Laura Chiossone. Tra cinque minuti in scena
La stagione appena conclusa sembra fortemente segnata dalle connessioni e dagli attraversamenti tra cinema e teatro.
Accanto al discusso Sangue di Pippo Delbono, presentato lo scorso agosto a Locarno, e al debutto veneziano di Emma Dante con Via Castellana Bandiera, anche una piacevole opera prima si colloca nello stesso solco: si tratta di Tra cinque minuti in scena, firmato dall’esordiente Laura Chiossone (già autrice di cortometraggi, ma alla prima prova con un lungo).
Il film si colloca, per molti aspetti, sul versante opposto delle due pellicole sopra menzionate.
Se i lavori di Dante e Del Bono utilizzano linguaggi e visioni propri del teatro fino a contaminare le specificità del mezzo, Chiossone mette il palcoscenico al centro della sua narrazione cinematografica, snodo metaforico ed esistenziale per la protagonista. Gianna (che per timbro vocale e pettinatura non può che ricordare Mariangela Melato) è un’attrice alle prese con le prove di un allestimento precario e scalcinato: l’improbabile regista – che pare affidarsi interamente agli attori per la propria messinscena, e che non interviene mai con alcuna indicazione autoriale – giura di avere i fondi per la produzione ma non sarà in grado di pagare la compagnia.
Non mancano tutti i gustosi stereotipi di genere: la vecchia femme fatale che non si rassegna allo scorrere del tempo; l’assistente innamorata del regista; l’attrice incapace coinvolta nel cast con il solo scopo di attingere al portafogli del ricco marito (è la brava Elena Russo Arman della compagnia dell’Elfo, qui nei panni inediti di una “cagna” in stile Boris). Sullo sfondo di una Milano cupa e un po’ respingente, la vita di Gianna si consuma tra prove, brandelli di copione ripetuti a fior di labbra, e le cure costanti della madre novantenne e non autosufficiente: ed è proprio il rapporto madre-figlia – in un cortocircuito non troppo sorprendente tra realtà e finzione – ad essere al tempo stesso il tema dello spettacolo e il vero e proprio cuore pulsante del film.
Si misura qui, più che altrove, l’infinita distanza da Sangue, anch’esso dedicato alla perdita genitoriale e alla degenerazione del corpo: alla forza invasiva e volutamente disturbante della telecamera di Delbono – che segue l’anziana donna fin negli ultimi momenti d’agonia – si contrappone lo sguardo discreto, delicato e non privo di ironia della Chiossone. Eppure lo spettatore potrà riconoscere tutti gli elementi più dolorosi che caratterizzano ogni esperienza di cura e di malattia: il costante senso di oppressione che incombe sulla vita di Gianna e che le impedisce qualsiasi slancio; il continuo oscillare tra momenti di tenerezza verso il malato e di insofferenza involontaria per il disagio che sta procurando; la dipendenza dell’altro come catalizzatore fagocitante di tempo e di energie (Gianna, significativamente, riesce a malapena a mangiare un uovo). Ma accanto alla disperazione emerge, nella prospettiva tutta al femminile della Chiossone, la capacità di sorridere, di accettare la direzione che la vita prende al di là di ogni previsione: e non sorprende allora che ci sia spazio per un finale, se non felice, almeno promettente per molti dei personaggi coinvolti. La freschezza della scrittura e la generosità degli interpreti stornano il rischio di una caduta retorica: e a confermarlo è la riposta del pubblico, calorosa oltre ogni attesa.
Nato come film indipendente senza troppe aspettative di distribuzione, Tra cinque minuti in scena ha guadagnato sul campo l’attenzione della critica e delle sale più attente alle nuove proposte (a Milano è stato proposto dal cinema Mexico). L’attivo gruppo Facebook del film dà notizie sulle date in programmazione e chiede aiuto “nel passaparola di promozione”: una buona pratica di diffusione dal basso che ci auguriamo prosegua con la stessa efficacia.