Speciale

Occhio rotondo 8. Sguincio

21 Maggio 2023

Com’è che guardiamo? Dritto negli occhi, se si tratta di una persona; con una occhiata, ovvero con uno sguardo più veloce; scrutando, se vogliamo vedere meglio e con più calma; con un’occhiataccia, se si vuole sgridare qualcuno, redarguirlo. Poi c’è il colpo d’occhio che è qualcosa di rapido, ma anche di preciso, quello che possiedono i grandi intenditori d’arte e i detective, quelli che capiscono al volo tutto, o quasi. Per intitolare le fotografie che ha scattato tra il 1969 e il 1981 Guido Guidi ha usato l’espressione Di sguincio (Mackbooks, pp. 142, £ 55), un tipo di sguardo sghembo: di sbieco. La parola “sguincio” pare sia stata usata per primo da Palladio e in origine era un termine volgare. Forse non indicava neppure un tipo di sguardo, piuttosto un’azione, un movimento inatteso – con le mani, con tutto il corpo? Il termine viene dall’antico francese guenchir (1138 circa), che poi a sua volta deriva dal francone wenkjan: “andar di traverso”. Traverso a cosa? Al modo usuale di guardare?

Probabilmente sì, perché qui il fotografo romagnolo, usando una Leica o una Rollei 35 mm, non ha guardato in macchina nel realizzare le fotografie, piuttosto scattava come se l’obiettivo fosse un occhio staccato da lui, più in basso dei suoi occhi o più avanti, oppure un occhio che guarda là dove di solito non si guarda e in modo velocissimo. Come nel caso della fotografia che ho scelto del 1980. Si vedono due gambe femminili, una calza una scarpa, l’altra, in primo piano, sembra coperta da un’ingessatura; presa al volo lascia fuori fuoco il terreno sottostante coperto di sassi, come del resto il gambale ortopedico in primo piano: solo l’elegante scarpa è quasi a fuoco. Fotografare è guardare? Ovviamente sì, ma un guardare molto particolare, dal momento che se anche noi guardiamo, o non guardiamo, come nel caso di Guidi, dentro l’obiettivo, la macchina si comporta come un altro occhio, il terzo che abbiamo a disposizione.

Di questi scatti spesso sfuocati, troppo vicini all’oggetto o al soggetto fotografato, mossi, e a volte persino confusi, mi colpisce non solo il gesto surrealista o informale cui si ispira, come riferisce Guidi stesso parlando con Antonello Frongia nella conversazione finale del volume, bensì l’elemento storto, quello tortuoso, che è implicito in un atto peraltro così diretto – la fotografia è diretta? direi proprio di sì, anche quando è di sguincio. Guido Guidi quando ha iniziato a fare questi scatti nel 1969 imitava, o almeno si ispirava ad altri fotografi famosi – era giovane, aveva solo ventotto anni – ai maestri e predecessori, e insieme voleva compiere anche una effrazione, andare contro corrente.

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Treviso, 1977 © Guido Guidi.

La fotografia all’epoca doveva essere “bella”, “pulita”, doveva raccontare il mondo così come lo si vedeva, ma a Guidi questo probabilmente non stava bene, voleva riprodurre lo sguardo laterale, distratto, casuale. È lo sguardo che di solito non si desidera registrare sulla pellicola, e in camera oscura non si stampa: è inutile. Questo libro di fotografie “inutili”, il primo di tre, cosa ci dice riguardo la fotografia di Guido Guidi, circa il suo modo così peculiare di fotografare il paesaggio, quello con cui interroga i luoghi estorcendo a ciascuno di essi qualcosa di inatteso e persino di inattuale? Ci dice che lo sguardo di Guido Guidi insieme geometrico e ombroso, perspicuo e allarmato, esatto e tendenzioso delle sue fotografie più note ha qui il proprio rovescio.

Là dove la sua fotografia cattura l’essenza sensibile della realtà, ovvero l’apparenza, che è anche una persistenza ottica, il suo terzo occhio contempla invece la possibilità d’essere sghembo, di andare di traverso. Non che questo non ci sia già nelle sue fotografie più note, anche lì lo si coglie, ad esempio dal modo con cui fissa l’ombra – l’ombra è il punto dove posiziona la macchina, ha detto in un’intervista a Laura Gasparini. Al contempo nelle fotografie prese di sguincio c’è tutta la geometria dei suoi paesaggi. Forse queste fotografie sono immagini inconsce? Possibile, per quanto, come nella foto delle due gambe femminili c’è molta fotografia del passato, ci sono gli autori che Guidi ama – Walker Evans, che nella metropolitana di NY coglie al volo i passeggeri con una macchina nascosta –, e anche quelli che non ama – Henri Cartier-Bresson con il suo “istante” e J. H. Lartigue con la sensualità dell’oggetto e con il movimento flou.

Guido Guidi è un fotografo colto e riflessivo, la sua natura lo induce a una azione pensata mentre scatta. Qui sembra voler disattendere la metodicità del suo sguardo, quello che predilige guardando dentro la macchina – il terzo occhio non sempre esiste nei suoi paesaggi, poiché quasi tutti sono ricondotti ai due occhi. Ci sono nel volume altri due interessanti scatti del 1977: raffigurano una mano che regge un bicchiere; entrambe stanno al centro dell’immagine e sono sfuocate, mentre di sguincio si distingue perfettamente una pentola poggiata su una cucina economica là in fondo. Questa immagine rende bene conto di quello che voglio dire: il fuori fuoco viene prima e ne è il contorno invisibile che l’artista ha voluto qui mostrarci con inattesa generosità. Forse per farci pensare anche a ciò che vedono o non vedono i suoi occhi, quando il terzo è momentaneamente chiuso. 

In copertina, Treviso, 1980 © Guido Guidi.

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