Letizia Battaglia. Spiazzamenti

25 Ottobre 2012

Roland Barthes chiamava punctum, quel mistero in bilico tra razionalità e mistero che rende ogni fotografia unica e irripetibile. A volte pare che anche le immagini ne siano consapevoli, sembra che dicano: “Io sono questo: un corpo, un occhio, uno strumento. Io mi chiamo Francesca Woodman, io sono Letizia Battaglia”, come si può udire dalle fotografie delle due artiste, esposte nella mostra in corso presso la galleria di Massimo Minini a Brescia.

 

Se è quasi impossibile scindere l’opera di Francesca Woodman dalla sua sorte, silenzioso segreto che resta intimo e illeggibile, con Letizia Battaglia ho parlato. O meglio è stata lei a parlare con me. Io ho saputo dire solo il mio nome. Poco prima di uscire dalla galleria con un catalogo e la sua firma, mi ha detto: “Inizia a fotografare. Non per gli altri, per te stessa”.

 

Letizia Battaglia, Il gioco del killer, Palermo 1982 e Rielaborazione (Il gioco del Killer, Palermo 1982), 2012.

 

È così che ho cominciato a cercarla nelle sue immagini: fra i muri con i segni dei proiettili, tra i visi delle madri in lacrime ai funerali dei loro figli, nelle aule dei tribunali, sugli scenari degli omicidi di mafia nella Palermo in cui imperversavano le cruente lotte che sconvolgevano la città.

 

Letizia Battaglia vi nasce nel 1935, ma il dato biografico è un’etichetta che non le si addice: la sua vitalità e il potere della sua testimonianza trascendono i limiti cronologici, non hanno tempo: Letizia Battaglia possiede ancora la luminosità dell’adolescenza, l’“aura” – direbbero i lettori di Walter Benjamin – la capacità di saper cogliere “un’intera storia in una sola immagine”, come ricorda Alberto Roveri, quella di Palermo, a cui fa ritorno nel 1974, per lavorare come fotografa al quotidiano L’Ora, negli anni in cui i sicari di Cosa Nostra hanno assassinato ogni pubblico ufficiale che interferiva con gli affari della mafia.

 

“Sono incapace di lavorare con l’apparecchio fotografico in base a un concetto intellettuale. Io vivo attraverso la macchina fotografica”, rivela in un’intervista a Melissa Harris, “è un pezzo del mio cuore, un’estensione del mio intuito e della mia sensibilità” e da quel momento le immagini di Letizia Battaglia non diventano solo icone di una fotografia “partecipata”, in cui l’artista, sostiene Giovanna Calvenzi, entra nelle situazioni alla maniera di William Klein, ma riescono a testimoniare il suo intimo bisogno di giustizia, bellezza e innocenza, come suggerisce la fotografia scattata da Franco Zecchin, suo compagno per molti anni nella vita e nel lavoro.

 

Franco Zecchin, La moglie e le figlie di Benedetto Grado sul luogo dell’omicidio, Palermo, 11 novembre 1983, in Letizia Battaglia, Passione, giustizia, libertà. Fotografie dalla Sicilia.

 

La donna in piedi di fronte al cadavere non rivolge gli occhi al suo riflesso nella pozza di sangue, ma li spinge in un luogo fuori dall’immagine, rifiutandosi in tal modo di identificarsi con la morte, un invito a “uscire dall’indice” affermerebbe Philippe Dubois, a spezzare la relazione mimetica e speculare tra il soggetto, il fotografo e la realtà rappresentata. Lo stesso impulso che Letizia Battaglia traduce visivamente in una serie di opere realizzate dal 2003 ad oggi, definite di volta in volta “Rielaborazioni”, “Spiazzamenti”, “Divagazioni”, molte delle quali esposte a Brescia.

 

Cosa sono gli Spiazzamenti? Immagini leggibili, direbbe Mieke Bal, fotografie di fotografie ricontestualizzate con un elemento eccedente: la metafora di una crepa temporale “retrospettiva e prospettiva”, che sfida l’immobilità della mimesi e suggerisce un nuovo messaggio da lasciare ai posteri.

 

Letizia Battaglia riproduce alcune fra le sue immagini più significative, le fa stampare in grande formato e le fotografa nuovamente insieme a una modella che interagisce con il soggetto: “È un po’ come rinnegare il passato” spiega l’artista, o forse si tratta solamente di spostare il punctum: “il punctum non è più il morto ammazzato o il bandito arrestato o la miseria estrema. Il punctum è quello che io oggi metto davanti”.

 

Letizia Battaglia, Disperazione di una madre convinta che le abbiano ucciso il figlio, Capaci 1980, e Letizia Battaglia, Rielaborazione (la madre crede le abbiano ucciso il figlio), 2005.

 

È questo ciò che si vede nella rielaborazione della madre che crede le abbiano ammazzato il figlio, a cui Letizia dona un attimo di pace: la fotografia abbracciata da una giovane donna, quasi a sciogliere nell’acqua quel dolore inenarrabile, così come era venuto alla luce nella camera oscura, un fiore a consolare l’eternità dell’istante e forse anche l’impotenza della stessa fotografa di fronte a quella tragedia.

 

O come accade con la doppia rielaborazione sullo scenario del medesimo omicidio. Anche qui la figura femminile – alter ego della fotografa – si pone come ideale di salvezza: in un’immagine rivolge pietosamente l’ultimo sguardo al cadavere, mentre tiene in una mano il lembo di un velo forse da porre sul quel corpo senza vita; nell’altra, la mano di una giovane donna regge un ramo fiorito da contrapporre all’albero secco, che Letizia evoca nella didascalia apposta alla foto scattata quasi trent’anni prima.

 

 

Letizia Battaglia, La scena, con quell'albero rinsecchito e la luce quasi teatrale, mi parve surreale, ma l'uomo era stato veramente ucciso qualche minuto prima, Palermo 1980, in Letizia Battaglia, Passione, giustizia, libertà. Fotografie dalla Sicilia.

 

Letizia Battaglia, Rielaborazione (Chiara e l'uomo ucciso tra le cassette), 2009 e Rielaborazione (L'albero secco), 2009.

 

E alla morte la fotografa risponde anche con il volto di Rosaria Schifani. Emblematica è la rielaborazione del 2010, quella con il viso della vedova – una maschera funebre divisa tra luce e ombra – accostato al busto di Eleonora d’Aragona di Francesco Laurana e a quello di Marta, la nipote di Letizia Battaglia, “tre donne dalla bellezza pura che dialogano protese verso un futuro rappresentato dalla giovane età di Marta”, racconta Maria Chiara Di Trapani, che dal 2006 lavora con la fotografa.

 

Lo stesso sguardo che compare sul volto della giovane donna in una recentissima rielaborazione del 2012, tanto efficace da costituire l’esito tragico e ironico di questa esperienza creativa: gli occhi rivolti senza alcun timore verso l’obiettivo, che lasciano trapelare la consapevolezza di non poter cancellare il proprio passato, simboleggiato dall’immagine del giovane killer – evidente mise en abyme del medium fotografico e paradossalmente della violenza insita nell’atto stesso di scattare una fotografia – e tuttavia si pone con la sicurezza di chi non intende rinunciare al proprio futuro.

 

Letizia Battaglia, Rosaria Schifani moglie di Vito Schifani, assassinato nel 1992 insieme al Giudice Giovanni Falcone e ad altri uomini della sua scorta, Palermo 1993, in Letizia Battaglia, Passione, giustizia, libertà. Fotografie dalla Sicilia e Museo Abatellis. Tre donne. Dietro Rosaria Schifani 1993, Palermo 2010.

 

Quasi come se l’artista volesse suggerire che il futuro – interamente fuori dall’immagine – coincida con lo spettatore catturato empaticamente dal gioco dialettico delle immagini, anch’egli indotto a mettere in discussione il proprio modo di guardare, a vedere a sua volta nella realtà che lo circonda un possibile futuro da migliorare. Forse, direbbe Letizia Battaglia, proprio con la fotografia.

 

Letizia Battaglia, Tribunale di Palermo, 1998. Il magistrato Roberto Scarpinato con la sua scorta, durante gli anni in cui fu Pubblico Ministero al processo contro Giulio Andreotti, poi assolto per prescrizione di reato, Palermo 1998.

 


 

Le testimonianze di molte persone che hanno conosciuto Letizia Battaglia si possono leggere nel saggio di Giovanna Calvenzi intitolato Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni (Bruno Mondadori, 2010).

 

L’intervista a Melissa Harris si trova nel catalogo Letizia Battaglia, Passione, giustizia, Libertà. Fotografie dalla Sicilia (Federico Motta Editore, 1999).

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