Sedici racconti / I Miti personali di Matteo Marchesini

26 Luglio 2021

Matteo Marchesini aveva iniziato a confrontarsi con i miti nel 2017 sulle pagine del “Foglio”. In aprile ha raccolto e pubblicato sedici racconti, per lo più molto brevi, nel volume Miti personali, sottolineando con l’aggettivo personali come l’infinita variazione narrativa cui dà vita il mito arrivi, anche quella, alla polverizzazione individuale nell’età della comunicazione diffusa e dei social media. Il libro, pubblicato da Voland, è un volumetto di piccolo formato di 140 pagine, aperto da una citazione di Vico, “gli uomini prima sentono senz’avvertire”, che mi sembra collocare queste riscritture in un ambito liminale, di scoperta, di blocco o obnubilamento delle capacità di discernimento. Il libriccino è illustrato in copertina da una foto della serie Homage a Saul Steinberg di Paolo Ventura, l’immagine di un uomo adulto, con lineamenti che annunciano la vecchiaia incipiente, che tiene per mano una specie di sé stesso bambino, entrambi con qualche tratto clownesco nel volto o nel costume. Per illustrare la serie Ventura scrive sullo specchiarsi nell’infanzia, uscire dall’infanzia, regredire nell’infanzia, concetti che dovremo ricordare a mano a mano che analizziamo questi racconti brevi: 

 

Tutto nasce da una fotografia di Saul Steinberg che ho sempre amato: nell’immagine c’è lui che tiene per mano sé stesso bambino, una riproduzione a grandezza naturale di quando aveva 8 o 9 anni. Quanta parte di te bambino riesci a tenere crescendo e quanto scompare diventando adulto? Questo è il senso del lavoro, una domanda che resta aperta. La divisa che indossa Primo, mio figlio, nelle mie foto l’aveva fatta fare mio padre per me quando avevo la sua età: in questo modo, io torno bambino tramite mio figlio, non solo sotto forma di desiderio ma anche “rimpicciolendomi” realmente, in un gioco evidente di vero/falso, teatro/realtà che lascia spazio alle ambiguità e alle contraddizioni del presente: diventare adulto, restare bambino.

 

 

Marchesini, acuto critico letterario per il “Foglio”, “Il Sole 24 Ore”, “doppiozero”, romanziere, poeta, polemista affilato, scriveva all’uscita del volume sulla sua pagina Facebook: «A questo libro tengo un po’ più che agli altri miei. Perché è come se ci fossero dentro tutti i generi che pratico: poesia, narrativa, saggistica». Il mito diventa quindi ambito per una scrittura dell’esplorazione e dell’inquietudine formale richiedente alla letteratura vari livelli di cimento, in un breviario di figure famose, che diventano “miti” in senso largo, archetipi che ci portiamo dietro non solo dal mondo classico ma anche dalla vita quotidiana, storie che continuamente continuiamo a rinarrare, che continuamente continuano a rinarrarci. 

 

Troviamo nell’ordine variazioni sulle note vicende di Orfeo e Euridice, Achille ed Ettore, sulle ultime ore di Socrate, su Edipo, Enea, Narciso, Artemide e Atteone, Ulisse, Filottete; incontriamo personaggi biblici come Giobbe, dopo la caduta e la risalita, o Gesù; “miti” culturali come Kant e Leopardi; andiamo a finire in “miti d’oggi”, in una villa al mare e nel destino di un professionista di successo, in un avventuroso viaggio di un ragazzino dei quartieri bene in un zona periferica con una fama ‘sinistra’. L’ultimo è un racconto anomalo in questo contesto, perché in esso l’autore usa l’io narrante per portare al massimo la demitizzazione (o la mitizzazione della vita quotidiana, che è lo stesso): un amore di quattro giorni tra un ragazzo e una ragazza, studenti universitari incontratisi a una festa, che trovano un cane abbandonato per strada, un trasporto bruciante che presto si esaurisce. 

Se si scorrono i titoli dei raccontini il libro ci sembra una specie di ironico (e dolorante) breviario per i nostri giorni, costituito di nomi in forma di apologhi-exempla appoggiati parassitariamente alla tradizione della mitologia consacrata e ad alcuni “miti”, come infatuazioni o narrazioni ideologiche dei nostri giorni: dal primo Poesia all’ultimo Prosa, passando per Fine dell’epica, Tradire, Peste, Storia, Narciso, Religione, Uno, nessuno, Come tutti, Resurrezione, Il figlio, Mente, Coraggio, Dio, con l’ultima storia, quella “fuori serie”, che sembra riflettere il senso del percorso: Conoscersi.

 

 

Miti personali esalta la forma rapsodica di esposizione e conoscenza che Marchesini pratica anche nelle raccolte saggistiche (Da Pascoli a Busi del 2014, Casa di carte del 2019, Scienza di niente del 2020). Richiama il breviario per altri due motivi: si può leggere un poco ogni giorno, data la misura delle storie; offre ogni volta una riflessione diciamo così morale su una figura, un complesso, un nodo della psiche, della crescita, della relazione, del destino umano, del conoscersi, appunto, o dello smarrirsi.

Inizia con Orfeo che si volta e non trova Euridice. Lei lo ha superato, è già arrivata a casa e si è serrata dentro: sarà lui a scivolare via, fin «nell’inferno notturno di una città che non è più sua», vera Gehenna di un disamore incolmabile, di una vita contaminata dalla morte come vuoto, solitudine, incomunicabilità. Il tono è aforistico, suggestivo, e può evocare la perdita dell’aura e costituire portone d’entrata, prologo, a questo quotidianizzarsi dei miti, mantenendo la loro forza bruciante e continuamente rinnovabile nelle storie personali.

 

In Fine dell’epica troviamo Achille e Ettore immobilizzati nel loro inseguimento, come due figure di un vaso attico (con una implicita riflessione anche sui modi in cui è trasmesso il mito): il Piè veloce guadagna metri ma non raggiunge mai il Troiano, trasformatosi, lentamente, in una irraggiungibile tartaruga, secondo il paradosso di Zenone di Elea. Durante la Peste Giocasta scopre di essere la madre di Edipo, ma invece di uccidersi lo protegge, lo accoglie dentro di sé, lo riporta, figlio, al suo ventre e alle sue mammelle materne. Enea, sul punto di fuggire da Troia, in Storia vedrà il futuro e deciderà di restare, cambiando, con uno sberleffo dell’autore, lo sviluppo conosciuto del nostro mondo occidentale. E così via: Narciso è un bambino chiuso in una villa, che imita gli adulti, gli altri: morirà quando scoprirà il vero diverso, l’immagine mai vista, quella di sé stesso specchiata nel lago, e vi si immergerà fino a scomparire. Artemide con l’uccisone di Atteone inaugura un rito sacro di sacrifico del profanatore, un racconto che si ripete, ma anche la frattura irreparabile di chi abbandona l’attimo eterno, la perfetta identità, l’abbandono alla gioia dei sensi, creando la dannazione del passato. Quando Ulisse arriva a Itaca tutti capiscono che è un impostore eppure, per quieto vivere, tutti lo accettano, mentre Filotette si accorge di vivere una fama forse più alta della sua realtà di uomo. 

 

Il tempo diventa frattura, smarrimento, irredimibilità: Giobbe, risorto dalla disgrazia, si ritrova di nuovo nell’agio, ma “gli sembra di muoversi in un mondo già visto, che si ripete inerte. È come se ci fosse un trucco, un velo da strappare; e sotto apparirebbe qualcosa di mostruoso, o forse il nulla”. E così Gesù vivrà gli ultimi istanti, sulla croce, rammentando il momento del distacco dalla madre fanciulla e dal vecchio padre, quando fuggì da loro per discutere con i dottori nel tempio, separandosi dal loro corpo protettivo e lanciandosi tra i vapori e le nuvole della parola, dello spirito, della separazione fatale dall’infanzia, dal corpo affettivo.

 

Kant, lo splendore della ragione, in Mente è un vecchio che fatica a rammentare, a muoversi, a parlare, ridotto al pigolio, fino all’estinzione; e Leopardi in Coraggio è bloccato dal padre che gli esibisce il passaporto per fuggire da Recanati, ricattandolo emotivamente perché non si sottragga alla sua tutela. Il protagonista di Dio, bambino, chiuso nel recinto di un’altra villa-mondo, con adulti come dèi oscuri, minacciosi e attraenti, scopre l’esterno e sé stesso, per trovarsi poi a replicare con successo le orme dei padri, fino a finire, ricco, soddisfatto, in un crepaccio di montagna, vittima di un altrove mai accettato fino in fondo che pure con i suoi misteriosi, violenti, riti l’ha forgiato. E in Prosa il minaccioso Pilastro di Bologna, zona ultra-periferica agitata come spauracchio della gente bene, si rivela un rione di case scrostate per un bambino in evasione dai quartieri alti, ritrovando un fascino fosco, salgariano, di avventura in un suo racconto, esaltato con orgoglio dal padre giornalista, uno di quelli che ha alimentato il “mito” della zona marginale e degradata, pericolosa. Miti che avvicinandosi a noi perdono la voce cogente dell’archetipo per diventare stereotipi.

 

Marchesini attua con ironia e forza di scavo continui rovesciamenti, in una ricerca del tempo perduto che spesso suona come smarrimento di sicurezze, di identità, in un mondo precipitato troppo velocemente nella storia, intesa ormai, sempre, come vicenda individuale, in una società di monadi. 

Alla fine dalla lettura emerge forte come figura spesso centrale nelle narrazioni quella del «blocco». I personaggi di queste storie sono immobilizzati, paralizzati, incapaci di adattarsi ai cambiamenti, perfino cristallizzati in icone vascolari, in comportamenti incartapecoriti, nel terrore dell’azione che può rivelare il nulla o sfibrarsi in quell’altro niente che è l’esaurirsi dei sentimenti, la noia. Sono bloccati in una malattia mentale come il vecchio Kant, nel divieto di allontanarsi da casa come Leopardi, nel giardino dell’infanzia come Narciso o il protagonista di Dio, nel progressivo fastidio per l’altro dei due spigliati giovani del racconto finale: tutti si smarriscono, consumando in fretta entusiasmi e attrazioni. Il destino consiglia o impone a molti di loro di fermarsi, di alterare il corso del tempo, di tornare indietro; per gli altri varcare il confine porta alla scoperta, alla fine dell’illusione, al precipizio o alla quieta sopravvivenza.

 

Matteo Marchesini, Miti personali, Voland, pp. 144, euro 13.

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