Memoto

1 Luglio 2013

Nel 1974 Luigi Ghirri fotografò il cielo per un anno intero. Dovunque si trovasse scattò una foto al giorno, per 365 giorni. Poi incollò le immagini in pannelli mensili di piccolo formato; nel farlo non tenne troppo conto dell’ordine di esecuzione. Il cielo è il cielo. Chissà cosa avrebbe fatto oggi Ghirri se avesse avuto a disposizione Memoto, il piccolo apparecchio che assicura uno scatto automatico ogni 30 secondi? L’avrebbe rivolto verso l’alto, per scattare delle istantanee delle nuvole? Difficile dirlo, perché nel frattempo, in questi quasi quarant’anni lo statuto della fotografia è cambiato radicalmente, anche grazie al fotografo emiliano, come si capisce visitando la bella mostra aperta al Maxxi (Luigi Ghirri. Pensare per immagini). Ma andiamo con ordine, e diciamo cos’è Memoto. Un piccolo oggetto di 36 x 36 millimetri e 9 di spessore; una spilla a colori vivaci  di materiale plastico, un po’ più grande del solito. La si attacca alla giacca, alla camicia, al cappotto o alla T-shirt, mediante un clip, e via in giro. Memoto costa 279 dollari, ha un solo pulsante; si preme e subito scatta foto digitali in rapida sequenza, due al minuto; possiede un’autonomia di due giorni: realizza fino a 4000 immagini che si possono archiviare facilmente. In questo modo chi lo usa ottiene una memoria visiva molto dettagliata di quello che ha fatto nell’arco di tempo in cui la minicamera scatta; il tutto senza bisogno di alcun intervento umano: nessuno guarda più dentro l’obiettivo o si sofferma a inquadrare. Fa tutto lei (o lui).

 

 

È un po’ come avere una Photomatic, la cabina fotografica, attaccata al corpo, ma non per fotografare noi stessi, bensì gli altri, il mondo circostante. Memoto appartiene a quei meccanismi automatici che si stanno moltiplicando intorno a noi, sino ai celebri Droni, i veicoli per uso militare senza uomini a bordo. Il principio ottico che li guida è in fondo il medesimo: tele-visione, vedere a distanza; temporale, in Memoto, spaziale nei Droni. La destinazione quasi obbligatoria di Memoto è il Lifebloggin. La minicamera registra e permette di archiviare degli album fotografici che vengono immessi rapidamente nelle pagine web di Facebook, o di altri social network visivi tipo Flicker.

 

 

S’assemblano così collezioni d’immagini da diffondere, e insieme si conserva una memoria di sé stessi, dei propri atti e gesti. Il mondo esterno visto dall’interno, per dirla con Peter Handke. Qualcuno sostiene che si tratta di una macchina anti-Alzheimer; per ricordare immediatamente cosa si è fatto – meglio, visto – durante una corsa attraverso il parco, un pranzo con amici, un incontro pubblico, nell’intimità della propria casa, nella camera da letto. Una forma di voyeurismo ulteriore, che avrebbe sicuramente affascinato Andy Warhol, il quale ha utilizzato la cabina fotografica per realizzare i suoi ritratti seriali, e le Polaroid; lo si può ben considerare l’anticipatore di Memoto con il suo cinema: piazzava la macchina da presa davanti a un uomo che dormiva per una intera notte e lei filmava; ha anche registrato il profilo dell’Empire State Building per ventiquattro ore di seguito. La clip appesa all’abito, realizzata dalla società svedese che ha raccolto una cifra rilevante nel crowdfounding, segno del desiderio del pubblico di avere, e usare, uno strumento del genere, ha senza dubbio un preciso significato rispetto alla memoria personale. Memoto richiama il personaggio di un celebre racconto di Borges, Funes, che, a causa di una caduta da cavallo, comincia a ricordare tutto ciò che vede, e lo riporta perfettamente con una gran dovizia di dettagli. Questo è un aspetto che fa riflettere sul rapporto che la nostra società contemporanea intrattiene con la memoria, con il suo eccesso. Ma c’è un aspetto ulteriore che colpisce: la trasformazione subita dalla fotografia. Possiamo ancora definire foto quelle scattate serialmente, senza posa, dalla macchinetta all’occhiello della nostra giacca? Quentin Bajac, conservatore del Museo nazionale d’Arte Moderna del Beaubourg, ha ragionato sulla trasformazione avvenuta nell’ultimo decennio nell’ambito fotografico in Dopo la fotografia (Contrasto). Il successo rapido e insieme sorprendente della fotografia digitale, che ha ucciso, almeno a livello di massa, quella analogica, si fonda, dice Bajac, su una serie di motivi. Prima di tutto l’operatore esercita un controllo totale sul processo fotografico, dalla produzione al consumo, escludendo gli “specialisti” del passato; le foto possono essere cancellate, oltre che manipolate con programmi come Photoshop o Point Shop.

 

 

Tutto risulta immediato, e la fase cruciale dello scatto, l’inquadratura, non ha più un’importanza essenziale nella catena della manipolazione “in cui il digitale risulta meglio adattarsi agli usi e ai bisogni del mondo contemporaneo”. Tutto diventa immateriale proprio nel momento in cui sembra cogliere una visione in diretta, immediata, della realtà stessa. Le tecniche informatiche, su cui la stessa Memoto pure si fonda, rendono memorizzabile senza fatica le immagini. Nella catena di utilizzo degli scatti i risultati sono visibili non più su carta, bensì sul computer, a casa propria, oppure direttamente sul visore dello smartphone o del tablet. Mentre sino a qualche tempo fa a circondare i personaggi famosi era la selva delle macchine professionali dei fotografi, ora sono i telefoni digitali a inquadrarli o, sempre più spesso, gli iPad. Nel suo ragionamento Bajac conclude che dalla fotografia siamo passati all’immagine: quelle digitali non sono più foto nel senso tradizionale del termine, a partire dal fatto tecnico. Se è vero che anche le foto analogiche erano una costruzione, tuttavia per un secolo e mezzo il processo fisico-chimico, che chiamiamo fotografia, ha fatto sì che quest’attività mantenesse con la realtà un rapporto di contiguità, di analogia: la luce si imprimeva fisicamente sulla pellicola e il processo chimico faceva il resto nello sviluppo. Oggi invece il digitale interrompe questa continuità: scompare la condizione indiziale della fotografia. La manipolazione, alla portata di tutti, elimina incertezze, rimodula l’immagine, la manipola, la tratta, la distribuisce: “l’immagine digitale, ottenuta attraverso i linguaggi di programmazione attivati da sensori elettronici, stabilisce oggi un nuovo rapporto, più distaccato, nei confronti del mondo”. Riguardo a questo aspetto – il distacco – Memoto sembra indicare una tendenza opposta: rimetterci in rapporto con la realtà, restituendocela tutta, o quasi. Sarebbe questo che attira tante persone? Forse il bisogno di riacquistare un rapporto di contiguità con il reale, che sembra essersi allontanato proprio in virtù della nostra capacità di registrazione con cellulari muniti di funzioni fotografiche? Roberto Casati in un libro appena uscito, Contro il colonialismo digitale (Laterza), ragiona sull’uso dei telefoni cellulari come macchine fotografiche. Sostiene che sino al 2000 l’attività fotografica è stata per lo più una “attività cerimoniale”.

 

A parte i professionisti, si scattavano foto solo in occasione di compleanni, feste, vacanze, matrimoni e altri eventi del genere. Nessuno usciva da casa con la macchina fotografica al collo o nella borsa. Oggi invece la presenza di questa funzione nel cellulare cambia tutto. Certo non si acquistano smartphone per fotografare, ma ben presto si comincia a farlo. I nuovi cellulari rivelerebbero, secondo Casati, qualcosa che nella macchina fotografica non si scorgeva, proprio per l’uso cerimoniale: le macchine fotografiche sono “registratori di appunti visivi”. Cambia tutto per il fatto di avere sempre in tasca il cellulare, e quindi una fotocamera pronta a scattare. La conclusione è interessante: il progresso non avviene quando si guarda un uso e poi si cerca la tecnologia adatta per sostenerlo, o assisterlo.

 

L’innovazione avviene piuttosto quando si pensa a un diverso utilizzo di ciò che già c’è. Non è il bisogno che aguzza l’ingegno, bensì l’ingegno che aguzza il bisogno. Secondo Casati oggi ci sono più risposte tecnologiche che domande sociali. Non so se Memoto suggerirà nuove domande sociali, e neppure se si diffonderà, se avrà davvero successo. Di sicuro la domanda cui risponde è quella di registrare appunti visivi, così come si fa con i taccuini digitali o con i Moleskine. Il problema che ci attanaglia come individui è quello di lasciare tracce, non solo di noi stessi – per questo bastava la scrittura o la macchina analogica –, ma del nostro stesso modo di vedere. Evidentemente non basta essere oggetti di visione; ora, grazie alla tecnologia, vogliamo essere i soggetti stessi della visione. Memoto ne è il terzo occhio.

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