Un'intervista / La mia battaglia di Elio Germano e Chiara Lagani

12 Marzo 2021

Elio Germano entra dal fondo della sala. Inizia a dialogare amabilmente con gli spettatori, a presentare alcune idee, una sua battaglia per riformare (almeno un po’) un mondo che non va bene. È simpatico, ironico, accattivante. Convince gli spettatori, attirati a teatro dalla sua fama, dalla sua personalità. E li trascina in una voragine. 

Per capire quanto profondo sia il crepaccio, provate a tradurre in tedesco La mia battaglia, il titolo dello spettacolo con cui ha girato nel 2018, ora diventato un libro per Einaudi. Ha scritto lo spettacolo e il libro con Chiara Lagani, fondatrice e drammaturga di Fanny & Alexander, e insieme ne hanno spiegato intenti ed esiti in fondo al volume in un’ampia intervista a cura di Rodolfo Sacchettini. Qui Germano e Lagani ripercorrono tutta la storia.

 

Fotografia: ©Enrico De Luigi.


Come nasce lo spettacolo?

 

GERMANO: Ha origine da idee che avevo su alcune questioni, su sensibilità sulle quali sentivo i nervi scoperti. Premetto che per me il teatro non può essere ridotto a un quadratino più o meno grande da guardare; il teatro che mi piace fare deve accadere, qui e ora, con gli spettatori. Avevo intenzione di trovare qualcosa che potesse coinvolgere, in base a certe riflessioni che avevo fatto sul nazifascismo, sul fatto che lo abbiamo sempre raccontato come qualcosa di alieno da noi, di demoniaco, di malvagio, e questo non ci ha permesso di fare i conti con la nostra parte di responsabilità nella storia. Sulla base di questi pensieri e di una riflessione sul ruolo del comico, del personaggio che è sotto i riflettori con un microfono in mano, con un potere che incarna la volontà di leaderismo del pubblico, mi è venuta l’idea di fare uno spettacolo su un comico che trascinasse sempre di più il pubblico a una deriva, rendendolo piano piano corresponsabile di scelte che alla fine l’avrebbero portato a sposare il male assoluto. 

 

Come è entrata Chiara, in questa idea?

 

GERMANO: Mi era venuto in mente che questo personaggio potesse essere addirittura Hitler. Con Chiara ci eravamo incontrati al Valle occupato, dove io avevo visto Him, uno spettacolo molto bello, che presentava in scena un personaggio simile al “Piccolo Hitler” di Maurizio Cattelan. L’ho chiamata, ci siamo interrogati su come sviluppare il tema e poi abbiamo ideato e strutturato vari meccanismi…

 

LAGANI: Quando la prima volta Elio mi ha parlato del progetto mi è sembrata subito una sfida eccitante. Diceva: io vorrei che gli spettatori non si accorgessero di scivolare su una china terribile, e che per opera del linguaggio noi riuscissimo a farli passare in un’oretta da una situazione estremamente piacevole, di condivisione tranquilla di idee diffuse, sul merito, sulla competenza, per gradienti sempre più minacciosi fino all’orrore. Solo alla fine avrebbero dovuto rendersi conto, con un moto di terrore, del gioco serio che era stato fatto, quando appariva la figura di Hitler, e così si sarebbe generata una piccola catarsi… Mi sembrava una sfida interessante per un attore, farsi attraversare in un tempo limitato da un’esperienza molto forte, riuscendo a trasformare l’empatia in diffidenza e poi in ostilità. Un passaggio non facile da gestire neppure per chi scrive. Avevo lavorato con Fanny & Alexander a lungo sull’idea di manipolazione, di etero-direzione dell’interprete, un tema che mi stava a cuore. Mi è sembrato un progetto travolgente: questo non sarebbe stato uno spettacolo ma qualcosa che figurava più come un esperimento sociale, un accadimento. A me piace molto quando in teatro partecipi a qualcosa che mette in gioco in maniera urticante, senza concedere tregua. Non è stato facile trovare la misura. Abbiamo esaminato vari meccanismi di manipolazione, dal voto con i telecomandini a varie congetture… A un certo punto pensavamo di portare armi in scena… 

 

Come avete fatto a testare le diverse possibilità? 

 

GERMANO: All’inizio lo spettacolo volevo chiamarlo L’Italia agli italiani, il delirio di un comico italiano che parlasse della conquista dell’Italia con le armi. Avevo anche studiato discorsi di vari politici. Poi è venuto fuori il Mein Kampf di Hitler, e di là il titolo, La mia battaglia. L’esercizio è stato quello di ritradurre alcune delle sue tematiche, soprattutto quelle meno riconoscibili, in un linguaggio contemporaneo che facesse presa sul pubblico con delle metafore, utilizzando gli schemi dell’originale, soprattutto quelli dei discorsi. A quel punto ho fatto alcune prove aperte – a me piace capire dai feedback quello che succede in scena. Cercavo di rendere digeribili i concetti di Hitler, non dichiarati come tali all’inizio, con esempi che a volte mi venivano improvvisando e che qualche altra volta erano strutturati… Insomma niente di meno di quello che fa un politico che va da un pubblico cercando di conquistarlo con le sue tesi: un po’ espone un copione, un po’ improvvisa... Quella dinamica ha permesso di ottenere una scrittura viva: il testo, come nell’esperienza di un politico, si è andato sempre modificando in relazione con il pubblico e la situazione.

 

Tu, Chiara, hai parlato di trappola linguistica.

 

LAGANI: A me piace moltissimo l’idea di un testo che non si ferma. È un animale vivo che accompagna la vita dello spettacolo in un angolo. Quando ti accorgi che la bestia è feroce è tardi, perché ti ha già ghermito al collo. Quello che pubblichiamo per Einaudi è un testo consuntivo. La pièce, se la analizzi a freddo, è un sentiero minato. Vedi che vi sono depositate piccole trappole, che si configurano in parole: sono parole insidiose, opache, che hanno un doppio significato, un doppio riflesso. Sono le parole che usa la demagogia populista, frasi e concetti che abbiamo sentito molto di recente: merito, interesse, competenza… Sono parole che hanno un aspetto apparente neutro o benigno ma che poi a un certo punto a poco a poco, quando monta l’onda scura, grigia, del discorso, diventano sempre più riconoscibili come concetti di una deriva manipolatoria. Allora il consenso si trasforma prima in disagio, poi in orrore. C’è una fase mediana, che per me è la più dura dello spettacolo – più ancora di quella in cui la gente inveisce contro Elio quando assume posizioni dichiaratamente xenofobe, razziste – ed è una zona grigia in cui sei esterrefatto ma non riesci a capacitarti di quello che sta succedendo. Proprio lì io avverto una tensione muscolare in sala, sento che i volti si girano, che le persone iniziano a parlare tra loro… È come se si chiedessero: sto capendo bene? Una signora a Follonica si è alzata di scatto domandando: ma questa è verità o finzione? Qui nella coscienza di ognuno si apre una crepa. Quando alla fine appare Hitler si è già consumato qualcosa… ma nel momento in cui sei incredulo rispetto a te stesso e quasi sei portato a tradire la tua convinzione di due minuti prima, quella è una zona linguistica, ma anche umana, interessante da indagare.

 

Fotografia: ©Enrico De Luigi.


Cosa succede dal punto di vista dell’attore? Chiara ci ha descritto le reazioni del pubblico: prima si fida di discorsi che sembrano condivisibili, si abbandona, crede comunque che l’attore non lo tradirà... Poi a poco a poco la fiducia viene messa in dubbio…

 

GERMANO: Qui il pubblico all’inizio non capiva a che tipo di spettacolo stesse assistendo. Puntavo a chi arrivava a teatro sulla fiducia. E proprio questo ‘sulla fiducia’ che è la zona inquietante, da cui partivano le riflessioni che mi hanno spinto a scrivere lo spettacolo… Mi trovavo davanti a un tipo di pubblico già affezionato e questa è una zona che mi colpisce molto, quanto noi decidiamo che siamo fan oppure oppositori di una persona e abbattiamo qualsiasi possibilità critica su quella persona, sul suo pensiero o sulla sua arte. Già ‘ci piace’, siamo col pollice in su, o ‘non ci piace’, riducendo le relazioni al linguaggio dei social. Io avevo già gli spettatori dalla mia parte. Entravo alle spalle del pubblico e cercavo, senza interpretare un personaggio, un tono reale, di conversazione. Il mio intento era quello di illudere gli spettatori che non ci fosse rappresentazione, che io entrassi in maniera inedita per parlare davvero con loro. Anche perché il titolo La mia battaglia poteva suggerire che ci sarebbero state dichiarazioni politiche della serie ‘scendo in campo’, che fosse un momento in cui Elio Germano andava in giro per l’Italia a spiegare le sue convinzioni o che cosa non andasse nel Paese... Giocavo anche su un altro tipo di fraintendimento, per cui all’inizio si rideva, poteva sembrare una forma di stand-up comedy. Poi i discorsi cominciavano a prendere una piega seria, cominciavo a esporre le mie tesi politiche, che per alcuni potevano essere convincenti, anzi alcuni non vedevano proprio l’ora di sentirle; altri già dopo una ventina di minuti, una mezz’ora, si chiedevano perché avessero pagato un biglietto per assistere a questo tipo di esternazione. E se non se lo chiedevano era pure significativo. Quando giravamo – era il periodo delle ultime elezioni – rimanevo colpito dal fatto che nelle stesse sale poco prima erano passati Salvini, Beppe Grillo, Renzi, a fare più o meno lo stesso tipo di spettacolo, con un finale probabilmente diverso, ma l’inizio e i tre quarti erano uguali, fare battute e arrivare di volta in volta ad avanzare temi facendoli passare per la cosa più giusta, cercando di conquistare il pubblico, ricevendo spettatori accorsi sulla fiducia. Per me è stato molto faticoso: andavo a violentare persone che si fidavano di me. È stata una cosa inquietante essere additato come leader o essere invitato a candidarmi… Qualcuno mi diceva, a priori: io la penso come te, senza sapere minimamente chi io sia, basandosi soltanto su affermazioni di interviste… Volevo rovesciare questa inquietudine, e in qualche modo l’ho fatto. Spero che le persone non si siano offese ma che sia servito a valutare una posizione che io oggi ritengo di estremo pericolo, il bisogno di leader. Li cerchiamo, e basta che una persona ci faccia ridere o ci piaccia che le deleghiamo il nostro pensiero o, al contrario, decidiamo che non ci piace, a prescindere da quello che fa. 

 

Mi sembra una riflessione sul populismo, sul potere dei social e sul nostro abbandonarci a essi, sulla manipolazione e sulla retorica. Ma alla fine anche un discorso sull’attore, perché esplora vari tipi di relazioni con lo spettatore, da quello che Brecht avrebbe chiamato abbandono gastronomico alla distanza critica, che in questo caso veniva generata non per ragionamento ma per choc.

 

GERMANO: C’era anche un percorso simbolico. Iniziavo in platea in piena luce, come se non fosse uno spettacolo; poi subdolamente, a mano a mano che lo spettacolo diventava più manipolatorio, andavo sul palco e la platea sprofondava nel buio, in modo quasi inavvertibile, fino all’ultimo momento in cui tutto diventava nero, appariva una grande svastica e io mi trasformavo in Hitler, e lì era puro teatro e puro simbolo. In realtà era un finto monologo: avevo una claque di una quarantina di persone sparse nella platea e tra i palchi.

 

Come la organizzavi? 

 

GERMANO. Avevo alcune mie comparse che nei diversi luoghi addestravano degli altri. È la stessa cosa che fanno i politici, nei teatri e nelle trasmissioni televisive. A mano a mano che lo spettacolo avanzava e che le mie tesi diventavano meno condivisibili, la claque emergeva. Applaudivano, ridevano, e sappiamo quanto un applauso o una risata possano essere contagiosi. Se parlavo male delle donne o dei disabili, qualcuno si alzava a darmi ragione… A un certo punto entrava un servizio d’ordine con le ricetrasmittenti finte, certi tipi di grossa stazza per eventualmente proteggermi… Se il pubblico cominciava a protestare, se qualcuno ardiva dire che non era d’accordo, veniva zittito. Interveniva un altro, un altro ancora, e parlavo anch’io… negli ultimi cinque minuti la mia voce quasi non si sentiva più: in sala succedeva di tutto.

 

 

Ti divertivi in questo gioco manipolatorio?

 

GERMANO: Era un divertimento – come dire – intellettuale. Dal punto di vista fisico era veramente faticoso e devastante, perché era un tradimento, dovevo essere sfacciatamente convincente all’inizio per essere funzionale: non riuscivo neppure a godermi le risate delle persone, perché sapevo dove avrei dovuto portarle. A un certo punto ho deciso di sospendere lo spettacolo e di farne una versione virtuale, Segnale d’allarme, con la quale siamo arrivati quasi a 20mila spettatori. 

 

LAGANI: Era molto faticoso anche per il pubblico perché c’era un elastico emotivo. Anche io, nonostante conoscessi bene il testo e sapessi dove sarebbe andato a parare, quando l’ho visto da spettatrice sono passata attraverso quelle zone. All’inizio vuoi divertirti, vuoi rilassarti, la risata grassa intorno a te accende la tua… Verso la metà subentra la diffidenza, quindi il disagio assoluto, palpabile intorno, si faceva strada anche in me. Evidentemente il meccanismo era potente. Alla fine, quando si alzano le comparse e circondano la platea, ti senti veramente in trappola. Ti dici: oddio, io da qui non esco. Provi un fremito di orrore, di paura. Alla fine gli spettatori non se ne andavano, erano talmente scioccati che rimanevano lì, aspettavano che Elio si cambiasse, e lo martellavano di domande: perché ci hai fatto questo? perché è successo questo? Io dico che quando il teatro riesce a fare una cosa del genere, una delle sue sfide l’ha vinta.

 

GERMANO: È stato come comprimere un processo storico in un’ora, con un passaggio dall’adesione focosa e volontaria alla deriva, dal sentirsi liberi e responsabili all’avvertirsi in trappola.

 

I prossimi impegni?

 

GERMANO: Sto lavorando sempre sulla realtà virtuale, su Segnale d’allarme. In questa versione lo spettatore entrando in sala trova il visore con le cuffie. Viene immerso in questa esperienza. In quel caso si ragiona anche sulla possibilità manipolatoria dello strumento tecnologico. Si è in uno spazio nero, davvero circondati, senza nessuna opposizione o protesta. E alla fine appare un montaggio di immagini di repertorio del Reich. In questa forma ha girato per le scuole e per i teatri. 

 

Altre cose?

 

GERMANO: La produzione mi ha proposto di fare un’ulteriore esperienza in questa modalità, su Pirandello, a partire da Così è se vi pare, con una riflessione sulla realtà di quello che vediamo e crediamo, di come spesso con i social ci troviamo a discutere animatamente o prendiamo posizione su cose che non esistono. Lo spettatore viene trasportato nel salotto dove si svolge la trama di Pirandello e ne diventa un personaggio. La realtà virtuale è una terza modalità di linguaggio rispetto al cinema e al teatro: è un po’ più del cinema e un po’ meno del teatro, anche come costo del biglietto, La tecnologia ti permette di essere al centro del film, nell’ambiente della storia. Poi in questo momento sto girando a Latina un film dei fratelli D’Innocenzo, America Latina

 

LAGANI: Noi, Fanny & Alexander, abbiamo provato a Ravenna un’opera, L’isola disabitata di Haydn, che andrà in scena in autunno. Io sono in procinto di consegnare a Einaudi la traduzione del terzo romanzo di Lewis Carroll, Silvia e Bruno. Di lì partirà un lavoro teatrale che debutterà quest’estate a Ravenna Festival. È quasi il testamento di Carroll: qui tutte le sue follie linguistiche, le sue follie immaginative, assumono un aspetto estremo. Si parla di sogno e anche di un terribile virus che stermina la popolazione di un Paese. Senza volerlo, diventa estremamente attuale.

 

Elio Germano, Chiara Lagani, La mia battaglia, Einaudi, p. 74, euro 10.

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