Panico e disgusto a Harvard. 4
Pochi giorni dopo l’attacco di Hamas, e prima ancora che Israele montasse la sua spaventevole risposta, l’ufficio immatricolazioni della Harvard University ricevette una strana telefonata. Apparentemente, era la madre di un miliziano di Hamas che chiedeva se fosse possibile ottenere una borsa di studio per suo figlio sulla base della sua partecipazione al massacro. La cortesissima risposta dell’impiegato fu che le borse di studio sono assegnate sulla base delle necessità economiche e non del merito. La cosiddetta madre del miliziano insistette: ma non sarebbe di vantaggio sapere che è un combattente di Hamas? La seconda risposta, fredda ma gentile, fu che tutto quello che uno studente fa può essere d’aiuto. Ma mio figlio è coscienzioso, ribatté la madre. Non ha violentato le sue prigioniere, le ha solo uccise. È molto rispettoso dell’autodeterminazione di genere. È un vero femminista. L’impiegato, impassibile, ribadì che la procedura di ammissione guardava l’intera carriera dello studente. Tutte le sue attività sarebbero state prese in considerazione.
Chi ha risposto al telefono certamente aveva capito che si trattava di uno scherzo, ma non ha perso il controllo e non ha chiuso la telefonata. A suo modo, è stato bravo. Può anche aver pensato che si trattasse di metterlo alla prova per poi sottoporlo a un doxxing (facendo circolare nome e foto e accusandolo di qualcosa). Ma chi ha telefonato, vale a dire Racheli Rottner, una giornalista satirica israeliana, non nuova a provocazioni di questo genere, ne ha tratto una conclusione diversa. Si aspettava che l’impiegato a un certo punto ne avesse abbastanza e mettesse giù. Come ha poi detto in un’intervista: “Il problema non è Harvard. È il concetto di un mondo che davvero non capisce che cosa significa essere in guerra – in una guerra vera – costantemente. Per la gente delle nazioni dell’Occidente dove tutto è confortevole ed educato (…) per loro, essere politicamente scorretti è la cosa peggiore che possa accadere. (…) [Ma] per noi è questione di vita o di morte. Non è come discutere di preferenze, di pronomi, o di essere il più possibile inclusivi nella nuova campagna pubblicitaria per un caffè” (Hamas to Harvard: Israeli satirist exposes insane depths of inclusivity - The Jerusalem Post (jpost.com)).
S’intende, aggiungo, che le stesse cose le potrebbe dire un palestinese. Ma non è proprio vero che il problema non è Harvard. È anche Harvard, e lo è stato fin dalle prime ore dopo l’attacco di Hamas, quando circa trenta associazioni studentesche hanno firmato una dichiarazione nella quale si diceva: “Noi sottoscritti riteniamo il regime israeliano interamente responsabile di tutta la violenza che si sta manifestando”. Lo si è detto anche altrove, e anche in Israele (anche da “Hareetz”), dove però si dava la colpa al governo Netanyahu più che al “regime”. Ma Harvard è il gioiello della corona americana, che non ha un’aristocrazia di spada o di sangue bensì un’aristocrazia di toga, e la toga viene primariamente dalle otto università della Ivy League (Harvard, Yale, Brown, Columbia, Cornell, Princeton, Dartmouth e University of Pennsylvania), più la galassia delle Seven Sisters (i college femminili della East Coast) e dei pochi altri atenei che si sono guadagnati una posizione vicina alla Ivy League.
Negli Stati Uniti c’è ancora abbastanza mobilità sociale per permettere carriere meno prevedibili, ma i laureati delle istituzioni che ho menzionato sono ancora l’ossatura del management, della politica e della grande burocrazia. Il loro diploma parla per loro. Saranno sempre i primi ad essere chiamati per un colloquio di lavoro, e spesso lo avranno perché un laureato di Harvard o Yale, non importa se non è tra i più brillanti, dà prestigio anche a chi lo assume. In un episodio della serie Westworld due ricchissimi imprenditori si incontrano a un party. Uno dei due si permette una citazione da Marco Aurelio; l’altro gli dice: “Mi dimentico sempre che tu vieni da una famiglia povera. Alla mia università, solo i figli dei poveri leggevano i libri. Noi figli di ricchi sapevamo di non averne bisogno”. Una volta le Ivy League erano assolutamente esclusive, ma negli ultimi decenni – pur non rinunciando ad ammettere con molta generosità i figli dei loro laureati più danarosi – hanno aperto le porte alle minoranze svantaggiate. Quattro anni di corso di laurea a Harvard possono costare 350.000 dollari, ma Harvard ha una dotazione di 48 miliardi di dollari, è una nazione a sé, è intoccabile.
O almeno così si credeva fino al giorno in cui le trenta associazioni studentesche hanno firmato la dichiarazione che attribuiva l’intera responsabilità dell’attacco di Hamas al regime israeliano. Il mondo conservatore ha reagito con un’unanimità che non si vedeva dalla guerra del Vietnam. Pareva che Hamas avesse invaso Harvard e non un kibbutz israeliano. Pareva di sentire i tacchi delle loro scarpe lucidate muoversi verso i loro “meetings” e chiedersi: Dove troveremo i nuovi quadri dirigenti? Come faremo a essere sicuri che i nuovi burocrati non siano dei militanti antisionisti? Lo stesso panico si è sparso a Yale e in altre università. Non ci è voluto molto perché Accuracy in Media (AIM), un’agenzia di controinformazione di destra, nata nel 1969 a sostegno della guerra in Vietnam, approntasse dei doxxing trucks, autocarri che hanno circolato nei campus di Harvard e Yale con appese all’esterno le foto e il nome di vari studenti che avevano firmato i documenti di accusa, sovrastate dalla scritta: “Questi sono i capi dell’antisemitismo a Harvard”, “Questi sono i capi dell’antisemitismo a Yale”. Subito dopo, gli amministratori delegati di importanti studi legali e di consulenza finanziaria hanno fatto sapere di aver preso nota dei nomi e che non assumeranno mai gli studenti firmatari di quei documenti.
Toccare la Ivy League significa toccare il ricambio del Sistema, e la risposta del Sistema è stata dura. Dopo centinaia di articoli che denunciavano il marxismo-hamasismo ormai imperante nelle università, le rettrici di Harvard, Columbia, M.I.T. e University di Pennsylvania sono finite nel mirino della destra repubblicana, rappresentata da Christopher Rufo, attivista ultraconservatore (prediletto da Ron De Santis, governatore della Florida) e da Elise Stefanik, deputata dello Stato di New York e fedelissima di Trump. Stefanik ha indetto un’udienza parlamentare in cui le quattro rettrici dovevano giustificare la risposta tiepida o assente, da parte delle istituzioni da loro dirette, alle manifestazioni in sostegno di Hamas e alle invocazioni di genocidio contro gli ebrei.
Ci sono state, le invocazioni al genocidio? Sì, ci sono state. Casi isolati, certamente, ma non potevano non far notizia. Ai primi di novembre, in un forum di discussione alla Cornell University, uno studente ha definito i suoi colleghi ebrei “escrementi sulla faccia della terra”. Sono seguite minacce di violenza sessuale, decapitazione e la promessa di “estirpare tutti gli ebrei da Cornell”. Alla New York University uno dei manifestanti in favore di Hamas ha innalzato un cartello in cui chiedeva che il mondo venisse “ripulito dagli ebrei”. È stato dunque il genocidio l’argomento dibattuto nell’udienza parlamentare del 5 dicembre, alla quale era assente solo rettrice di Columbia (egiziana, ma accusata da studenti e colleghi di essere troppo pro-Israele), che aveva la scusa di dover andare ad Abu Dhabi per la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Le altre sono cadute nella trappola.
Il termine genocidio non esisteva prima del 1944. Fu creato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin per descrivere lo sterminio degli ebrei messo in atto dai nazisti, e il 9 dicembre 1948 venne ufficialmente adottato dalle Nazioni Unite. Il sito dell’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti definisce il genocidio come “un crimine internazionalmente riconosciuto nel quale vengono commessi atti con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Il sito specifica che i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, la pulizia etnica e l’omicidio di massa non rientrano nella definizione specifica di genocidio (What is Genocide? - United States Holocaust Memorial Museum (ushmm.org)).
Sia la definizione sia le successive specificazioni vanno tenute presenti per capire ciò che è accaduto durante l’udienza del 5 dicembre. Nessuna delle tre rettrici ne è uscita molto bene. Sally Kornbluth, rettrice dell’M.I.T., finora ha mantenuto la sua posizione. Elizabeth Magill, rettrice della University of Pennsylvania (per brevità Penn), ha dato le dimissioni qualche giorno dopo. Era già sotto pressione da parte dei ricchi sponsor dell’Università per aver autorizzato un convegno sulla Palestina ancora prima dell’assalto di Hamas. Ma l’attenzione si è concentrata sulla rettrice di Harvard, Claudine Gay, nominata da pochi mesi, la prima donna afroamericana a occupare la posizione di President della più importante università americana, e la cui nomina era stata considerata una straordinaria vittoria nella marcia verso l’eguaglianza sociale. Questo è lo scambio di battute che ha avuto luogo tra la deputata Elise Stefanik e le rettrici di Penn e Harvard:
STEFANIK: “A Penn, invocare il genocidio degli ebrei viola le regole o il codice di condotta? Sì o no?".
MAGILL: "Se il discorso si dà luogo ad azioni concrete, può essere considerato intimidazione, sì".
STEFANIK: “Chiedo: invocare specificamente il genocidio degli ebrei, costituisce bullismo o intimidazione?”.
MAGILL: “Se il discorso sfocia in un’azione, può essere intimidazione, sì”.
STEFANIK: “Azione significa commettere un atto di genocidio? La risposta è sì. E, dottoressa Gay, invocare il genocidio degli ebrei viola le regole di Harvard sul bullismo e sull’intimidazione? Sì o no?".
GAY: “Può essere, a seconda del contesto”.
STEFANIK: "Qual è il contesto?".
GAY: “Se è mirato individualmente – mirato a un individuo”.
STEFANIK: “È mirato a studenti ebrei, individui ebrei. Glielo chiederò ancora una volta. L’appello al genocidio degli ebrei viola le regole di Harvard sul bullismo e sull’intimidazione? Sì o no?".
GAY: “La retorica antisemita...”.
STEFANIK: “Ed è retorica antisemita?”.
GAY: “La retorica antisemita, quando dà luogo a comportamenti che equivalgono a bullismo, persecuzioni, intimidazioni, è una condotta perseguibile. E noi agiamo di conseguenza”.
STEFANIK: “Quindi la risposta è sì, auspicare il genocidio degli ebrei viola il codice di condotta di Harvard, è corretto?”.
GAY: “Ancora una volta, dipende dal contesto”.
STEFANIK: “Non dipende dal contesto. La risposta è sì, ed è per questo che lei dovrebbe dimettersi. Queste sono risposte inaccettabili da ogni punto di vista”. (College Presidents Under Fire After Dodging Questions About Antisemitism - The New York Times (nytimes.com)).
La frase “dipende dal contesto” è quella che ha segnato il destino di Claudine Gay, anche se poi altri fattori sono entrati in gioco. Prima di prenderli in considerazione, però, bisogna tener conto delle implicazioni legali che fanno capo al Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Ricavo le seguenti interpretazioni da un articolo di David French uscito il 2 novembre, un mese prima che l’udienza parlamentare avesse luogo (Opinion | The Laws of Campus Culture War - The New York Times (nytimes.com)).
La libertà di parola include il diritto di offendere. Include anche il diritto di dichiararsi a favore della violenza, già stabilito in una sentenza del 1969 che ha assolto un manifestante contro la guerra nel Vietnam il quale aveva affermato che se avesse potuto avrebbe sparato al Presidente Johnson. L’accusato non aveva fatto nulla che potesse suggerire l’intenzione di dare un seguito alla minaccia. Per lo stesso motivo, appoggiare le azioni di Hamas non costituisce reato, e revocare lo statuto ad alcune associazioni studentesche palestinesi, come è stato fatto a Columbia e altrove, è incostituzionale.
La libertà di parola non include il diritto di togliere la parola ad altri. Far tacere un oratore con il quale si è in disaccordo o strappare dai muri le foto degli ostaggi di Hamas, come è accaduto in vari campus, è un reato, e se le autorità non intervengono possono essere a loro volta denunciate per omissione.
La libertà di parola non include il diritto di intimidazione e persecuzione. Secondo una sentenza del 1999, se la vittima può dimostrare che i maltrattamenti subiti hanno leso i suoi diritti di cittadino, il caso ricade sotto le leggi che proibiscono ogni forma di discriminazione. Se un’università che riceve fondi federali dimostra indifferenza rispetto ai casi di intimidazione, è passibile di essere denunciata.
Le rettrici di Penn, M.I.T e Harvard si sono attenute a questi principi. Quello che hanno detto durante l’udienza parlamentare non è criticabile dal punto di vista giuridico. Negli Stati Uniti non ci sono le restrizioni europee contro l’apologia di fascismo, nazismo e negazionismo della Shoah (per quanto sappiamo tutti quanto poco vengano rispettate). I nazisti dell’Illinois possono dire quello che vogliono. Nelle parole della commentatrice di costume Fran Lebowitz: “Vuoi essere razzista? Va bene, basta che non lo fai diventare una legge”. E in quelle di Scott Alexander, citato da David French: “Il liberalismo non è soltanto capitalismo. È una tecnologia per prevenire la guerra civile” (Against Murderism | Slate Star Codex)).
Ma un’udienza parlamentare non è una lezione di diritto costituzionale, soprattutto se chi ti interroga non ha nessuna intenzione di essere imparziale e vuole portare a casa un risultato politico. Un rettore d’università dovrebbe essere un animale feroce, ma dal video dell’udienza parlamentare le tre rettrici sembrano topini spinti all’angolo da un gatto che si lecca i baffi. Viene in mente una battuta di Ghostbusters: “Quando qualcuno ti chiede se sei un dio, rispondi di sì”. Ecco, quando qualcuno ti chiede se genocidio è una brutta parola, per favore rispondi di sì, non dire che dipende dal contesto.
La dirigenza di Harvard si è immediatamente stretta intorno a Claudine Gay, la prima donna afroamericana eletta ecc. ecc. La nomina di Claudine Gay rappresentava il trionfo della strategia harvadiana volta ad apparire l’università-simbolo del capitalismo progressista. Ma il rettore di Harvard non può essere un burocrate, dev’essere un politico. La carriera di Claudine Gay, invece, si è svolta interamente all’ombra dell’amministrazione. La sua scarsa produzione scientifica (undici articoli di scienze politiche e la partecipazione a un libro collettivo; nella mia università difficilmente sarebbe diventata ordinario) non la poteva riparare dalle accuse di tokenism (di essere stata scelta come simbolo per il colore della sua pelle). Accusa magari ingiusta, perché da chi sceglie la carriera amministrativa non ci si aspetta che pubblichi molto, finché non è accaduta la catastrofe: si è scoperto che i suoi articoli e la sua tesi di dottorato contenevano quaranta passaggi copiati da pubblicazioni altrui, senza dare credito agli autori. Harvard ha fatto l’impossibile per difenderla. Si è detto che non era plagio ma “linguaggio duplicativo” (una formulazione non diversa dai “fatti alternativi” dell’amministrazione Trump), ma chiunque sa che il plagio è una delle poche cose che tutti, nelle università, prendono veramente sul serio. Ho visto studenti grandi e grossi tremare come foglie davanti all’accusa di aver copiato la loro tesina di fine semestre. Per un dottorando che ha plagiato, poi, l’espulsione è quasi immediata. Si è detto che era un caso di razzismo, che si pretendeva troppo da lei, che si voleva punire la prima donna nera giunta in quella posizione, si sono dette tante cose, ma il 2 gennaio 2024 Claudine Gay ha annunciato le sue dimissioni.
È una storia triste, e soprattutto non risolve nulla. Gli studenti sono ancora furibondi l’uno contro l’altro ed è cominciata una ridda di azioni legali, i morti a Gaza saranno presto impossibili da calcolare, Israele viene accusato di genocidio al Tribunale Internazionale di Giustizia (anche se, dalla definizione di cui sopra, tecnicamente non è così, ma a chi importa il “tecnicamente”?) e i popoli in lotta si promettono a vicenda, come in un matrimonio perverso, che saranno nemici per sempre.
Come dice Leonard Cohen in Treaty, una delle sue ultime canzoni, “Dov’è una pace che si può firmare, che importa chi si prende la collina. Se prima andava male, ora è follia. Vorrei ci fosse pace, vorrei ci fosse pace, tra la tua pietà e la mia”.
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