Jullien. Lo spirituale dell’arte
Suggerendo di “nutrire la vita”, lo Zhuangzi evita il ricorso alla ripartizione socratica fra anima e corpo, una delle pieghe più solide, fino a ieri, del pensiero dell’Occidente. Neppure si richiama a quel che ci appare un’evidenza indiscussa – l’evidenza è quel che non si pensa più, o meglio, che non si pensa più a pensare, ricorda Jullien –, che abbiamo creduto universale, cioè il fatto di avere un corpo, di poter affermare “Questo è il mio corpo…”. L’etnologo Max Leenhardt riportava la risposta dell’indigeno della Nuova Caledonia al missionario occidentale che si vantava di aver fatto conoscere l’esistenza dello spirito ai “primitivi”: no, l’esistenza dello spirito ci era ben nota, di anime era ricco il nostro universo, quel che ci avete portato è il corpo (vedi Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, 1987).
È l’Occidente ad aver promosso, fino a farne un presupposto, un pre-pensato, il corpo in quanto entità isolabile nel mondo “oggettivo”: corpo come unità anatomica, divisibile in parti, secondo quella logica compositiva che è propria della nostra Ratio e per la quale la realtà si forma assemblando elementi, sul modello della struttura alfabetica che compone parole a partire da atomi-lettere. Già in Grecia, in sintonia col prevalere del gusto per l’analisi, per la scomposizione, la medicina si è rivolta al corpo secondo la prospettiva anatomica, lo ha pensato a partire dalla luce funerea che svelano le disiecta membra del cadavere.
Che le parti formino un tutto dall’identità definita e dalla forma stabile trova conferma nella nostra tradizione artistica dove si svelano gli a priori indiscussi del pensare. L’ideale della bellezza classica è il Nudo, il corpo statuario – ce lo ricorda il Trattato della pittura di Leonardo, e così sarà per l’età moderna –, interpretato come un sistema fisico, soggetto ai principi rigorosi della meccanica e percepito secondo i criteri dell’ottica geometrica. La condizione di possibilità del Nudo – ha ricordato François Jullien in Il nudo impossibile (Sossella, 2004) – è l’integrazione nella morfologia: dalla “forma” che si offre ai sensi, morphé, dal contorno che circoscrive l’involucro materiale, l’artista è chiamato a risalire alla “forma ideale”, eidos, a statuto ontologico. Il Nudo rappresenta l’archetipo del corpo, la forma che si smaterializza dal sensibile, nell’illusione di vincere il richiamo della sensualità carnale per conquistare il piano della purezza ideale, ribadirà Plotino, quasi a ricapitolare il percorso della grecità; è dalla forma che la cosa riceve la sua determinazione, quel che ne fa ciò che è, l’essenza o “quidditas” degli scolastici. Il Nudo è forma definita, si staglia delimitata e distinta sotto il vincolo dell’immobilità, perché è la posa a renderlo possibile. Risponde così pienamente al gusto dei Greci per il limite – l’horos a cui dobbiamo il nostro “orizzonte”, quel che chiude lo sguardo rivolto al paesaggio, e da cui deriva orismos, de-limitazione e de-finizione, termini di cui si fatica a trovare corrispettivi nella lingua/pensiero della Cina. Di qui si origina il nostro ideale di Bellezza, intesa come de-terminazione attraverso la forma (Jullien lo ha ricordato in Quella strana idea di Bello, 2010, Il Mulino, 2012). Formata et distincta, dice Agostino della bellezza; essa appare quando l’in-finitudine fluente della materia è fissata dalla forma che, rendendola una, la estrae dalla confusione del divenire per astrarla nell’Idea.
Ora, se ci volgiamo a quell’altra forma d’intelligibilità con cui la Cina ha dato “coerenza” alla realtà – alla lettera, l’ha tenuta insieme – non troviamo forma compiuta che rappresenti l’essenza dell’ente, ma solo fasi del processo di formazione. La forma non è che lo stadio transitorio di una trasformazione sempre in corso: non l’eidos che sfugge al divenire, ma una pausa momentanea del continuo procedere del mondo. E il “corpo” è la forma attualizzata (xing) del soffio-energia (qi) che regola il processo, non possiede un’identità stabile a cui attribuire valore di sostanza. Aristotele poteva definire l’anima come la forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza, incrociando la coppia disgiuntiva atto/potenza a quella forma/materia. Ma in Cina, come non vi è anima individuante, così non vi è materia nel senso della ulé variabile e corruttibile; vi è semmai “materializzazione” per concrezione continua (sotto il fattore yin) e nello stesso tempo “animazione” che vivacizza e dispiega (sotto il fattore yang). In questa prospettiva, l’organismo non è più inteso in termini anatomici e morfologici, è invece un sistema aperto attraversato da condotti nei quali scorre l’energia lungo “meridiani” che, come linee di forza in un campo magnetico, sono vettori di flusso su cui intervenire per sbloccare eventuali ostruzioni. È per questo, osserva Jullien, che possiamo vedere nella pittura cinese il corpo svestito raffigurato sommariamente come un sacco: un ricettacolo bucato, di cui non è rilevante la con-formazione, ma il reticolo della diffusione di energie infinitamente sottili.
Il che spiega perché, invece di dedicarsi alla raffigurazione del corpo umano, la Cina abbia privilegiato, mille anni prima di noi, una pittura e poi una poesia di paesaggio. Erede dei Greci e del loro culto del limite con cui sfuggire il terrore dell’illimitato e del vago, l’Occidente ha concepito il paesaggio a partire dall’orizzonte che lo chiude, perdendone l’inesausta apertura verso lontananze indefinite. Il pensiero del paesaggio ha conosciuto una breve fioritura nell’Ottocento, a partire dallo sguardo mistico di Friedrich e dal “nuvolismo” (John Ruskin) di Turner, erede di Constable, fino a Cézanne. Col venir meno del culto del Bello come dell’esigenza della rassomiglianza, il paesaggio non è più stato relegato a colmare lo sfondo disabitato dalle figure umane, ha abbandonato il ruolo scenografico che ancora aveva nei Fiamminghi o nella pittura italiana del tardo Quattrocento – lo ha spiegato Kenneth Clark (Il paesaggio nell’arte, 1949, Garzanti, 1985). Ma la sua nozione è rimasta impigliata nella “piega” che ogni lingua traccia al pensiero: “paesaggio” – termine che compare da noi ai primi del ‘500 – rimanda a “paese” (pays o land), si definisce dunque come la parte di un paese che la natura presenta all’osservatore. Una definizione in cui, oltre alla logica compositiva parti/tutto, ritroviamo la contrapposizione fra il soggetto che osserva e l’oggetto naturale, nel solco legittimato dal primato della visione. La vista è il senso che più mette a distanza, “fissa” (nel duplice senso) quel che percepisce, lo separa nello spazio e lo prepara così alla de-terminazione per astrazione del concetto; ma essa ci fa perdere la dimensione d’ambiente, il sentirsi, non tanto parte, quanto partecipi di un environnement in cui siamo già da sempre immersi.
Nella tradizione pittorica della Cina non prevale la logica della rappresentazione, l’esigenza mimetica che ha dominato la nostra estetica fino all’altro ieri. Un passo di Su Dongpo, pittore di paesaggio dell’XI secolo, esprime con chiarezza, ricorda Jullien, l’emancipazione dall’obbligo puerile della rassomiglianza: “gli uomini, animali, case, mobili hanno una forma costante. Invece montagne e rocce, bambù e alberi, increspature dell’acqua, nebbie e nubi non hanno una forma costante, ma hanno una natura interiore costante”. Il corpo umano viene accostato ad oggetti inanimati, e questo perché appare qualcosa di normato e uniforme, dotato di una forma stabile: ma “la grande immagine non ha forma”, viene detto in uno dei testi principali del Taoismo, il Laozi, formula da cui Jullien ha tratto il titolo del suo libro più significativo sull’estetica cinese (Colla, 2004). Con un altro accostamento che a noi pare incongruo, le rocce, quanto di più statico sta sulla terra, si apparentano alle nuvole, emblemi della variabilità imprevedibile nel cielo; ma nella classificazione del mondo sviluppata dalla tradizione cinese le rocce sono le “radici delle nuvole”. Del paesaggio non c’è rassomiglianza possibile, non si lascia “fissare” essendo inesauribile nelle sue variazioni, se non ingaggiando la battaglia di Cézanne “contro” la montagna Sainte Victoire. Il pittore deve coglierne allora non l’apparenza esteriore o la con-formazione, ma la “natura interiore”, cioè la coerenza interna (chang li) che mantiene in tensione gli opposti correlati che lo animano. Il paesaggio non è più una parte ritagliata dal tutto, ma è già il tutto perché in esso è attiva l’operazione del mondo nella sua interezza, il continuo rinnovarsi per alternanza del Qi. E così, mentre l’Occidente ha coltivato il sogno del giardino come spazio chiuso e separato dal mondo, in Oriente (lo sapeva Italo Calvino, “lettore” dei giardini di Kyoto) anche il giardino assume le vesti del paesaggio, nel gioco tensoriale fra roccia ed acqua.
La lingua della Cina costruisce gli enunciati ponendo in correlazione gli opposti: parlare/pensare (quel che da noi si attribuisce al logos) non equivale a comporre, secondo la coppia analisi/sintesi, decantata dalla metodologia della scienza moderna, ma ad accoppiare i contrari. La coerenza nasce dalla correlazione: la nozione di “cosa”, quanto vi è di più banale, si dice in cinese dongxi, cioè “est/ovest”, non un che di unitario, ma un binomio, una dualità senza dualismo. Da noi la filosofia ha ben presto smarrito il lascito di Eraclito (fino al parziale recupero hegeliano), la logica degli opposti inclusivi e complementari che si richiamano; una volta sancito il dominio dell’Essere e dell’Idea che esprime l’essenza unitaria, il principio di non-contraddizione ha portato con sé l’esclusione del terzo, del misto, del tra. In Cina, anche il paesaggio è correlazione di opposti e l’ideogramma che lo designa equivale a montagna(e)-acqua(e) (shan-shui): a costituirlo non sono componenti o parti da assemblare, quanto – ricorda Jullien nel capitolo “Tra (vs Al di là)” di Essere o vivere (Feltrinelli, 2016) – il tra-fattori o tra-vettori: Alto e Basso, verticale e orizzontale, solido e fluido, stabilità impassibile e continuo fluire; tra la forma compatta del rilievo e il senza forma che si adatta ai contorni delle cose; tra ciò che si vede di fronte a sé e quel che si sente scorrere attorno. Vi è un altro binomio cinese per significare il paesaggio ed è vento-luce (feng-jing): il soffio del vento rimane invisibile, ma ne costatiamo gli effetti nell’erba che si piega, nelle foglie che si agitano, è lo slancio che fa vibrare gli enti oscillanti fra ombra e chiarore. Mentre le creste dei monti risplendono e si stagliano nella luce, nell’ombra dei loro fianchi resta la confusione originaria, traspare lo sfondo senza fondo da cui viene il mondo.
Il paesaggio non “è” in questo o in quell’elemento e neppure nell’accostamento di aspetti diversi; non basta che vi sia contrasto o varietas, neppure differenza che si limita a giustapporre fianco a fianco, come negli erbari o nelle collezioni. Occorre invece che vi sia scarto, con il quale si introduce, non una distinzione, ma una distanza che mette in tensione ciò che è separato: nel paesaggio si apre così del tra, che non ha luogo proprio e sfugge alla presa ontologica. L’effetto di paesaggio non rimanda ad un’armonia intesa come assemblaggio di parti, non si risolve nella geometria che vi soggiace; dipende dal campo tensionale, dal gioco delle polarità che attiva fattori d’intensità e produce un’intensificazione del vivere. Il paesaggio non è l’ob-jectum posto davanti allo sguardo dell’Io che impone il suo punto di vista, secondo lo schema prospettico che vale per una veduta o un panorama, ma è l’ambiente diffuso da cui lasciarsi assorbire fino a trovarsi integrato. Il “soggetto” non emerge assumendo la postura dell’autosufficienza dell’“io penso”, non pone il mondo come oggetto (gettato davanti, ob-iectum) sul quale esercitare il potere sovrano di “ob-servare”. Nel paesaggio non siamo più spettatori, lo scopriamo da diverse angolazioni, lo contempliamo in base ai diversi modi della lontananza, e così facciamo esperienza di “sprofondare” nel paesaggio, passeggiando e vagando con il pensiero e la rêverie. Così, come il pittore di paesaggi Wang Fô in una “novella orientale” di Marguerite Yourcenar, ci si può perdere all’interno di una pittura. La tensione tra vettori opposti diventati correlanti fa sì che il paesaggio si animi e si sviluppi come ambiente in cui la vitalità si espande: non più confinato in un luogo, il paese diventa un mondo disponibile, dove si può infinitamente “evolvere”, si promuove in spazio in cui praticare un’arte del vivere. Nel respiro che anima il paesaggio si trova di che “nutrire la propria natura di fondo” e risvegliare la vitalità: possiamo dunque Vivere di paesaggio, suggerisce Jullien fin dal titolo di un suo saggio (Mimesis, 2017).
È proprio la “tensione animante” da cui ha origine la vita quel che il pittore cinese cerca di rendere in figura (ma è ancora figurazione?). Nei contorni sinuosi, nelle svolte continue di rocce e nuvole, nelle linee di forza che tendono il rilievo – il cinese utilizza il termine mo, lo stesso delle arterie che fanno battere il cuore umano –, lo slancio del pennello fa emergere l’energia che vitalizza il paesaggio. Picasso, rivolgendosi al “Cinese” Malraux, gli ricordava che proprio i Cinesi avevano scritto quel che conta davvero in pittura: “non bisogna imitare la vita, bisogna lavorare come lei”. Il pittore dipinge il mondo che emerge dalla confusione originale o ripiomba in essa, quando le cose, rese evanescenti da vapori e nuvole, stanno per accadere o tendono a scomparire.
Alla pittura come alla poesia (entrambi arti del dissolvere la presenza nell’assenza) spetta dispiegare atmosfere indecise, l’indistinto della transizione, l’annunciarsi della pioggia o il ritorno del sereno, il momento incoativo in cui si avverte il tra-passare dall’oscurità alla chiarezza e viceversa. Non dunque il paesaggio del Mezzogiorno caro alla Classicità, dai contorni definiti e dalle ombre nette, la cui luminosa trasparenza induce a credere in una cristallina geometria di essenze pietrificate dal sole. Il paesaggio rivelatore è quello dell’imbrunire, quando gli enti sfumano progressivamente, la presenza si diluisce e il mondo emerge e si immerge tra il c’è e il non c’è. La virtù della pittura in Cina è di mantenersi evasiva, di decantare la materialità del sensibile mediante il vuoto, sulla seta o sulla carta, per farne emergere “la dimensione di spirito” (shen).
Da noi si è detto che l’arte ha il compito di rendere visibile l’invisibile, facendo di essa una propedeutica – lo ribadirà la triade dello Spirito Assoluto hegeliano – alla trascendenza mistico-religiosa. In antitesi allo “spiritualismo fossilizzato” della meta-fisica dell’Occidente, la peculiare spiritualità della tradizione cinese, “taoica”, manifesta la presenza dell’invisibile nel visibile stesso. Ignorando il dualismo platonico-cristiano – come Jullien ha spiegato in L’invenzione dell’ideale e il destino dell’Europa (Medusa, 2011) –, la cultura di matrice confuciana non introduce alcuna frattura di piani, non rimanda alla fede nel sopra-naturale: lo spirituale è il concreto che si è diluito e depurato, non reclama un altro mondo ma è ciò che fa comunicare dall’interno questo mondo, è l’animazione che si svela nella materialità, non rientra nell’ordine dell’Essere, ma del processuale. In Cina, lo spirito è in primo luogo quel che emana dai corpi, un senso che sopravvive in “spirito del vino” o di un profumo; indica ciò che procede da una sublimazione, la quintessenza che esala dal fisico ma senza separarsene. Ci accostiamo così al significato che anche nella nostra cultura aveva lo Spirito. Psyché, prima di accedere all’immateriale dell’anima ed essere accostato al pensiero (nous), era l’ultimo respiro; prima di diventare lo spirito di Dio che aleggia sulle acque e poi lo Spirito santo, l’ebraico ruah era il soffio di vita e il sibilare del vento. Lo “spirituale” cinese si sprigiona dal sensibile per giungere alla limpidezza, dissipando così l’opacità e l’inerzia del mondo; si estrae dalla concrezione materiale, al pari dell’atmosfera di un luogo o dell’aria di un volto. L’aura del paesaggio – l’aura di cui Benjamin lamentava la perdita nell’arte contemporanea – è intesa ad immagine dei vapori tiepidi che si levano dal fondo delle valli, sfumano e rendono nebulosi i contorni, fino a fondere le forme del rilievo. Fondere (rong: al contempo liquefarsi e mescolarsi) esprime la compenetrazione in cui i diversi convivono, il rendersi fluido del solido, suggerisce il “tra” della transizione: è il termine, suggerisce Jullien, che per eccellenza non separa, l’esatto contrario del tagliare, il temnein platonico, quel “dividere”, “recidere” e “decidere” che è il tratto dominante del pensare dell’Occidente. Il saggio che segue la Via, il Tao, cioè si rende disponibile ai momenti, diffida della ragione discorsiva che si limita a sezionare, ciò che la lingua cinese chiama bian, “tagliare” e “tranciare”, da cui anche “discutere, argomentare”.
Il paesaggio è un invito e un incitamento ad immergersi nelle sue circolazioni, ad oscillare tra la prossimità e la lontananza che si prolunga senza fine verso l’indistinto, senza velleità di accedere all’altrove della salvezza e della verità, alla frontiera dell’invisibile che evoca l’infinito o l’eterno del nostro poeta-filosofo. Ecco perché si può “vivere di paesaggio”: vivere è appunto spingersi sempre più lontano, trascendenza interna che affranca dai limiti del sensibile, ma senza abbandonarlo. Ma vivere, rileva Jullien in Philosophie du vivre (Gallimard, 2011), domanda un sapere altro rispetto al conoscere promosso dalla filosofia greca e proseguito dalla scienza. Non tanto una conoscenza ma una connivenza: connivere dice in latino l’intendersi “con un cenno degli occhi”, una com-prensione che si tesse giorno dopo giorno e, invece di porre a distanza per oggettivare, ci trattiene nell’aderenza. Sapere che conserva la “tacita intesa” con gli elementi naturali e la complicità con gli altri, la connivenza ha il carattere intracomunitario del dialetto, è veicolata dalla memoria, non dalla Storia (si veda François Jullien, Il ponte delle scimmie. Sulla diversità che verrà, 2010, Lindau, 2017). Si può “vivere di paesaggio”, allora, quando, crollata la barriera dentro cui l’io si ritira, ci si avverte restituiti al mondo non-umano che, invece di apparire estraneo e indifferente, suscita emozione e fa risuonare un “non so che”, una vibrazione nella nostra interiorità – un paesaggio è come un archetto, diceva Stendhal.
Alla lettura nel ’27 di Essere e tempo, il filosofo giapponese Watsuji Tetsurō restò deluso per non aver ritrovato nell’analitica dell’esistenza di Heidegger un ruolo per lo spazio pari a quello assegnato al tempo. Così il Dasein “non è mai andato al di là del singolo”, proprio per non aver riconosciuto la rete di relazioni che l’esistenza tesse con l’ambiente, insieme naturale e culturale, quel che la lingua giapponese chiama Fudo, letteralmente “vento-terra” (Vento e terra. Uno studio dell’umano, 1935, Mimesis, 2014). L’essere umano è per essenza relazione, simile in questo allo spazio della casa giapponese: quel che conta è “in mezzo” (aida), il tra direbbe Jullien, il vuoto fra le mura che consente il passaggio, la distanza che connette, l’interfaccia (aidagara, dove gara è volto, carattere e figura) grazie al quale il sé esce fuori (ex-siste) e comunica con l’altro. Nella poesia del Giappone e della Cina, le impressioni climatiche e i riferimenti stagionali esprimono una connessione al mondo nel suo mutare e diventano modelli di autocomprensione umana. Noi abbiamo invece ridotto le emozioni a stati d’animo psicologici e individuali – come la tonalità affettiva (Stimmung) heideggeriana della noia o dell’angoscia – e abbiamo dovuto ricorrere al correlativo oggettivo della poesia per cercare di saldare quel che abbiamo separato.
L’esperienza del paesaggio si svela così una “risorsa” per la filosofia: frantuma l’opposizione classica fra ragione e passione (l’errore di Cartesio, avrebbe detto Antonio Damasio), sospende il privilegio dell’io, buco nero che tutto assorbe nel pensiero della modernità. Senza scadere nel rifiuto polemico della ragione, l’esperienza del paesaggio ci fa risalire allo stadio in cui si mantiene il nostro ancoraggio alla natura, quella co-originarietà fra l’io e il mondo di cui parlava Merleau-Ponty. Un mondo in cui non sono gettato, come voleva Heidegger, semmai vengo ospitato; quando, alla fine del XIX secolo, la lingua cinese ha cercato di tradurre il binomio soggetto/oggetto ha fatto ricorso ad un ideogramma che equivale ad “accogliente/accolto”. La connivenza è il sapere, ricorda Jullien, che non ha rotto il suo attaccamento, quello del bambino nel grembo della madre, quello che gli antropologi ritrovano nelle culture “primitive”: un sapere in cui i sensi e l’intelligenza non sono dissociati, in cui è il gesto che comprende, in cui sono le membra che scoprono. Forse quel paradiso perduto della nostra infanzia e dell’umanità lo vediamo riaffiorare quando si tesse, in modo sotterraneo e silenzioso, un fondo d’intesa tra due amanti, che fa circolare fra loro non l’eros ma la “risorsa” dell’intimo. Non dobbiamo forse ridiventare conniventi – come si dice ridiventare bambini – per leggere una poesia, per ascoltare l’implicito più profondo a cui i versi tentano di dare voce e che non può affiorare nel discorso?
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