Houston. La vicinanza del cielo

10 Gennaio 2012

La nuova chiesa dei quaccheri di Houston è stata inaugurata nel 2001, pochi mesi prima che io venissi a stare in città. Non sapevo della sua esistenza né dell’installazione di James Turrell finché un’amica venuta da Los Angeles non mi disse che voleva assolutamente andare a vederla. I quaccheri non hanno vere e proprie chiese, il loro è un cristianesimo interiore, senza credo e senza dogmi. Preferiscono definirsi una “Society of Friends”, una società di amici che si incontrano a scambiarsi le impressioni del viaggio dell’anima che stanno compiendo, e il cui scopo è “to greet the light”, la salutazione della luce. La cappella di Houston infatti si chiama “Live Oak Friends Meeting House”, il luogo d’incontro degli amici di Live Oak (la quercia è l’albero simbolico della città e infinite strade, vicoli, viuzze e quartieri sono intitolati alla oak). L’architettura, opera di Leslie Elkins, è studiata in modo da non attrarre minimamente l’attenzione. Passando in macchina sulla West 26th Street, al numero 1318, si può andare oltre senza nemmeno vederla, o magari credendola un lindo asilo d’infanzia o la sala riunioni di un consiglio di quartiere.

 

Nella bianca, disadorna sala centrale, scandita da vetrate a settentrione e a meridione, le panche di legno progettate dallo stesso Turrell, rivolte verso un centro senza palco né altare, sono abbastanza larghe da potercisi sdraiare, anche se sarebbe meglio portarsi un cuscino. La mia amica si sdraiò subito, senza badare alla durezza del legno, avvertendomi che ci sarebbe voluta circa mezz’ora perché l’installazione facesse il suo effetto. Io mi sedetti in attesa, imitato da un numero crescente di visitatori. Era un venerdì mezz’ora prima del tramonto, il solo giorno della settimana in cui la cappella si apre al pubblico. La giornata era stata tiepida, primaverile, e oltre le vetrate il cielo era terso e senza una nuvola. Non appena la luce esterna iniziò a diminuire, nella sala si accese un rettangolo di neon gialli disposti lungo le pareti, appena sotto il tetto. I neon aumentarono gradualmente d’intensità finché, quando la stanza fu gialla come uno zabaione, un riquadro del soffitto, azionato a distanza, prese a scivolare su due guide di metallo e sparì alla vista come il tettuccio rimovibile di un’automobile, lasciando scorgere sopra di noi un quadrato di cielo azzurro. L’installazione era iniziata.

 

Scolpendo due materie immateriali, la luce e il tempo, James Turrell crea skyspaces, luoghi in cui il cielo, invece di apparire vuoto, generico e infinito, si rende percepibile come un’entità prossima e finita. Le opere di Turrell non si contemplano dall’esterno. Come lui stesso ha detto, bisogna varcare la soglia dello spazio che hanno generato, come quando si entra nelle pagine di un libro così intensamente che ci si dimentica del mondo non incluso nel cartiglio delle pagine. Dal 1972 Turrell sta lavorando alla ristrutturazione, se questa è la parola, di un cratere vulcanico del “Deserto dipinto” dell’Arizona, il Roden Crater non lontano da Flagstaff, che al termine dei lavori (ormai pare sia questione di mesi) sarà trasformato in un osservatorio naturale. Ponendosi di notte al centro del cratere, sotto un buco lasciato aperto, grazie al cielo limpidissimo che si inarca sopra il Painted Desert sarà possibile godere della sensazione fisica del passaggio delle costellazioni o, sapendo che è la Terra che si muove, percepire fisicamente che i nostri corpi appoggiano su una minuscola palla spaziale che ruota in cerchio, come una biglia su una pista di sabbia.

Alla Meeting House di Houston si può stare solo un’ora, e l’effetto che Turrell ha cercato in quel piccolo spazio non è lo stesso del cratere. All’inizio non percepii nessun cambiamento. La mia amica, distesa più comodamente che poteva su una delle panche, era venuta preparata e sapeva che cosa l’aspettava. A me occorsero una quindicina di minuti prima di accorgermi che il quadrato di cielo visibile nell’apertura del soffitto si stava avvicinando.

 

Non solo quel giorno non c’erano nuvole, ma nello spazio dell’apertura non transitavano nemmeno stormi di uccelli o scie di aeroplani, così che nulla mi dava la sensazione della distanza celeste se non la consapevolezza di saperla lontana. Ma non appena iniziò il tramonto le luci interne della sala si fecero più intense, o questa almeno era l’impressione. Mentre l’aria oltre le vetrate era ancora luminosa, il quadrato nel soffitto diveniva gradualmente più scuro, come se lassù si fosse radunata un’altra sera, diversa da quella del mondo condiviso. In pochi minuti lo skyspace visibile attraverso l’oculus parve prossimo a combaciare con l’edificio, finché tra cielo e soffitto non riuscii più a distinguere nessuna distanza. Da un iniziale azzurro porcellana, liquido e trasparente, lo spazio racchiuso nel quadrato si era trasformato in una tela smagliante di perfetto blu cobalto. Il contrasto del giallo e del blu rendeva la sala quasi insopportabilmente luminosa anche ora che, a tramonto inoltrato, il blu tendeva verso la consistenza di un panno di velluto nero. Il locale era divenuto una camera mistica, senza più differenze tra sguardo esterno e sguardo interiore. Chi voleva, ora poteva dirsi pronto a “salutare la luce”.

 

All’inizio del crepuscolo il pannello venne rimesso sulle sue guide, il soffitto si richiuse e i neon passarono dolcemente dal giallo al blu. Fu come se tutto il cielo fosse ormai entrato nella stanza e vi avesse trovato posto insieme a noi che ci stavamo alzando dalle panche, come a dirci che non bisognava cercarlo solo lassù, che non siamo due mondi separati, che il cielo è dove siamo noi, e noi siamo dovunque c’è il cielo.

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