"Hollywood Party" e il '68 / "Let's have a wonderful time!"

4 Aprile 2018

Alla fine degli anni Sessanta, la Hollywood delle Majors versa in una crisi senza precedenti: assediata dalla televisione, dalla crescita delle produzioni indipendenti e dall'avvento delle corporation (la prima a cedere è la Paramount, nel 1966, presto seguiranno le altre), assiste impotente ai mutamenti della società e del pubblico. Un pubblico giovane, che decreta il successo di film come Il laureato e Gangster Story (entrambi usciti nel 1967), è insofferente all'establishment politico e soprattutto si oppone vigorosamente all'escalation militare in Vietnam.

 

Il ricambio generazionale si avverte anche fra gli addetti ai lavori. Mentre i vecchi artigiani si avviano verso una pensione più o meno anticipata (l'ultimo Ford è del 1966, Hawks lo seguirà nel 1970) e in attesa che facciano la loro comparsa i "movie brats", l'ultimo scorcio degli anni Sessanta appartiene a figure di transizione. Blake Edwards è una di queste.

 

Blake Edwards (a sinistra) con Peter Sellers, sul set di "Hollywood Party".

 

Classe 1922, formatosi negli anni Quaranta fra radio e televisione, Edwards raggiunge il successo internazionale nel 1961 con Colazione da Tiffany. Ama mescolare i generi con uno spirito vagamente modernista, in linea con l'aria del tempo; ma il suo terreno di gioco prediletto è quello della commedia, specie se ibridata con la farsa. Hollywood Party (in originale semplicemente The Party, come una pièce di teatro dell'Assurdo) nasce in parte come run for cover. Edwards è reduce da ben tre insuccessi commerciali consecutivi, fra cui quello del kolossal comico La grande corsa, che hanno messo a repentaglio la sua reputazione presso i finanziatori. Decide quindi di tornare alla farsa pura e semplice: un unico set, un cast relativamente ridotto, dialoghi quasi assenti. Con uno script di sole 63 pagine (o addirittura 56, secondo altre fonti), il regista si presenta dal produttore indipendente Walter Mirisch e insieme pensano all'attore giusto per la parte del protagonista. 

 

 

La scelta finisce per cadere su Peter Sellers. Edwards lo conosce bene: soltanto pochi anni prima, con La pantera rosa e Uno sparo nel buio, hanno creato insieme la maschera indimenticabile dell'ispettore Clouseau. Però sa altrettanto bene quanto Sellers possa essere problematico, stravagante e instabile, tanto da aver dichiarato pubblicamente che non avrebbe più lavorato con lui. Avrebbe accettato? Sellers, che dopo essere stato colto da un infarto nel 1964 sta dilapidando il proprio immenso talento in produzioni perlopiù di scarso spessore, risponde inaspettatamente di sì. Sarà il solo film che girerà con Edwards al di fuori della saga della Pantera.

 

Come suggerisce il titolo italiano, Hollywood party è in primo luogo un film "su" Hollywood, il suo mondo, il suo campionario umano. Non a caso, i titoli di testa sono preceduti da un lungo prologo (ben otto minuti), nel quale Edwards esplora il retroscena di un polpettone avventuroso tipico di quegli anni, a metà fra I lancieri del Bengala e Gunga Din. Muovendosi con discrezione nella singolare fauna che popola il set (il producer sessuomane e sudaticcio, il regista stressato e irritabile), la macchina da presa isola ben presto una comparsa, un piccolo indiano volenteroso ma terribilmente maldestro. Il suo nome è Hrundi V. Bakshi.

 

 

 

 

 

Non è un personaggio del tutto nuovo (Sellers aveva sperimentato qualcosa di analogo ne La miliardaria, un adattamento di G.B. Shaw interpretato in coppia con Sophia Loren), ma lo spessore che acquisisce in questo film è incomparabilmente maggiore. Al pari di Clouseau, Bakshi è un disturbatore, un personaggio letteralmente fuori posto, che non sa come muoversi nello spazio intorno a lui. Persino un gesto banale come allacciarsi le stringhe può mandare in briciole un costosissimo e imponente fortino, sotto gli occhi sbigottiti del regista e della troupe. Ma a differenza di Clouseau, che con la sua protervia ottusa e un po' arrogante pretende di avere il centro della scena tutto per sé, Bakshi vorrebbe passare il più possibile inosservato. «Pay no attention to me, sir. I'm merely spectating» dice più tardi, quasi scusandosi, quando l'azione del film si sposta nella sontuosa villa del produttore Clutterbuck. Del resto, è palpabile l'affetto di Sellers nei confronti del personaggio, uno di «quei "buoni", illusi o amareggiati, ma sempre maltrattati dal mondo» che secondo Emanuela Martini erano forse più vicini all'indole segreta dell'attore inglese rispetto alle allucinate caricature di Clare Quilty o del dottor Stranamore; e che avrebbero conosciuto la loro sintesi perfetta e definitiva in Chance Gardener, protagonista del testamento artistico di Sellers, Oltre il giardino.

 

L'alterità di Bakshi ha però una ulteriore e non trascurabile sfumatura: è uno straniero, per giunta identificato come tale («Who's the foreigner?», domanda un invitato). Rivedendo Hollywood party oggi, dopo cinquant'anni di post-colonial studies, si potrebbe anzi leggere l'involontaria (?) azione distruttiva del personaggio come un assalto dei "dannati della terra" al cuore l'immaginario occidentale – cioè Hollywood, appunto. Quello che sulla carta era il più tipico esempio di whitewashing (la pratica di affidare a un attore bianco un personaggio di un'altra etnia) perde ogni connotazione derisoria o paternalista, alla Kipling, per dare voce a una rivendicazione identitaria, se è vero che Indira Gandhi aveva fatto propria una delle più famose battute di Sellers: «In India, we don't think who we are, we know who we are!». E forse persino qualcosa in più: «Sembra una persona che non potrebbe mai essere integrata da nessuna parte», ha scritto recentemente Hanif Kureishi, «La sua dolce follia, la sua naiveté diventano un'arma potente. [...] Sconvolge il paradigma con la sua indecifrabilità».

 

Gary Morris ha scritto che Bakshi, come molti altri personaggi di Sellers, è una sorta di trickster, l'archetipo del "briccone divino" portatore di caos, ma anche di cambiamento e di cultura (e in questo rappresenta bene l'idealtipo dell'antieroe sessantottesco). C'è sicuramente del vero in questa osservazione, anche se riesce difficile immaginare come questo omino, così discreto e pieno di premure, desideroso tutt'al più di stringere la mano del suo attore preferito («Bang! Howdy, Partner!»), possa incarnare, per citare nuovamente Morris, «un'epitome del principio di disordine». 

 

Bakshi si limita a premere un pulsante, a spingere una levetta (le gag intorno al quadro elettronico), talvolta semplicemente ad attraversare un salone o un corridoio. È lo spazio intorno a lui a essere drammaticamente inabitabile, disfunzionale, fuori scala. Emblematica la scena in cui, dopo un'attesa spasmodica, Bakshi riesce finalmente a raggiungere uno dei molti bagni della villa per fare pipì. Ogni cosa, dallo scarico del WC al rotolo di carta igienica, sembra obbedire soltanto alle proprie regole. Inutile cercare di ripristinare l'ordine: la situazione non potrà che degenerare, secondo le dinamiche del più classico slow burn.

 

 

 

 

 

In un saggio del 1984 dedicato a Edwards, Dave Kehr ha osservato come gran parte della sua filmografia  ruoti attorno all'idea di spazio, ai modi di percorrerlo o di colmarlo. Di qui la necessità di un impianto scenografico adeguato (nella fattispecie, il set ricostruito in studio dal visionario Fernando Carrere, che lo riempie di tutti gli eccessi decorativi del design anni Sessanta), ma anche l'uso del Panavision, qui affidato al veterano Lucien Ballard, in funzione espressiva. Nelle mani di Edwards, conclude Kehr, lo schermo panoramico si trasforma «in un vortice di trappole nascoste, oggetti aggressivi, spazi che si aprono su altri spazi».

 

Giustamente è stato notato come il film di Edwards abbia diversi punti di contatto con l'altro grande film comico del '68, Playtime di Jacques Tati, uscito soltanto pochi mesi prima. Entrambe le opere  si pongono nel solco della slapstick comedy di Keaton, Chaplin e Laurel & Hardy. Una tradizione considerata non soltanto come straripante serbatoio di immagini da citare o da omaggiare, ma anche come linguaggio moderno e innovativo, carico di umori sovversivi e anarcoidi. Ovviamente Edwards non è Tati e non ne condivide né l'afflato prometeico né la radicalità (laddove Playtime immagina una "democrazia del comico", Hollywood party attribuisce ancora al protagonista una funzione centripeta). Si accontenta – e non è comunque poco – di accendere le polveri a un meccanismo comico irresistibile, destinato a espandersi fino a travolgere ogni cosa, fino all'inevitabile catastrofe finale. 

 

Nel corso del film assistiamo infatti a un ribaltamento graduale, carnascialesco, dei ruoli e delle gerarchie di potere. L'outsider Bakshi difende l'aspirante attrice Michèle (Claudine Longet) dalle molestie del solito producer (qui il film - ahinoi - sembra proprio girato ieri) e la convince a trascorrere insieme il resto della festa («Let's have a wonderful time!»); i servi fumano marijuana, si sbronzano e si scatenano nelle danze insieme ai ballerini russi giunti per l'occasione; i giovani contestatori («Weren't you out protesting?»), che paiono usciti da una striscia dei Peanuts più che dai campus di Berkeley, prendono possesso della casa, sommergendo i loro vecchi in un mare di schiuma. Una situazione ben riassunta dalla scritta "The World is Flat", dipinta sulla fronte dell'elefantino che i ragazzi hanno portato con loro: la Terra è piatta, il mondo fuori di sesto.

 

 

Il delirio orgiastico e visionario di Hollywood party rappresenta l'aspetto giocoso, irriverente, colorato del Sessantotto statunitense; lo si può definire politico, sia pure in senso lato, al pari del "grouchomarxismo" che in quegli anni spopolava nelle università americane e al cui spirito iconoclasta anche il film di Edwards vuole rifarsi. 

 

Tutto questo non significa che Hollywood party – in ogni caso, uno dei pochi film hollywoodiani usciti nel 1968 in cui si respiri davvero l'aria di quell'anno fatale – sia l'apripista di una stagione nuova, che di lì a poco prenderà forma nelle prime opere di Bogdanovich, Scorsese, Spielberg. Semmai è una delle tante campane a morto per l'ormai boccheggiante Studio System (per certi versi in modo simile a un altro celeberrimo debutto di quei giorni, 2001: Odissea nello spazio, diretto da un Kubrick ormai prudentemente stanziato oltre Atlantico). Soltanto la vecchia Hollywood, infatti, poteva fornire a Edwards i mezzi e i tecnici in grado di metterla degnamente a soqquadro. That's entertainment.

 

A proposito di campane a morto, c'è un'altra coincidenza che contribuisce a gettare un'ombra su Hollywood party. Lo stesso giorno in cui il film viene distribuito nelle sale statunitensi, il 4 aprile 1968, Martin Luther King è assassinato a Memphis. Il resto della storia lo conoscono tutti: l'omicidio di Bob Kennedy pochi mesi più tardi, la convention democratica di Chicago funestata dagli scontri fra la sinistra pacifista e la polizia (più di cinquecento feriti fra i manifestanti), la scelta di Hubert Humphrey come candidato, le elezioni presidenziali del 5 novembre, vinte a mani basse dal repubblicano Richard Nixon. Con una rapidità sconvolgente (altro che slow burn) tutto sembrava rientrato nei ranghi: sarebbe bastata la Morgan three-wheeler di Hrundi V. Bakshi a garantire la fuga?

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