Mario Dondero: l'oro per la strada
«A me le foto interessano come collante delle relazioni umane e come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono», racconta Mario Dondero in un’intervista fatta a Simona Guerra (Mario Dondero, a cura di Simona Guerra, Bruno Mondadori, 2011). Effettivamente si può cogliere in ogni sua immagine la relazione, l’umanità e l’empatia che lo legava alle persone, a tutte le persone, come rivela la mostra che Milano gli dedica: Mario Dondero. La libertà e l’impegno (Palazzo Reale, a cura di Raffaella Perna, fino al 6 settembre, catalogo Silvana editoriale, € 30). Un’esposizione che vuole offrirsi come un ricco percorso tra i suoi tanti lavori o anche come una sintesi ragionata della miriade di servizi fotografici realizzati da questo flâneur del mondo. Tanto per capire che uomo fosse: già afflitto dai vari malanni della quarta età, si era lasciato convincere a partire per un altro viaggio ancora: andare in Afghanistan così da raccontare l’impegno di Emergency nel curare chiunque fosse stato ferito in quella guerra senza fine. «Tanto andiamo in un ospedale!», gli aveva detto il giornalista Vauro Senesi che l’aveva invitato, ed era bastata tale rapida risposta per convincerlo a questa nuova avventura umana e fotografica.
D’altra parte Dondero è stato un reporter e un uomo quasi leggendario, per il quale «fotografare la vita è come raccogliere l’oro per la strada», ricorda Raffaella Perna nel testo di presentazione della mostra. La sua storia inizia negli anni Cinquanta presso il mitico bar Jamaica di Milano, sorta di “università alternativa” dove lui si confronta con gli artisti, intellettuali, scrittori, giornalisti e fotografi che lì si ritrovano, tra assidue discussioni e altrettanto assidue bevute. Al Jamaica Dondero fa amicizia con Ugo Mulas, mentre un altro fotografo, Alfa Castaldi, gli mostra una valigia zeppa di foto dell’agenzia Magnum (quella per intendersi creata dal gotha della fotografia di reportage dell’epoca). E, proprio grazie a Castaldi, Dondero scopre così un altro modo di fotografare, meno legato alla cronaca, più aperto al mondo, con uno stile diretto, concreto e carico di umanità. Sarà di fronte alle immagini di Robert Capa, uno dei più rappresentativi autori della Magnum, che Dondero – lo dichiara lui stesso – capisce definitivamente come «la fotografia poteva essere una strada affascinante verso il futuro, un formidabile strumento di verità». Alla fine del 1954 parte allora per Parigi, la città della fotografia e della cultura in cui vivrà per circa quarant’anni senza smettere tuttavia di correre per il mondo. E ai suoi primi anni parigini (il 1959, per l’esattezza) risale una tra le sue fotografie più famose: quella in cui ritrae i protagonisti del Nouveau Roman, davanti alla sede delle Éditions de Minuit. Nel gruppo emerge un allampanato e pensoso Samuel Beckett. Ma c’è pure Alain Robbe-Grillet che guarda in giro per vedere se stanno arrivando i ritardatari Michel Butor e Jean Cayrol. Tutti sono davanti al suo obiettivo, e però nessuno è in posa. Tutti sembrano un po’ distratti, trasandati, e un po’ “trasandata” sembra quella fotografia stessa, come se fosse stata scattata così, senza tanto pensarci, un po’ per caso. Eppure si avverte in essa qualcosa di speciale, un’aria, un’atmosfera, verrebbe da dire, “proprio da Nouveau Roman”. Perché Dondero, nella sua schiettezza, nella sua capacità di aderire subito alle cose e alle persone, era riuscito a cogliere perfettamente lo spirito di quel gruppo di artisti e della Parigi di quegli anni. Neanche di Parigi però Dondero si è potuto accontentare: dopo quattro decenni eccolo quindi trasferirsi a Roma, dove rimane otto anni. E in seguito di nuovo a Milano, dove era nato nel 1928. Il cerchio si sarebbe quindi potuto chiudere lì, nella città dell’amato bar Jamaica, in cui tutto per lui era cominciato. Invece no, lascia anche Milano per andare a vivere stabilmente a Fermo. Lo si direbbe uno scherzo, visto che lui fermo non riusciva a stare mai. Ma nella città marchigiana Dondero è poi serenamente morto nel 2015.
Cominciamo così a capire che tipo fosse quest’uomo un po’ speciale e questo fotografo straordinario. Dondero poteva cenare da Laura Betti, dove si radunava l’intellighenzia romana; poteva con nonchalance girellare divertito e simpatico per i salotti borghesi; ma allo stesso modo riusciva subito a farsi amico di un’altra infinità di persone: dalle più umili, magari incontrate sui molti treni, aerei, tram che lo portavano in giro per il mondo, fino agli artisti e agli scrittori del momento. Non a caso un’altra delle sue immagini più celebri, più vere e commoventi è quella di Pier Paolo Pasolini con la madre: solo a lui i due avrebbero potuto donare quel sorriso intimo che si prova davanti a un vero amico; solo a uno come lui avrebbero potuto rivelare il legame intimo, delicato, profondo che li univa reciprocamente. D’altra parte con Pasolini Dondero si sentiva in sintonia: lui che parlava con tutti facendo tante domande per conoscere le loro storie, non poteva non apprezzare il bisogno di Pier Paolo di intervistare e registrare le opinioni delle persone che incontrava, per creare i suoi documentari. Tant’è che Dondero lo segue a Viareggio quando intervista i bagnanti sulla sessualità per il suo film-inchiesta “Comizi d’amore”; e in mostra vediamo appunto varie immagini di Pasolini in dialogo, come se Dondero avesse visto in lui una sorta di controfigura di se stesso.
Umile e proteso a cogliere la vita con freschezza e semplicità, captando al volo sorrisi ed emozioni senza badare troppo alla bella inquadratura, Dondero parlava delle sue fotografie senza soffermarsi mai sugli aspetti tecnici: la luce, il punto di vista, l’obiettivo usato… Perché? Perché gliene importava poco o nulla. Grande affabulatore, amava piuttosto raccontare la storia dei suoi incontri con le persone che aveva fotografato. Lui usava infatti la macchina fotografica come un veicolo, come uno strumento diretto e simpatetico per raccontare la realtà con tocco lieve, per rapportarsi alle persone, quasi che la fotografia fosse una scusa per conoscere meglio gli esseri umani, per andare a casa loro, per intrufolarsi nei loro studi. Queste persone erano molto spesso poeti o scrittori di cui lui, avido lettore, si era appassionato e di cui talvolta era già amico. Oppure erano artisti, registi, compositori, attori che lui desiderava ritrarre perché era affamato di cultura, perché era curioso di incontrarli e capire come fossero. Con fare un po’ anarchico e onnivoro amava fotografare spiriti “fuori dalla righe”, in qualche modo simili a lui. Ne nascono ritratti semplici e toccanti, come quello della magnifica attrice Jean Seberg, o di Francis Bacon nel suo studio disordinato. Ma incontriamo anche Alexander Calder, colto davanti a una sua opera esposta in una strada di Parigi; poi lo scrittore Günter Grass, buffamente ripreso dietro a una vasca di pesci; o ancora il giovane poeta Edoardo Sanguineti tra le bolle di sapone create dai figli; ed ecco pure una sorridente e vitale Dacia Maraini; quindi un Alberto Moravia, accigliato come sempre, che discute proprio come uno che crede profondamente alla discussione… Si direbbe che a Dondero basti un niente per cogliere la verità nascosta di una persona. E si tratta di ritratti sempre spontanei, naturali, anche perché era impossibile non sentirsi a proprio agio con lui, non provare un’immediata simpatia di fronte ai suoi modi di fare affabili, affettuosi e discreti, di fronte al suo sorriso alla Yves Montand (che sapeva pure imitare benissimo…).
Le sue fotografie sono sempre scattate dentro la realtà, non sono mai troppo studiate né tanto meno costruite, tranne una, la cui “costruzione” fa quasi ridere. «Dovevo fare un ritratto a Sinjavskij, scrittore sopravvissuto al gulag (…) a casa sua lo raggiunsi in giardino. Sinjavskij era terribilmente trasandato e con pantofolacce ai piedi… mi vergognavo per lui. Prima di scattare diedi un calcio a una cassetta lì vicino che andò a coprirgli le estremità e le pantofole... E feci clic», racconta lui stesso a Emanuele Giordana (Mario Dondero con Emanuele Giordana, Lo scatto umano. Viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York, Laterza, 2014). Insomma con un calcio trova una rapida soluzione “anti-pantofolacce”, non perché gli avrebbero rovinato l’estetica della foto, ma perché gli dispiaceva fare apparire Sinjavskij troppo male in arnese e in qualche modo umiliarlo. Da tale buffo aneddoto emergono due aspetti che hanno sempre guidato Dondero nel suo fare fotografico: prima di tutto l’esigenza irrinunciabile di rispettare gli altri, chiunque siano e ovunque si trovino. E poi, mai tradire la verità vera, mai truccare le cose per farle risultare diverse, più accattivanti, più eclatanti, o più appariscenti di quanto in realtà non fossero. Il suo rispetto per l’umanità altrui, la sua discrezione verso la fragilità umana potevano spingersi fino a un punto tale che, divenuto amico di Franco Basaglia e dei suoi “matti”, non riuscì a fotografare i reclusi ritraendoli nelle drammatiche situazioni dei manicomi: avrebbe significato per lui ledere la loro dignità. Aveva preferito perciò concentrarsi sui momenti di “integrazione alla normalità” quando, in piccole assemblee, discutevano assieme dottori, pazienti e inservienti. Voleva ritrarli come esseri umani e non come malati. Anche quando raccontò il dimenticato conflitto tra l’Algeria e il Marocco per un pezzo di Sahara (era il 1963) egli rivela un uguale atteggiamento di umana e commossa partecipazione. Trovandosi a dover scattare una foto a un gruppo di soldati algerini fatti prigionieri, la prima cosa di cui si preoccupa e che cerca quindi di comunicare loro è che abbiano capito quanto lui si sentisse vicino alla loro sofferenza.
Per Dondero il fotogiornalismo significava raccontare la vita con sincerità e lealtà, con amore per la gente, mantenendosi sempre aperto verso il mondo e la vita, evitando ogni spettacolarizzazione, ogni drammatizzazione perché «troppa estetica uccide la verità», come confessa a Simona Guerra. Mai Dondero entra a far parte di giornali o fa gestire le sue immagini da agenzie fotografiche. Voleva infatti rimanere libero per non doversi appiattire sullo stile di una rivista; libero di spaziare dal ritratto al reportage sociale, dalle magie del teatro agli scenari di guerra, dalla musica all’arte o al cinema. Libero perché mosso da una curiosità a tutto campo e da una profonda avversione per ogni iperspecializzazione; libero di creare le sue storie per offrirle a riviste, tutte però di sinistra, perché era con la sinistra che si sentiva in sintonia: dal mensile comunista francese “Regards” (storica rivista che aveva pubblicato anche i servizi di Robert Capa e Gerda Taro sulla guerra di Spagna) a “Jeune Afrique”, a ”Le Ore” , “il Giorno”, e poi “Diario” (il settimanale nato dall’”Unità”, diretto da Enrico Deaglio). Un elenco non certo completo perché la sua idea di fotografia era legata ai giornali che finivano in mano alla gente. Tant’è che le mostre lo interessavano meno perché – diceva – erano viste solo da una élite. E infatti sarà solo in età ormai un po’ avanzata che consentirà a esporre in mostra i suoi lavori. Lui stesso, del resto, si definiva un fotoreporter engagé, impegnato, guidato dal bisogno di testimoniare le realtà del mondo: voleva rimanere fedele agli ideali di libertà e giustizia sociale che l’avevano portato, giovanissimo, a divenire partigiano in Val d’Ossola. Per lui il valore della fotografia si trovava in quello che riusciva a trasmettere, in quello che riusciva a cogliere sul momento per poi trasformarlo in immagine. E di conseguenza la fotografia non era per lui un bell’oggetto da contemplare e neanche da archiviare. Tant’è che dimenticava le sue foto nelle redazioni, oppure le perdeva, o le lasciava in casa disordinatamente: proteso com’era a raccontare il mondo, a pensare a progetti futuri non mostrava interesse a costruire un’immagine di sé come grande fotografo.
Semmai le sue fotografie, più che tenerle belle in ordine, preferiva esporle a sostegno di organizzazioni umanitarie e pure a regalarle per renderle davvero utili al prossimo. Così nel 2011, dopo una mostra sulla sua amata Africa, fatta anche con le fotografie dell’amico Gian Butturini, dona alla onlus “Fratelli dell’uomo” ben venticinque fotografie per promuovere progetti di sviluppo nei Paesi dell’Africa subsahariana, tra cui il Mali. Un Paese, quest’ultimo, cui si sentiva legato e dove era stato negli anni Settanta per raccontare i griots, gli “uomini-memoria” capaci di tramandare oralmente le storie e le leggende di un popolo. E, proprio come un griot, lui ci ha tramandato la realtà di un mondo che non esiste più e che può a volte commuoverci, perché ci fa percepire l’intensità della Storia o la nostalgia di un passato perduto. Oggi, in questi anni in cui non vediamo quasi più nessuno leggere per strada un giornale “di carta”, non può che emozionare vedere, tra le sue molte immagini, quella di un militante che girava in bicicletta portando nelle cascine emiliane “l’Unità”, allora davvero il giornale dei lavoratori. Così come la sua foto, scattata di nascosto al processo ad Alexandros Panagulis, leader della Resistenza greca contro il regime dei colonnelli, ci fa tornare di colpo alla memoria una pagina di storia quasi dimenticata. «Fotografando ritengo si lavori per la storia, anche quella apparentemente più minuta e trascurabile», racconta Dondero ad Antonio Gnoli in una conversazione pubblicata nel catalogo della mostra. Sì, in effetti – come scrive Giorgio Agamben facendo riferimento anche alle sue immagini – ci sono fotografie in cui i volti delle persone «esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate». D’altra parte è lo stesso Mario a dichiarare: «Non vorrei essere ricordato soltanto come fotografo. A me interessa essere ricordato come qualcuno che voleva bene alla gente». E si può essere certi che sarà così.
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In copertina, L'uomo che voleva raggiungere la luna, Festa del maggio, Accettura, Lu.