Nudo di albero
Nel mio landscape di colline moreniche tra il Lario e il Sebino, d’inverno la vegetazione di latifoglie vuole attenzione estrema, sguardo concentrato. Gli alberi nudi non sono meno interessanti che vestiti. Meglio se ne coglie il profilo, il portamento: l’angolo più o meno acuto d’incidenza dei rami, il punto più o meno alto d’innesto sul fusto. L’esercizio di riconoscimento, arduo senza clorofilla, si appoggia ai dettagli. Si fa spirituale, religioso.
In cresta, lo skyline rivela il rameggio fine delle robinie interrotto qua e là dai palchi neri di querce e castagni. A mezza costa, le foglie secche persistenti sbalzano, sul manto bruno in linea continua con la terra arata, carpini o farnie. L’alone violaceo delle gemme pronte alla schiusa dice che la macchia dei castagni resiste al “verzicante assedio” dell’invasore, carico di spermatici baccelli, spregiato da Gadda:
“Al passare della nuvola, il carpino tacque. […] La robinia tacque, senza nobiltà di carme, ignota al fuggitivo pavore delle driadi, come alla fistola dell’antico bicorne: radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dell’Australasia e subito fronzuta e pungente alla tutela dei broli, al sostegno delle ripe. Fu per le cure d’un agrònomo che speculava il Progresso e ne diede il sicuro presagio, vaticinando la fine delle querci, agli olmi, o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi” (La cognizione del dolore, cap.II).
Poco utile, tuttavia, ingaggiar guerra ai foresti o indulgere a nostalgie di purezze autoctone.
Più tolleranti, i botanici oggi invitano a osservare con altro occhio piante e “erbacce infestanti”, a considerare altrimenti il loro ruolo, la loro azione (Gilles Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet 2004; Richard Mabey, Elogio delle erbacce, Ponte alle Grazie 2011). Sollecitano un’applicazione diversa, persino commossa e riconoscente alle indomite, ingegnose strategie di sopravvivenza in ambienti estremi o degradati dalla presenza dell’uomo, ben più di quelle infestante.
Le necessarie potature, spesso scriteriate, degli alberi nei viali urbani e nei giardini domestici costringono lo sviluppo spontaneo dei rami, ne stravolgono il disegno. D’inverno le ferite inferte sono più visibili: i monconi con i nuovi getti, brevi, dritti, appaiono sgraziati. Ma le piante resistono, si prendono rivincite. Scalzano selciati e asfalto, inghiottono chiodi e corde, colonizzano spazi abbandonati, si riappropriano di terreni incolti, riparano e stabilizzano territori depredati.
Nel prato del “nòster Politèknik”, in via Bassini, alcuni olmi stanno mangiando la recinzione di ferro. Devono aver cominciato il pasto ai tempi dell’ingegner Carlo Emilio. Sono lì a rammentarci che i vegetali sono arrivati prima di noi, e quando avremo portato a termine la nostra sempre più prossima autoestinzione, saranno i semi di erbe e piante a perdurare, riavviando il ciclo della vita.