L'arte non è una faccenda di persone per bene / Lea Vergine. Gambe, fumo e bellezza

7 Dicembre 2016

Nella quarta di copertina del libro di Lea Vergine, L’arte non è faccenda di persone per bene (Rizzoli) c’è una foto scattata da Francesca Giacomelli. Lea è seduta su una pietra scolpita, guarda avanti, quasi nel vuoto; è vestita in modo elegante, indossa un cappellino e tiene con la mano destra un bastone; lo allontana da sé, come ad asserire qualcosa di scontroso: lo uso ma lo patisco. Il bastone è un segno della vecchiaia. C’è anche una borsa appoggiata sulle sue gambe. Le gambe, ecco. Non so se questo è il punctum, come lo intendeva Roland Barthes, di certo è la prima cosa che si vede. Sono le gambe di una ragazza, quella ragazza che Lea è sempre stata ed è rimasta, e che questa conversazione con Chiara Gatti mostra in modo evidente. Le gambe e poi i piedi infilati nelle scarpe che sembrano così lunghe. 

   Le gambe sono state per Lea Vergine un rovello, o almeno un segno distintivo. Nel 1960 invitata a tenere una conferenza all’Accademia di Belle Arti di Napoli si siede dietro a un tavolo aperto. Le si vedono le gambe. Devono essere belle perché il giorno dopo su “L’Unità” esce un pezzo in cui l’articolista spiega che la sala era piena di pubblico: la gente era venuta a guardare le gambe. “Allora ero ingenua e provocatoria allo stesso tempo”. Spiega alla sua interlocutrice. “Invece di prenderla con ironia e concludere: “Hanno detto che ho delle belle gambe!”, Lea fa causa al giornalista perché lo ritiene offensivo. Va in tribunale e il giudice le chiede di alzarsi. Vuole guardarle le gambe. Sentenzia: “E che sarà mai? Non sono mica gambe speciali”. Così la conferenziera vince trecentomila lire. Aveva torto il giudice. Stando alla foto le gambe di Lea sono belle. Ma c’è altro. 

 

La bellezza è il grande tema della vita di Lea Vergine, è ciò che fa di lei una delle critiche d’arte più interessanti degli ultimi cinquant’anni in Italia. Il culto della bellezza, non solo della propria; anche di quella, perché come mostra questa fotografia Lea Vergine è bella oltre che elegante. Della bellezza in generale. La bellezza del vivere, che ha per lei un nome preciso: Napoli, la sua città d’origine, con la sua bellezza struggente così coinvolta con il suo opposto da non poterne fare a meno. A Napoli anche la bruttezza conosce sempre una parvenza di bellezza, e ne custodisce il segreto in modo geloso, come testimoniano le sue scrittrici e i suoi scrittori. 

   

 

 

La bellezza di cui parla Lea Vergine con Chiara Gatti è senza dubbio quella femminile, la bellezza selvaggia e incontenibile della madre, per cui Lea ha parole di grande amore e compassione. Forse la parola giusta che racchiude il senso della bellezza, compresa quella delle gambe di Lea Vergne, è proprio questa: compassione, il “patire con”. Una virtù, o meglio una prerogativa tutta femminile, perché la compassione è quella della madre e della figlia, della figlia che è madre della propria madre, come racconta Lea, eterna figlia in quel ruolo rovesciato. 

  

Per chi non ha ancora letto il libro, occorre raccontare il fatto su cui è incardinata la sua vita: la separazione dalla madre. Lea ha vissuto con i nonni, strappata dalla donna che l’ha partorita; mentre i due fratelli più piccoli crescono con la madre. Vivono tutti nel medesimo palazzo, sul pianerottolo di fronte: da un lato, Lea col padre e due nonni paterni; dall’altro, la madre con i due figli piccoli. I genitori si sono sposati costretti dai nonni, e si detestano. Poi i due fratelli muoiono, uno per polmonite, l’altro, ancora ragazzino, per un tumore al cervello. Il dolore è forte, e insieme lo è il culto della bellezza (le due cose sono legate senza dubbio). L’arte sarà la forma di quel culto, non tanto l’arte classica o moderna – Lea Vergine aborrisce ogni estetismo, dal momento che l’estetismo non coglie la bellezza, quella perenne – ma proprio l’arte contemporanea, quella che tutti – conservatori e reazionari – asseriscono che non contenga un solo centimetro di bellezza. Sarà proprio Fontana, e poi gli altri artisti battezzati con il nome di Arte povera, a manifestare ai suoi occhi quella bellezza che persegue.

   

L’arte contemporanea aspira al bello perché ha una sua moralità. Anche un’immoralità, ovviamente, come ogni forma d’arte. La moralità dell’immoralità, alla faccia dei borghesi. Non ha intitolato il libro: L’arte non è faccenda per persone per bene? Perché la bellezza è un valore morale al disopra di tutto e di tutti. Questo libro lo racconta in molti modi e forme, senza però mai affermarlo in modo diretto. Lea Vergine appartiene a quella genia di eccentrici che non dicono mai le cose in modo diretto; fanno piuttosto intravedere ciò che c’è al di là – i tagli di Fontana, i buchi di Burri –, lo indicano, e quasi sempre in modo traverso. 

 

C’è un punto nel libro-conversazione che è l’epitome della bellezza, così come la intende Lea Vergine, la bellezza difficile che lei ha perseguito per tutta la vita. Si tratta del passaggio in cui l’autrice parla del suo modo di scrivere e insieme del fumo. Non so perché, o forse sì, tuttavia non so dirlo con chiarezza, ma quando ho letto le pagine su come Lea Vergine scrive, ho pensato che tra la bellezza e le sigarette che lei fuma c’è qualcosa di comune. Il capitolo s’intitola: “Si scrive col corpo”.  Alla mattina Lea, dopo aver bevuto il caffè, s’accende la prima sigaretta. Senza sigaretta, dice, non si scrive; si legge solo. Poi accende la seconda sigaretta: “La sigaretta non è vizio, piuttosto un’abitudine voluttuosa”. Scrivere implica per lei tutto il corpo.  Prende appunti. Sono parole su carta. Poi si accende un’altra sigaretta, la terza. Afferra le forbici e ritaglia gli appunti. Li spilla sui fogli; sono tanti fogli. È il suo “taglia e incolla”. Da quei fogli e dalle sigarette fumate nasce il testo. Si tratta della sua lotta per la bellezza: quella dell’arte e quella delle parole. E poi la bellezza del corpo. Non solo la bellezza fisica: la bellezza fatta di anima e corpo. “Sinolo”, lo definisce il filosofo. Una commistione, realtà spuria. Il fumo è l’anima, ne ha la forma, dal momento che è aria, respiro, qualcosa che si dissolve. Prima c’era e poi non c’è più. Il fumo emesso da Lea Vergine ha che fare con la bellezza. 

 

Poi ci sono le parole: la bellezza delle parole, delle frasi. Lea la chiama: musicalità. Anche la musica è qualcosa d’impalpabile. C’è, è una vibrazione; sono note, stanno nell’aria. Quindi non ci sono più. Della sigaretta resta la cenere, un residuo grigio. Della musica c’è un residuo: il suono ricordato (anche la registrazione, è vero, ma il ricordo è ben altro). Il più bel complimento a Lea non gliel’ha fatto uno scrittore o un intellettuale, ma una dimafonista (parola scomparsa, un mestiere che non c’è più: le persone che nei giornali battevano i testi dettati al telefono dai collaboratori). La dimafonista alla fine della dettatura di un articolo le ha detto: “Signora vada tranquilla, il pezzo canta”. Anche le sue gambe cantano in quella foto di quarta. Cantano da fermo, come le parole spillate sui fogli, poi trasformate in frasi, in musica. 

  

Da qualche tempo mi capita di scrivere sul fumo. Non fumo più da molti anni e nonostante tutto non mi viene voglia di ricominciare; ci ho pensato, ma era solo una boutade. Alla fine sono anche io un maledetto salutista. Le persone della generazione di Lea che ho ammirato, fumavano tutte. Uomini e donne. Fumavano per scrivere, come Hannah Arendt, per me la donna con la sigaretta in bocca che più ammiro, e di cui da anni leggo e rileggo le opere, spesso senza capire nulla. Mi sono fatto la convinzione che senza il fumo donne come Hannah, come Lea, non potrebbero neppure scrivere, e quindi inseguire quella bellezza che per entrambe è decisiva. Cosa sia questa bellezza non lo so, però so che c’è, che esiste in modo inequivocabile. La bellezza è un dono degli dei. Le gambe appartengono a quel dono, come altre parti del corpo, anche se le gambe hanno qualcosa di speciale. Non di erotico, ma di fondativo, mi viene fatto di dire. Ci siamo levati sulle gambe come esser umani, molto tempo fa e ancora si vede. L’altra bellezza, quella che si ci dà da sé, senza attendere gli dei, ha a che fare con l’aleatorio, con l’inafferrabile, l’incerto. Lea Vergine ci parla di quella bellezza. E il fumo ne è una forma visibile. Qualcosa che dura là dove il corpo si disfa, scompare. La bellezza del fumo è il simbolo dell’arte. Di più: ne è la forma visibile e insieme invisibile. 

 

Pensieri piuttosto confusi, me ne rendo conto, ma di questa bellissima conversazione autobiografica ho trattenuto due cose: le gambe e il fumo. E poi la bellezza, che le lega insieme. Mi basta.

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