Confrontarsi con il tempo e il caos / Il collezionista di tappi
CF: Prima di cominciare con le domande, Stefano, vorrei spiegarle perché ho chiesto di parlarmi della sua seconda – o prima? – attività, insomma della sua attività di collezionista. Il fatto è che, in passato, mi sono occupato più volte di questi personaggi che raccolgono cose, ma, pur avendone avuto l’occasione, non ho mai parlato con nessuno di essi. Per la verità, le figure che conosco meglio sono molto lontane nel tempo, intendo secoli fa, ma mi chiedo se non abbiano qualcosa in comune con lei.
SA: Credo che la sua sia un po’ un’illusione, visto il genere della mia collezione.
Lo so, è una collezione di tappi. Ma – deve sapere – negli anni Settanta ho sentito tante volte la storia dell’“alto” e del “basso”, delle contaminazioni eccetera, che la cosa non mi impressiona. Di che si tratta esattamente?
Colleziono tappi “a corona”. Sono quei tappi metallici che chiudono bottiglie di birra, d’acqua, di vino, ma anche succhi di frutta, chinotti, gazose, limonate; si chiamano così perché i bordi metallici, serrando il labbro superiore della bottiglia, formano una sequenza di punte e rientranze regolari che possono ricordare appunto una corona. Il brevetto è del 1892, di un certo William Painter.
Curioso, è un omonimo dell’autore di The palace of pleasure, una raccolta di novelle della fine del Cinquecento.
Il mio campo non è così nobile, anche se c’è di mezzo il piacere.
Lasciamo stare, almeno per ora, la nobiltà: parliamo della sua raccolta. Se capisco bene, i tappi metallici sono attraenti perché estremamente vari, nonostante forma e dimensioni siano del tutto standardizzate.
È così: in qualsiasi parte del mondo, ormai da un secolo, si imbottigliano bevande in questo modo, ed è facile immaginarsi quante idee diverse ci siano, quante soluzioni grafiche, quanti colori.
Ma lo spazio è a dir poco minimo.
È vero, ma qui sta il bello: la varietà delle combinazioni, se si pensa che è a disposizione solo un piccolo cerchio, è tanto più straordinaria. È una situazione simile, almeno mi sembra, a quella dei francobolli.
Si direbbe uno spazio inutile, visto che non può contenere tutti i dati dell’etichetta, ma per questo è più interessante. Da un lato si ripetono i dati fondamentali del prodotto, così da permetterne il riconoscimento; dall’altro li si concentra in una dimensione minore e di taglio differente (un cerchio invece di un rettangolo).
In realtà, molto spesso il tappo parla di qualcosa d’altro: negli anni ’50 erano piuttosto frequenti i tappi sportivi: i colori delle squadre, ad esempio, o le facce dei calciatori; ci sono pure tappi con facce e battute di Totò. Ma sono solo due esempi.
La cosa che mi sembra più specifica del tappo a corona è, per così dire, il suo destino: tutt’uno con la bottiglia fino a quando si consuma la bevanda, solo a quel punto – separato dal vetro – il tappo acquista una sua indipendenza: viene preso in mano, ed è in quel momento che può esser guardato in una chiave diversa, come oggetto autonomo, appunto.
Non so, le confesso che non avevo pensato al tappo in questa chiave.
Mi vuol dire, insomma, che il piacere di raccoglierli viene prima del genere di osservazioni che le ho appena proposto.
Direi di sì. Uno comincia a mettere assieme degli oggetti senza farsi troppe domande. Poi, magari approfondisce settori speciali e circoscritti; c’è chi raccoglie solo coca-cola, o acque minerali, o tappi di particolari nazioni, o epoche di produzione.
Quello che mi chiedo è: “perché solo i tappi”? Non avrebbe più senso ricostruire, che so, l’interno di una birreria tedesca degli anni ’30, un pub inglese degli anni Cinquanta, un bar-sport di trent’anni fa? Riunire cioè tutti quegli oggetti – il bancone, le bottiglie, i boccali, gli stessi apribottiglie – che costituivano un insieme coerente e che erano, per così dire, in un rapporto di buon vicinato con i tappi a corona.
In effetti, ci sono quelli che collezionano anche altri oggetti connessi, come le etichette e i sottobicchieri. Quanto a me, non sono certo guidato da un movente storico, anche se devo ammettere che guardo con una specie di nostalgia ai pezzi prodotti da ditte scomparse e magari in luoghi marginali (come le colonie italiane). Ma in molti amici che collezionano non c’è nessun particolare interesse per il passato, solo il desiderio di un nuovo ordine, che poi è una nuova vita delle cose.
A proposito, so che siete in tanti.
Altroché, e non solo in Italia. È un po’ altisonante, ma esiste anche una “Crowncap Collectors Society International”; sul Web ci sono anche database, naturalmente corredati da fotografie, ad esempio il “Davide´s Collectors Database e Le Statistiche”.
Ho dato un’occhiata e sono rimasto colpito dalla quantità di materiali disponibili in questi siti; tra le varie cose, la possibilità di trovare nomi di collezionisti e descrizioni delle raccolte. Le donne sono rarissime, suppongo non sia un caso; era così anche nel mondo del collezionismo di secoli fa.
Lei continua a mettere la mia collezione sullo stesso piano, che so, delle raccolte d’arte, ma mi pare che siano due cose completamente diverse. Conosco personalmente collezionisti d’arte antica e contemporanea, ma non mi sento per niente un loro collega.
Immagino che sia così anche per loro, ma questo non vuol dire. In ogni caso, sono qui per chiarirmi le idee. So bene che i due campi sembrano molto distanti, di qua i tappi di una birra, di là un quadro d’autore, antico o contemporaneo che sia. Ma se facessi comparire delle figure intermedie – mettiamo, un collezionista di monete o un altro che ricerca solo dischi di jazz (in vinile) – si sentirebbe così lontano anche da loro?
È vero, ma le faccio notare che questi ultimi sono interessati quanto me prima di tutto al versante materiale delle cose.
Chi raccoglie opere d’arte non lo è? Rovesciando il discorso, sia in una raccolta numismatica, sia in una di jazz (come anche in una raccolta d’arte), il supporto materiale è solo un aspetto, quello che apre la strada ad altri itinerari, i percorsi che ciascun collezionista traccia a tu per tu con gli oggetti che possiede.
Può darsi, ma faccio fatica a ricostruire in questo momento i miei “percorsi”: mi pare che il rapporto coi miei tappi sia, tutto sommato, abbastanza semplice.
Sarà semplice, ma ci sarà pure una ragione se alcuni artisti contemporanei recuperano forme collezionistiche come la vostra. C’era, ad esempio, anche un tappo a corona (ma rovesciato) nell’installazione Hosentaschensammlung di Karsten Bott (1990-2010): una vera esposizione di quegli oggetti che possono entrare nelle “tasche dei pantaloni”. È come se gli artisti sentissero che pedinare i collezionisti può portarli su strade interessanti.
Devo ammettere che non ne so molto.
Per gli uni e per gli altri il versante materiale è un mezzo e non un fine. Ho guardato un po’ i vostri siti e mi pare di trovarne una continua conferma: si discute di criteri di ordinamento (marche, simboli, loghi), di iconografie, di date e, soprattutto, di luoghi di produzione delle bevande (e dei tappi), in una sorta di geografia parallela che va dalle Barbados agli Stati Uniti, dalla Germania alle isole Andamane. Anche i minimi dettagli (ad esempio i numerini che si leggono a volte tra le pieghe della corona) servono in definitiva all’elaborazione di un sapere estremamente specialistico.
Si cerca di far parlare gli oggetti. Come quando le ho mostrato un tappo della Coca-Cola prodotto a Cuba, evidentemente prima della rivoluzione castrista: la storia si racchiude anche in un oggetto minuscolo. Ma, ripeto, in generale non è la prospettiva storica che ci interessa.
Ne sono sicuro, ma deve ammettere che il vostro gesto è pur sempre un metter da parte, un preservare, un conservare; alla fine, un confrontarsi col tempo.
Può darsi.
Tanto più che in poche collezioni come in questa la parola "raccogliere" ha un senso preciso: letteralmente prendere da terra, se non addirittura recuperare dai rifiuti. La parabola del tappo è infatti questa: il momento funzionale, primario (chiudere un recipiente) e secondario (decorarlo e comunicarne il contenuto); poi il momento dello scarto; infine l’ingresso nella collezione.
Le cose sono ancora più complicate: bisogna distinguere tra tappi usati (quindi stappati dalla bottiglia) o non usati (quindi reperiti direttamente dalla fabbrica dei tappi o dall'imbottigliatore). Ci sono collezionisti che disdegnano i tappi usati e cercano solo gli altri. Ho conosciuto invece un francese che aveva l'interesse opposto, gli piacevano solo quelli usati, quasi che solo l'avvenuto uso (le ammaccature, la ruggine, etc.) conferissero dignità al reperto. Costui aveva addirittura in garage un marchingegno con il quale rendeva "usato" un tappo nuovo di fabbrica, rendendolo accettabile.
Comunque sia, c’è un momento in cui il valore d’uso resta come ricordo e subentra il valore estetico.
Direi, più semplicemente, il piacere di guardare e toccare gli oggetti.
Senz’altro, ma la cosa importante è sottolineare che questi gesti sono fatti in un contesto in cui sono presenti – a decine o a migliaia, non importa – altri pezzi; quasi che la perdita di senso che si verifica nel momento in cui il tappo non “serve” più sia compensata dall’aggregazione di pezzi simili. Sto ripetendo con parole mie le cose che scriveva molti anni fa Walter Benjamin: “Ciò che nel collezionismo è decisivo è che l’oggetto sia sciolto da tutte le sue funzioni originarie per entrare nel rapporto più stretto possibile con gli oggetti a lui simili. Questo rapporto è l’esatto opposto dell’utilità, e sta sotto la singolare categoria della completezza”. A proposito di “oggetti simili”: posso chiederle quanti tappi a corona possiede?
Quasi centomila.
Me lo ha detto esitando, con una specie di ritegno.
Perché dichiarare un numero del genere è come rivelare – senza giri di parole – anche le dimensioni della passione.
Ma è proprio questo che colpisce (e interessa) in voi collezionisti! Il vostro subire un’attrazione, si direbbe, irresistibile. Senonché, nel caso dei tappi a corona, ciò che regola tutto è la serie: siamo davanti a un tipo di collezione impensabile al di fuori della produzione industriale e, per questo, perfetta espressione della cultura materiale del Novecento e della contemporaneità.
Prima che lo dica lei, un fenomeno “pop” in tutto e per tutto.
Ho di nuovo l’impressione che lei dia una lettura riduttiva della sua attività di collezionista. La forma per eccellenza “pop” del collezionismo mi sembra un’altra, quella che si comprava (e forse si compra ancora) in edicola: i “minerali da collezione”, le bambole “in porcellana autentica”, le pistole “in scala”, la “collezione ufficiale dei supereroi”. Qui la collezione è diventata niente altro che un prodotto che si acquista. Insomma, non è una collezione; è, appunto, una sua riproduzione, lontana dall’originale quanto un’auto “in scala”.
Sono d’accordo.
Per voi la serie è qualcosa di più ambiguo, è una sorta di idolo a due facce. La prima dice minacciosa: “la serie prima o poi finisce!”; l’altra replica invece: “i birrifici continueranno a produrre e in tutto il mondo”. La prima insiste: “la serie è il tuo limite, non puoi uscirne!”; l’altra ribatte: “le serie sono binari su cui avviarsi sicuri, senza rischiare l’accumulazione indistinta degli oggetti”. Sì, perché le cose hanno di per sé un potenziale attrattivo, indipendentemente dal fatto che siano utili o inutili, antiche o moderne, belle o meno. Astuzie del collezionismo: la serie come antidoto all’attrazione del caos.
Non saprei. In ogni caso, le assicuro che mettere ordine nella discontinuità delle immagini, nella vertigine di loghi e marche, nella dispersione delle aree di produzione è un piacere di per sé.
Trattare le serie incide anche sul rapporto con gli altri collezionisti.
Certo: tra noi c’è un continuo scambio di informazioni sugli oggetti stessi, a volte tutt’altro che semplici.
Mi hanno colpito quei tappi, mi pare sudamericani, con scritte rivolte proprio agli “amici collezionisti di tappi corona”; su alcuni compaiono addirittura le foto di alcuni collezionisti. Allora, non è per niente bizzarro quel passo di Jean Baudrillard (Sistema degli oggetti), su cui ha richiamato l’attenzione Elio Grazioli (La collezione come forma d’arte); nella collezione, secondo Baudrillard, si assisterebbe a un “processo di proiezione narcisistica”, al punto che “in realtà si colleziona sempre il proprio io”.
Sì, sono casi curiosi: è un collezionare un collezionista! In ogni caso, il rapporto con gli altri è lo spazio per la competizione, il confronto con quelli che potrebbero avere più pezzi dei tuoi e, soprattutto, i pezzi che tu non hai.
La rarità, uno dei pilastri del collezionismo di ogni genere e di ogni epoca. Ho l’impressione che il fenomeno del collezionismo debba essere definito non tanto dagli oggetti che vengono raccolti, ma dai moventi che fanno da base alle azioni fondamentali: la caccia, il possesso, la contemplazione (e tutte le altre operazioni complementari).
È stato un piacere, ma devo lasciarla: mentre eravamo qua a parlare, sono arrivati cinquanta post dal gruppo “what’s up” dei miei colleghi e – sa com’è – a guardare le foto ci vuole tempo.