Ravenna Festival / L’Inferno delle Albe

1 Giugno 2017

Albedo. Rimbomba in testa questa parola dell’alchimia, operare sulla nigredo, sulla materia oscura, per arrivare all’opus. Abluzione, distillazione, elevazione dell’anima. “Quali colombe dal disio chiamate”. Bianchi, bianchissimi, Ermanna Montanari e Marco Martinelli raggiungono la folla accalcata nella stretta strada davanti alla tomba di Dante Alighieri. Ravenna, ore 20 di un giorno qualsiasi (che non sia lunedì) da qui al 3 luglio, fino a quando si replica il loro Inferno per Ravenna Festival. Un uomo in abito nero suona una grande conchiglia. Dà il via, ed è subito emozione. Con quelle parole finali della prima terzina della Divina Commedia di Dante, dette, sussurrate, ingolate da Ermanna (al piede, bianche anch’esse, ha le sue solite scarpe a forma di zoccolo di capra, diaboliche): “…vita … oscura… smarrita”. Pausa. E poi i versi tutti di quell’inizio, con voce che ricama e sprofonda, che rapisce. Aprono la porta del sepolcro, a evocare il poeta. E intorno a noi spettatori, in mezzo a noi, bambini, ragazzi, giovani, donne adulte e uomini ripetono alcuni versi, in coro. Sollevano le braccia, le protendono in tensione, seguono il ritmo con voci basse, acute, chiocce, profonde, lasche, dolci, stridenti, eco e coro. Martinelli con le mani, piano, dirige le intensità, pedagogo di questo coro di cittadini.

 

Inizia così un’opera che ci proietterà, ci trascinerà nel poema dantesco come specchio dei nostri giorni disgregati, in cerca, pedagogicamente, di un “farsi luogo”, di un ritrovarsi con gli altri nel dolore, nella pena, nella frantumazione di una realtà corrotta, polverizzata e polverizzante, alienante, per non arrendersi, per sentire risuonare la propria voce in quella degli altri, con quella degli altri, in un “a te come a te” testoriano.

 

Martinelli e Montanari sono a volte i narratori, a volte Virgilio, a volte Beatrice, e daranno anche voce a Dante. Aperta la tomba del poeta, leggono da un grande libro che ne contiene i versi. Poi ci invitano a incamminarci con loro, verso la porta dell’Inferno. Siamo noi il poeta, il viaggiatore, l’anima che deve ascendere attraverso la conoscenza del male, che deve rispecchiarsi nel disfacimento politico dei tempi del fiorentino e dei nostri, nella perdita di orizzonti, nell’abisso spirituale e materiale. Martinelli e Montanari sono una coppia alchemica, che deve operare sulla materia nera col fuoco della poesia, per la sua e la nostra trasformazione.

 

Attori e spettatori sono implicati, come non mai, in un atto comune, che passerà sulle nostre pelli, ci incalzerà nel cammino, ci farà precipitare e ci solleverà. Proprio in direzione di quel “farsi luogo”, diventare un noi che non perda mai l’io, il tu, di cui il regista ravennate ha detto in quel bellissimo libro che è Farsi luogo (Cue Press). Una ricerca dell’altro attraverso il teatro. Pedagogia non come predica ma come dialogo, incontro, scambio.

 

…vita …oscura …smarrita, Photocastorp.

 

Intanto siamo in marcia. Noi e il coro dei cittadini, insinuato tra gli spettatori, pronto a intervenire, a dare risonanza e commento alle parole del poeta. Camminiamo guidati da una tromba funebre, con note che a un certo punto ci sembrano riecheggiare il Dies Irae (ma è suggestione di un attimo). Per strada una fermata: Dante ha dei dubbi, i nostri stessi, umani, e Virgilio cerca di far leva sul suo coraggio.

 

Siamo davanti a Sant’Apollinare Nuovo. Il sole arrossa la parte alta della chiesa e del campanile romanico. Il tempo sembra sospeso. Virgilio ricorda l’apparizione di Beatrice, scesa dal cielo per inviarlo a salvare il suo amico Dante dalla selva oscura, e con musica sottile di apparizione angelica una ragazzina, avrà 11-13 anni (e sarà ogni sera diversa), su un piccolo podio interpreta la donna amata del poeta, che qui è agente della sua elevazione, controfigura del Cristo.

Siamo in un poema religioso e politico. Il coro dei cittadini ci testimonia un’aria di rito comunitario del Medioevo, ma anche un’azione politica di massa di quelle che inventavano Majakovskij e Mejerchol’d, cui Martinelli ha più volte guardato nelle varie versioni di quel meraviglioso spettacolo partecipato che è Eresia della felicità.

 

Ermanna Montanari mi raccontava, a proposito del coro dei cittadini e degli altri che vedremo nel cuore dell’Inferno, per un totale nelle varie sere di circa seicento ravennati e di un centinaio di partecipanti di altre città: “Li abbiamo riuniti con una chiamata pubblica alla città, in cui abbiamo comunicato che volevamo fare uno spettacolo simile a una sacra rappresentazione medievale o a una di quelle messe in scena collettive organizzate dopo la rivoluzione d’ottobre da Majakovskij. Hanno risposto un migliaio di persone di diversa età: sono stati impegnati nello spettacolo, nella costruzione delle scene con Edoardo Sanchi  e Paola Giorgi, nelle musiche con Luigi Ceccarelli”.

Le chiedevo come mai univano Dante e Majakovskij: “L’amore per entrambi è nato in Marco e in me sui banchi di scuola, grazie a Bianca Lotito, un’insegnante che ci ha iniziati alla potenza politica e poetica di questi autori. Aveva 24 anni quando ci ha presi al ginnasio. Un vero prodigio. Il nostro Inferno vuole intrecciare un legame d’arte con la nostra città. Scene, musiche, attori professionisti si mettono in relazione con i cittadini per un’opera sacra e politica, per un atto insieme spropositato e quotidiano”.

 

I' son Beatrice che ti faccio andare, Photocastorp.

 

“Per me si va” è scritto sulla porta del teatro Rasi, in caratteri monumentali. Questa sala era, all’epoca di Dante, una chiesa francescana, Santa Chiara, poi divenne una cavallerizza e quindi, a fine ottocento, un teatro. Agli inizi degli anni ’90 fu assegnato alle Albe per il loro lavoro di compagnia che doveva gestire le attività sceniche della città, un vero atto di coraggio dell’amministrazione di allora, ripagato con questa realtà, che riesce a far sentire, al di là della logica degli anniversari e dell’uso sempre un po’ parziale e discutibile del turismo culturale, Dante un patrimonio comune, non da venerare o sfruttare, ma da approfondire, viaggiandovi dentro.

 

Entriamo presi per mano, uno per volta, dalle nostre guide. E dentro è Inferno, soldati adolescenti, neri sulla porta, poi anche bianchi, urlanti ordini, frenetici, mitra imbraccianti, come in un Full Metal Jacket moltiplicato e ancora più spasmodico. E il loro capomasnada, un Caronte travestito da loico commissario politico (Roberto Magnani), ci accoglie con le parole di Venezia salva di Simone Weil, il disegno di un complotto per rovesciare la Serenissima violandola con un’azione di terrorismo notturno, che stupri, uccida, renda gli esseri umani cose, per poterli poi, riesumato l’ordine, un ordine nuovo, dominare meglio con la paura. Impressionante.

 

Siamo passati attraverso la biglietteria ed entrati nella parte posteriore della sala del teatro. Eliminate le file di sedie, gli ambienti sono frantumati nei vari gironi, con cori diversi che baluginano, aggrediscono, trascinano e vengono trascinati. Scale dappertutto (il basso non può essere la condizione finale: da qualche parte si deve risalire, in quell’opera – divina e commedia – nella ricreazione di Marco Martinelli Ermanna Montanari e compagni).

La parte centrale della sala. I lussuriosi portati dal vento, ombre galleggianti su uno schermo sul palco, ragazzi e ragazze stesi in terra, a coppie, poi rialzati in ballo vorticoso, e ancora a terra, e Paolo e Francesca “quali colombe dal desio chiamate” (una ragazza del coro recita una Francesca giovane e commovente).

 

Edoardo Sanchi è scenografo di opera lirica. E questo allestimento gareggia con l’opera. Non risparmia effetti nel frazionamento e nell’invenzione dello spazio. Sorprese. Mirabili. Così come i costumi, come i trucchi delle Erinni che ci urlano dall’alto della galleria. Intanto avari, quelli che accumulano nelle banche, quelli che strozzano, e prodighi, quelli che si rovinano, magari davanti a una slot machine, gridano, disputano, combattono.

Le musiche di Luigi Ceccarelli e dei suoi allievi del Conservatorio di Latina e della Scuola di musica di Ravenna ci avvolgono: ora percussive, ora come suoni distillati, “bozzolo sonoro” (lo chiamano gli autori) che ci accompagna ancora un poco più dentro nelle parole, che in questa fase si fanno più scarne, affidando molto alle immagini, alla visione.

 

Paolo e Francesca, ph. Nicola Baldazzi.

 

Scrivono in uno dei programmi di sala gli autori:

 

Vorremmo partire con le parole e l’italiano settecentesco di Giambattista Brocchi, che nelle sue Lettere sopra Dante, 1797, scrive:

“Io non dubito che Dante si sarebbe alzato al paro di Eschilo o di Shakespeare se ai tempi suoi fosse stata in voga in Italia l’arte del teatro e ch’egli l’avesse voluta coltivare.”

Partiamo da qui perché concordiamo con l’erudito veneziano, e ne raccogliamo l’implicita sfida: trasformare in teatro il capolavoro che ha dato origine alla lingua e alla letteratura italiana. Già altri hanno tentato: noi pensiamo che non si tratti di rivestire di immagini sceniche i canti danteschi, quanto di estrarne l’intima “natura” teatrale. Dante si è veramente “alzato al paro di Eschilo e di Shakespeare”, e i suoi 14.233 endecasillabi ripartiti in terzine sono uno stupefacente congegno teatrale. La parola “teatron”, che significa “visione”, racchiude proprio quella che l’autore definisce “mirabile visione”, mirabile teatro quindi, capace di accogliere nel suo campo visivo l’umanità intera nelle sue molteplici esperienze, dal basso osceno e sanguinante dell’Inferno al trascolorare malinconico del Purgatorio, per ascendere infine là dove visione e parola si trasmutano nell’indicibile Paradiso.

È una sfida che culliamo dall’adolescenza, da quando, nella stessa aula scolastica del liceo Dante Alighieri di Ravenna, ascoltavamo per la prima volta la musica di quei versi. Questo è il nostro intento: misurarci con quella poesia vertiginosa senza tradirla e senza rimanerne schiacciati. Prendere sul serio l’intento dell’autore, sicuramente anacronistico e presuntuoso rispetto ai nostri tempi, quando dice che scopo del suo poema è addirittura quello di dare la “felicità” al lettore. Così descrive il suo obiettivo nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala:

“… liberare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli alla felicità.”

La felicità, nientemeno.

 

La felicità. Non voglio togliere a chi andrà a vedere quest’opera magmatica la felicità della scoperta con un racconto troppo dettagliato (anche se il problema è sempre il solito, diviso in due: ci sono molti che non riusciranno, per distanza, per mancanza di tempo, per altro, a vedere Inferno, e vorrebbero saperne; il racconto è sempre un altro testo dall’esperienza della visione, è solo uno dei possibili sguardi, e il vostro sarà ogni volta nuovo, differente).

 

Diavoli, avari, prodighi: una prova, ph. Nicola Baldazzi.

 

Si sale nel teatro, e tra lave di vulcani in quello che una volta era un cinema, appaiono, vestiti da militari, Farinata e Cavalcante Cavalcanti, il padre di Guido, che fraintende Dante e pensa il figlio morto. Il primo è Luigi Dadina, una delle colonne delle Albe, attore roccioso, impiegato da Martinelli spesso come controfigura mussoliniana, per rappresentare un romagnolo conservatore, tetragono, un po’ folle, aperto a ogni nuova avventura economica, sempre cinico, pronto a distruggere per il proprio particulare. L’altro è Gianni Plazzi, attore ultraottantenne, in scena in vari lavori di Castellucci, il vecchio padre incontinente di Sul concetto di volto nel figlio di Dio. La recitazione dei due è possente e flebile insieme, un’ombra di potenza e orgoglio umano. Toccante.

 

Poi spinti da diavoli entriamo nella zona uffici del teatro, stanzini segreti con i computer diurni sotto plastica, a vedere scene di ruffianeria, di simonia, di usura con versi di Ezra Pound, il poeta che portò il suono di Dante nei frastuoni del lancinante novecento, e poi di nuovo giù, tra i frodatori del bene pubblico, i barattieri, nell’inferno manicomiale di ghiaccio di Vanni Fucci e dei ladri furiosi assicurati a camicia di forza; e poi nella selva dei suicidi, Pier delle Vigne, e Ulisse nel suo folle viaggio fino al soffitto del teatro (nelle varie scene abbiamo incontrato altri attori Albe: a guida delle Erinni Laura Redaelli; a capo delle masnada di diavoli Massimiliano Rassu; Alessandro Argnai è Pier delle Vigne e Renda l’Ulisse proiettato verso i cieli impossibili di virtute e canoscenza). Ritornano temi cari a Martinelli: il consumo globale di un mondo che vive di cattive economie, vendita dei beni, di sé, dei corpi, della religione, della morale, della bellezza. Indignazione, senza fare i nomi, come fa Dante. Indicando i vizi (i nomi, nella nostra epoca di fin troppo facile satira, sarebbero banali?). Pedagogia, indirizzata, con amore, agli individui e alla comunità. Individuo e coro, come Martinelli spiega in un’intervista di Iacopo Gardelli, bravo giornalista ravennate:

 

Qual è la vostra centralità?

Direi con testori: l’a te come te. Ogni creatura è importante, ogni volto è un romanzo, ogni sognatore è un ribelle. E il teatro sa ancora raccontarli.

Ma non è una forma?

No. È la sostanza più pura, se ci può essere purezza su questa terra. Mettere al centro la persona in quanto tale non è una forma, è sostanza sacra e politica allo stesso tempo. Certamente poi il coro origina forme e linguaggi: Inferno sarà uno spettacolo di tre ore con musica, suoni, cascate di parole, azioni. Ma la sostanza da cui si parte è questo riconoscersi tra artisti e cittadini, dove non ci sono separazioni annichilenti, ma dove ognuno porta il proprio patrimonio di arte e di vita e, anziché tenerselo gelosamente per sé, lo mette a disposizione degli altri. È dunque una creazione comune, e per paradosso è allo stesso tempo radicalmente democratica, perché ci mette tutti nello stesso cerchio, e insieme altamente aristocratica, perché i percorsi artistici realizzati negli anni hanno il giusto peso. Un paradosso che ritengo fecondo.

 

Vanni Fucci, ph. Cesare Fabbri.

 

Il “paradosso creato negli anni” è quello che ha reso possibile il capolavoro al quale stiamo assistendo, che con due ultimi colpi di coda, invenzioni stupende, ci porterà tra poco “a riveder le stelle”, tra la ferocia della disperazione di Ugolino, affidata alla voce profonda, qui come non mai, raschiata di Ermanna Montanari e a un finale a sorpresa, dove sprofondiamo nella chiesa e nella fossa al centro della terra in cui è punito il sommo traditore, Lucifero, il fascino del mondo di plastica che ci circonda, con i volti del nostro quotidiano consumare e consumarci.

 

Il “paradosso” è il lavoro delle Albe, che ha coltivato le individualità, i selvaggi terrestri sprofondamenti affettivi umorali umani femminili umbratili fantasmatici di Ermanna, la cura delle particolarità di Dadina e degli altri attori più giovani, spesso in prove solistiche oltre che nei lavori di complesso, e la scrittura di Marco, ossia il suo dare forma politica e umana alle questioni, alle pulsioni, osservando sempre la realtà e rovesciandola, spostandola, inventando proiezioni e scatenando cortocircuiti, con la regia, con la drammaturgia, ascoltando la compagnia e spingendola avanti, oltre, e creando intorno quell’humus, quella terra fertile, che è una comunità reinventata attraverso il teatro. Un lavoro centrato su ognuno e sul gruppo, che si è aperto a spirale (come racconta in Farsi luogo), dalla coppia formatasi sui banchi di scuola di Ermanna e lui, fino a coinvolgere adolescenti di Ravenna e di altri luoghi nella famosa non-scuola, a contagiare cittadini nelle varie attività del teatro o in questi cori. Perché le Albe sono sicure, come tutti noi, che il nostro è un mondo disgregato, disperato, senza orizzonti. Ma con una fede nutrita tutti i giorni, anche da un cristianesimo profondo e non conformista, sanno anche che la comunità quando non c’è bisogna provare a crearla, perché altrimenti di solitudine, di negativo, si appassisce e si muore. “Una creazione democratica e aristocratica”, che si apre e che sfida a guardarsi, a non accettare lo stato delle cose.

 

Ho dimenticato, nella cronaca, uno dei momenti più toccanti. L’episodio dei violenti contro natura, con l’apparizione di Brunetto Latini, che qui diventa Pier Paolo Pasolini, un altro maestro per le Albe, un altro che non si rassegnava ai tempi del consumo e del consumarsi della bellezza. Lampeggiano su uno schermo immagini del poeta, su una spiaggia e altrove, immagini della sua Italia antica, forse solo sognata, dei suoi ragazzi, di suoi film.

 

Una prova con il coro, Cantiere Dante, ph. Alessandra Dragonii.

 

Siamo quasi sulla porta, dopo essere sprofondati nel cuore dell’antica chiesa baratro dell’inferno. Chiesa-inferno-teatro: luoghi, situazioni di visioni. A saperli muovere. Ma ancora un attimo ci volgiamo indietro, a quel miracolo che subito, davanti alla tomba di Dante e poi in altri momenti, ci ha rapito. È inutile negarlo, è la vocecorpo di Ermanna Montanari, lava e pulviscolo, palude e canna svettante, raschio e canto, rospo e principessa, preghiera e bestemmia. Parte, ritorna. La conosciamo, sapremmo guardarcene, e invece ogni volta di nuovo ci avviluppa, ci impania, ci cattura, ci rende inerti e ci proietta verso oscure meravigliose piagge, verdi, terrose, deserte, inimmaginate. A un certo punto, questa volta, verso l’inizio, ho sentito cantare, ruggire dentro di lei, un antenato. Ho ricordato i racconti di quando Marco e lei, anni ‘70, andavano adolescenti in loggione a sentire Franco Parenti o Carmelo Bene. E l’ho visto, trasfigurato in lei, con i suoi Blok e Majkovskij, Bene. Trasfigurato, come qualcuno notò di vedere Memo Benassi e la lunga tradizione che gli stava dietro in Carmelo. Portato non su di sé come maschera, ma dentro, e rigenerato sulle corde proprie, in una recitazione che sembra lontana dai canoni e invece affonda profondamente, inesorabilmente (senza possibilità di sottrarsi, per fato e maestria) nella tradizione, e la rinnova, e la rende unica invenzione. Prendendo dal maestro imitato (come gli antichi artigiani rubando) il metodo non la lettera, il rendere il corpo risuonatore totale, medium di una voce che cerca di scavare, incontrare, proiettare, legare e liberare fantasmi. Con i quali duella, inesausta, per fare mondo teatro e anima (e ognuno dia a questi termini il senso che più crede opportuno).

 

Ermanna Montanari, ph. Francesca Gardini.

 

Siamo fuori, pieni di immagini, “a riveder le stelle” sotto un secolare immenso olmo che gli astri della sera di maggio, in realtà, occulta. Basterebbe fare altri dieci passi, verso il mondo, ma abbiamo voglia di rimanere qui, fermi dopo tanto vagare. Un’ultima lunghissima scala, azzurra, sull’albero indica che il cammino deve continuare. Nel 2019 probabilmente porterà al Purgatorio nella pineta di Ravenna, e nel 2021, per il centenario della morte del poeta, in una chiesa, e poi a ripetere tutta l’impresa con le tre cantiche insieme.

Intanto parte l’applauso finale. Ed è ancor sbalordimento: di fronte a noi, quel centinaio di spettatori sballottati, come Dante, nell’immenso viaggio, c’è la folla degli attori, che batte le mani freneticamente, che grida i nomi dei due autori, che li prende, li abbraccia. Un popolo, un popolo nuovo. Forse fuori dall’Inferno.

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