Questo mondo è sfuggente

9 Maggio 2015

Mentre sto uscendo di casa per la prima di queste passeggiate mi appunto una frase di Harold Brodkey. La frase è in un racconto intitolato Suo figlio, tra le braccia, in alto nella luce che si trova nella raccolta Storie in modo quasi classico (in Italia è pubblicata da Fandango nel 2013 con la traduzione di Delfina Vezzoli). La frase dice: “Questo mondo è sfuggente. Ma qualcuno che si lascia osservare non è sfuggente, non fa male”.

 

Sono le nove del mattino, il marciapiede davanti al portone è invaso di mobili e vecchie suppellettili scrostate dal tempo. Il mio primo pensiero è: “Cristo, un nuovo trasloco”. Sono ancora scioccato dal ricordo del nostro ultimo trasloco, cinque anni fa. Allora venivamo via da un bilocale in zona Giustiniana, e nonostante l’enorme fatica che abbiamo fatto, possedevamo molte meno cose di quante ne possediamo oggi. A quel tempo A., la mia compagna, aveva una pancia di sette mesi; adesso al posto di quella pancia c’è un bambino di quasi cinque anni. Se è vero che ogni uomo sviluppa intorno a sé una nube di oggetti, come i detriti spaziali che orbitano intorno a un pianeta, un bambino genera universi di oggetti – giocattoli, vestiti, creme anti-arrossamento, peluche, tricicli, skateboard, lenzuolini, libri parlanti – che fluttuano e proliferano con il mutare dell’età e dei bisogni. Al cospetto del marciapiede invaso di mobili, il mio pensiero va alla possibilità che presto lasceremo questo quartiere, e alla quasi certezza che il trasloco che ci aspetta avrà qualcosa di epico.

 

 

Quello che sto osservando oggi però non è un trasloco. Il portiere del palazzo mi spiega che stanno ripulendo l’appartamento della signora del quarto piano. La signora ha un grave disturbo mentale, la incontro qualche volta all’ombra dei palazzi di Vigna Clara, se ne va in giro con enormi pigiami in pile, cappelli colorati, la faccia truccata in modo grottesco. Il portiere dice che è sola al mondo, c’è un amministratore di sostegno che si occupa della gestione del suo patrimonio, l’amministratore ha chiamato una ditta di pulizie per un intervento speciale, così gli operai della ditta di pulizie hanno svuotato l’appartamento, hanno allineato la mobilia lungo la strada, e adesso chiunque passi di qua può sbirciare nell’intimità di questa donna.

 

Trovo che ci sia un che di angosciante negli interni delle case trasportati all’esterno, nei traslochi in corso d’opera, nei furgoni con gli sportelli aperti attraverso cui si intravedono le reti dei letti, le armadiature, le sedie, le plafoniere, gli scatoloni pieni di foto ricordo, i vestiti impilati nei sacchetti porta-abiti, oggetti che, alla luce del sole, vivono una specie di sospensione temporale, fluttuano in un vuoto mistico. Mi impietosisce in particolare l’ostentazione dell’elemento d’arredo più privato di tutti: il materasso. Quello che per me è un malessere ovattato, in molta della gente che adesso passa da queste parti si trasforma in puro sdegno. Quando abbiamo traslocato qui, ricordo di aver discusso aspramente con un condòmino che trovava indecoroso il via vai di oggetti lungo la scala del palazzo. Da quando è nata la borghesia, il decoro è la principale preoccupazione dell’uomo borghese. E da quando è nato questo quartiere, Vigna Clara si contende con i Parioli lo scettro di quartiere romano borghese per eccellenza.

 

 

Mi avvio lungo via di Vigna Stelluti, il traffico è sostenuto, incontro persone che entrano ed escono dalle gioiellerie, dai negozi di telefonia mobile, dalle piccole boutique. Mi fermo a metà strada: da una parte c’è il dehors del bar in cui Massimo Carminati – l’ex NAR a capo di Mafia Capitale – incontrava gli uomini della sua banda, dall’altra c’è il solito furgoncino che vende le divise per le domestiche straniere; le divise sono esposte su un lato del furgoncino in una fioritura di tinte pastello, le sfumature vanno dal rosa al celeste al blu di prussia. Per terra, accanto ai cassonetti, noto due oggetti: il primo è una specie di lavoretto raffigurante un cagnolino di carta fatto da un bambino dell’asilo di nome Giovanni (il nome è scritto sulla pancia del cagnolino); l’altro è una vecchia foto in bianco e nero di una donna con un’acconciatura anni Cinquanta e un doppio filo di perle intorno al collo. Da che viviamo qui non è la prima volta che recuperiamo oggetti di questo tipo. Un anno fa A. è rientrata a casa di sera e mi ha mostrato un medaglione portafoto color bronzo, rotondo, grande come un orologio da taschino, con una chiusura a chiave. Il medaglione aveva i bordi rosicchiati, la vernice consumata; era un vecchio cimelio del secolo scorso. La foto ritraeva un bambino molto piccolo, con i capelli chiari, gli occhi luccicanti, un vago sorriso. “L’ho trovato per terra, accanto alla raccolta differenziata della carta”, ha detto. Ho afferrato il medaglione e l’ho osservato da vicino. La foto mi ha fatto provare un senso di angoscia. Lei ha cercato di mitigare quella sensazione: “Non si butta via un oggetto così. È una cosa che nessuno dovrebbe fare”.

 

 

Raccolgo da terra il cagnolino di carta e la vecchia foto, me li ficco in tasca e decido di svoltare in via Ferrero di Cambiano. Qui, sotto un portico, c’è un supermercato e una Upim. All’inizio pensavo che in un quartiere come questo la Upim fosse una specie di anomalia di sistema. Scorgevo un violento contrasto tra il benessere economico diffuso e la filosofia da commercio popolare a cui è improntata la più famosa catena italiana di grandi magazzini. Poi ho capito perché, invece, la Upim a Vigna Clara ha un senso. Ce l’ha perché la Upim è un pezzo d’Italia, e qui è sempre in voga un certo sciovinismo borghese. Se, da parte mia, nell’immediato non riesco a decrittare questa qualità identitaria, è perché non ho radici solide, come quelle che invece hanno gli abitanti storici del quartiere. Per me la Upim, ovunque si trovi, è un nonluogo che – come ci ha spiegato Marc Augé – crea “una contrattualità solitaria”. E in effetti la sensazione che ho sempre provato mettendo piede in una Upim è di essere una persona sola tra persone sole.

 

Mi aggiro tra gli scaffali pieni di capi d’abbigliamento informi e senza velleità. Mi soffermo sulla rastrelliera dei calzini, dove spicca l’offerta “5 paia a 6 euro”. Incrocio lo sguardo di un uomo che ha in mano una “camicia (non) classica”. Ha l’aria da imprenditore edile, un tipo concreto, dai modi spicci. Mi chiedo quanto incida per lui la fretta e la facilità d’uso nella scelta di comprare camicie alla Upim piuttosto che nell’elegante e prestigioso David Dawan, mezzo chilometro più in là, e quanto invece non conti la crisi economica. Ha ragione Brodkey: questo mondo è sfuggente, ma quest’uomo che si lascia osservare con in mano una camicia della Upim non è sfuggente, non fa male.

 

Queste strade, molto prima di me, le ha percorse e raccontate Alberto Bevilacqua, che abitava proprio quassù, aveva un attico panoramico che gli consentiva di ammirare la cupola di San Pietro. Qualche volta l’ho visto al bar di piazza Jacini, mesi prima che morisse. C’è sempre uno scrittore che è passato prima di noi, che si è soffermato sulle piazze e sulle strade che stiamo osservando, sui misteri delle città e degli uomini che le abitano. Uso gli scrittori – quelli che mi piacciono e quelli che mi piacciono meno – come talismani: li conservo e li porto con me perché mi siano propiziatori. In uno dei suoi libri – I sensi incantati (1992) – Bevilacqua ha scritto: “Usciamo, prendiamo un caffè nella piazza di Vigna Clara. Poi camminiamo, in confidenza, per un breve tratto, fino ad arrivare sotto una finestra già illuminata. Ne escono voci, una musica. La finestra dà idea di una casa animata, di una serata fra amici che sta per cominciare. È questo che volevo mostrare al mio accompagnatore, per fargli intendere qualcosa di più: la magia del quotidiano, […] il linguaggio di tale magia, quando ritrova la voglia di farsi udire, abbracciando le persone e le cose, diventando un’armonia nell’aria”.

 

 

Non è un pezzo di letteratura memorabile, anzi, ci trovo qualcosa di inutilmente zuccheroso. Ma mentre rifletto su quella che Bevilacqua definisce “la magia del quotidiano”, vedo una donna anziana che esce da un portone, sorretta da un badante con i tratti del viso asiatici. Il badante indossa un k-way, è molto giovane, ha adeguato la sua giovinezza al passo lento e devastato di questa donna, ha un sorriso piccolo e grato sul volto, un sorriso che rivolge a me, ma che in realtà è rivolto alla donna, con spirito di servizio. Nell’immaginario del badante, in questo momento, io sono un tramite che conduce il suo sorriso alla sua datrice di lavoro, ai suoi occhi appartengo alla stessa casta della donna, ne sono culturalmente e geneticamente collegato. Anche questa è “magia del quotidiano”, è “armonia nell’aria”. Ma l’effetto che mi sortisce è di una tristezza senza fine. Penso che la magia del quotidiano non sia altro che l’obbligo di rispettare una serie infinita di regole sociali sulla cui effettiva validità non abbiamo diritto di parola, mentre l’armonia è il rapporto perfettamente calibrato tra una forma di oppressione e una di sudditanza. Se adesso incontrassi Alberto Bevilacqua al bar di piazza Jacini gli direi che non c’è magia nel quotidiano, che questo gioco è fatto di due sole fasi alternate, avvistamento e meditazione, e che la letteratura dovrebbe parlare senza infingimenti.

 

Dall’altra parte del portico, oltre l’ingresso della Upim, c’è una casa di cura privata. Il via vai è continuo a tutte le ore del giorno. Tra le infermiere che lavorano qui c’è una donna che mi aspetta ogni mattina alle sei e cinquanta, aspetta che esca con la macchina, liberando il parcheggio, in modo che possa occuparlo lei con la sua Mazda2. Deve aver imparato a memoria il mio numero di targa, riesce ogni mattina a scovare la via in cui ho parcheggiato la sera prima, e se qualche volta parcheggio in una via insolita, me la ritrovo davanti al portone di casa, in auto, con le quattro frecce, e non appena mi vede spuntare dal palazzo, mette in moto e mi segue a passo d’uomo, senza alcuna discrezione.

 

All’inizio l’infermiera ha provato a scherzare su questi pedinamenti quotidiani, ha detto: “Mi deve scusare, attacco alle sette, a quest’ora del mattino è impossibile trovare parcheggio, e lei è così gentile da non mandarmi a quel paese”. Le ho risposto che non avevo niente in contrario a che mi pedinasse. Tuttavia, col passare del tempo, mi sono accorto di provare sempre più fastidio per questa caccia quotidiana in cui faccio la parte della preda designata. Trovo che sia una delle tante follie a cui ci costringe la vita in questa città smisurata e ostile. Per esempio, ho provato una volta a spiegare a due operai di Padova che per andare a lavoro percorro ogni giorno settanta chilometri in macchina, e che questo, per una città come Roma, rientra nella normalità. Mi hanno guardato come si guarda un pazzo, e ho pensato che avessero ragione a guardarmi così. Del resto a Roma consideriamo amici persone con cui ci si vede meno di una volta l’anno. Come esseri umani abbiamo demandato alla topografia la ridefinizione dei nostri legami.

 

Proseguo la mia passeggiata scendendo su Corso Francia. Il nome esatto della via è Corso di Francia, ma nell’uso comune è stata decretata la morte della preposizione “di”. Mi domando spesso perché la stessa sorte non sia toccata a Piazza di Spagna, perché l’indolenza romana non l’abbia scorciata in Piazza Spagna. Dall’altra parte della doppia carreggiata c’è l’Admiral Club, una sala da gioco, di quelle con multi-gaming, slot machine, video lotterie. Davanti all’ingresso c’è una donna che sta spazzando, è alta e magra, ha i capelli biondi, per il catalogo sistematico dei segni fisiognomici si tratterebbe di una donna dell’est Europa, lavoratrice calma e solerte, affidabile, attenta alle qualità morali degli altri, capace di trattare nel giusto modo ogni tipo di cliente. Faccio deduzioni, perché un osservatore nelle mie condizioni non può far altro che dedurre. Del resto tutto il mondo è il risultato di una deduzione. Niente è oggettivamente vero.

 

 

Mi fermo al semaforo pedonale. Il verde scatta molto lentamente. Qui una volta ho visto una donna anziana che, esasperata dall’attesa, ha iniziato ad attraversare ignorando le macchine che sfrecciavano a tutta velocità. Il semaforo pedonale era ancora rosso, ma si trattava di un problema che nella sua testa non la riguardava più. La signora avanzava lentamente, guardando fissa davanti a sé e trascinandosi dietro un carrello per la spesa. Le macchine la lambivano, e dalle due sponde di Corso Francia tutti l’abbiamo osservata atterriti. Una volta giunta dall’altra parte, ha continuato a camminare, mantenendo sempre lo stesso passo noncurante, finché le porte dell’Admiral Club si sono aperte, investendo per un istante il marciapiede con il luccichio delle slot machine. La signora è entrata con il suo carrello della spesa, e le porte si sono richiuse dietro di lei. Quel giorno ho capito con totale limpidezza il significato dell’espressione giocare d’azzardo.

 

Il traffico qui è bestiale, l’aria irrespirabile, una sfida oltre il limite umano di sopportazione, in questa zona le case costano un occhio della testa, ma chi ha l’affaccio su Corso Francia deve patire una vita d’inferno. Su un balcone c’è uno striscione, c’è scritto “appartamento in vendita”, di seguito c’è il nome di un’agenzia immobiliare e un numero di telefono. I fumi di scarico delle macchine hanno ridotto lo striscione a un ampio mantello lercio. A Roma l’idea di bellezza è ambigua. Fatta eccezione per il centro storico, per le vie del turismo, per le vestigia del passato, dove la bellezza aggredisce lo sguardo senza fraintendimenti, il resto della città è un cupo e malsano alveare. La qualità che a Roma rende bello un quartiere non risiede nel suo aspetto esteriore, nella sua perfezione formale, ma nella funzione sostanziale che esso svolge all’interno del congegno sociale.

 

Mentre mi inerpico lentamente tornando verso casa penso ancora alla donna del quarto piano, penso al suo trucco smodato, al rossetto steso a larghi tratti fino a macchiare il mento e le guance, all’ombretto lilla che le deforma le palpebre trasformando i suoi occhi in due piste circensi, penso a lei che tutti i giorni si agghinda davanti allo specchio, indossando cappelli sgargianti e pigiami colorati, a lei che solo così si sente bella, penso alla scusa che avrà inventato oggi l’amministratore di sostegno per convincerla a uscire di casa e ad andarsene a spasso per qualche ora in modo da non intralciare i lavori della ditta di pulizie, me la immagino adesso che cammina per queste vie, senza niente da fare, con la gente del posto che la ignora perché è abituata alla sua insania, la gente che fila dritto, a parte lanciarle vaghe occhiate di disgusto o di compassione. Penso che in fondo la bellezza sia nient’altro che questo: la capacità di imporre la cognizione di sé a dispetto della natura circostante. Così questa porzione caotica di Roma ha fama di essere bella perché la gente che ci abita non mira a raccogliere consensi fuori da sé, ma risponde a un’idea che è tutta dentro di sé. Questo quartiere è un’isola addormentata nel proprio sfarzo.

 

Arrivo nello slargo davanti al portone del palazzo in cui abito. Il grosso dei mobili della donna è stato riportato nell’androne. Sul marciapiede c’è ancora una vecchia chaise longue di velluto con le impunture color acqua marina. Sulla chaise longue è disteso un operaio della ditta di pulizie. L’operaio sta di traverso, con i piedi incrociati. Ha l’aria annoiata e beffarda, sembra parodiare la Paolina Borghese di Canova.

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