della coalizione di governo (mentre si decidono le spartizioni e le pertinenze per le amministrative) innesca l’antico riflesso egoistico, mirato sul solo «particulare»? Questo segnerebbe una rinuncia alla politica, come luogo in cui si articola il locale con il globale e come tecnica per ricomporre quelle «rotture di balle» che la cronaca, quando non la storia, procura a chi ha la passione e il dovere di governare.
Il localismo è proprio questa idea del mondo fatto a stanze, in cui ognuno può chiudere la sua, definire un «dénter» e un «foeura» e renderli incomunicabili tramite la serratura del dialetto. Locali: stanze, vani o anche cantoni, perché le più profonde radici della Lega affondano nel Varesino, ovvero nel Sud della Svizzera, con semisecolari sospiri per il minor costo della benzina, la qualità del cioccolato, il sistema fiscale, il segreto bancario, l’ordine, il verde tipicamente elvetici, e anche ammirazione autolesionista (c’è un fondo più maso che sado, nella Lega) per la risolutezza con cui lassù trattano gli immigrati (italiani).
Uno dal basso dei bar di paese, l’altro dall’alto degli attici di Milano Due: nel servire questo sogno svizzero-lombardo Bossi e Berlusconi si sono coalizzati già dai rispettivi inizi e ancora prima di poterlo sospettare. Ma per vincere in Italia hanno poi dovuto uscire dal cantone. Hanno dovuto scoprire Roma, Napoli, la Sicilia, gli altri confini e gli altri vicinati d’Italia. Hanno dovuto confrontarsi con la lingua comune, unificata proprio dalla televisione che poi l’ha anche esportata sulle altre sponde dei nostri mari. Dopo i Balcani, l’Africa del Nord, vuole ora sbarazzarsi dei regimi del passato e rischia genocidi, carestie, epidemie, le devastazioni di ogni cambiamento anche minimo che non trovi una politica a governarlo. La loro embrionale idea di democrazia e benessere, quei popoli se la sono fatta innanzitutto su di noi. Può la politica infastidirsi dei problemi politici? Chiudersi nei propri locali e lasciare «foeura» tutto il resto? La politica: non il sentimento, la pazienza, la compassione, la misericordia, l’egoismo proprietario. La politica: non l’assemblea di condominio.
Per l’Italia questo arroccamento è chiaramente impossibile, si perde anche tempo a parlarne. Per un personaggio come Bossi, così tipicamente italiano nel suo lombardismo, quella del «foeura di ball» può essere una tattica, o anche la prima cosa che gli è venuta in mente davanti ai microfoni. È quasi la stessa cosa, perché l’uomo è un tattico spontaneo. Ma questa sua uscita, che pur offendendo dignità e ragione è tanto difensiva, segna una volontà di protezione e rifugio più acuta e certamente molto più asfittica del solito. Nel Nimby anglofono («Non nel mio giardino», Not In My Back-Yard), c’è almeno un po’ di aria aperta.