INDICATIVO PRESENTE | Duecento giorni in classe / Razzismi
La collega di Lettere sorridente e dem mi ha chiesto se volevo partecipare al gruppo che avrebbe preparato il Giorno della Memoria: «Ciascuno porta le sue idee e vediamo cosa viene fuori». Ahi. Temevo il risucchio nell’extra-time, riunioni verbose… e così ho declinato. Non se l’è presa. Pochi giorni prima del 27 gennaio ho sentito delle voci angeliche cantare una melodia ebraica. Il suono proveniva dall’aula magna. Ero in un’ora buca e ho salito in punta di piedi le scale. Così ho visto una prova di quello che lei con l’aiuto di una collega di musica e un’altra di Lettere stavano preparando. A sinistra c’era un’orchestrina di tastiere elettroniche con qualche strumento acustico solista. Davanti a loro quattro lettrici. Poi c’erano dei banchi, una lavagna, con altri ragazzini e ragazze sedute; quella sarebbe stata la classe del 1938 da cui inspiegabilmente e dolorosamente uno ad uno se ne sarebbero dovuti andare i compagni che avevano scoperto di essere ebrei. Infine ecco il coro di voci angeliche, che cantava una ninna nanna che una vittima di un campo di sterminio cantava con i bambini, per consolare il loro dolore in attesa della morte. Ci sarebbe stata una recita per i genitori delle classi coinvolte e per la Dirigente Scolastica. Io ho chiesto se potevano fare una replica per altre classi: volevo portare la mia. E qualche mattina dopo la mia classe era nelle prime file, attenta, e non ha disturbato.
Io avevo preferito organizzare un’uscita in città. Non vanno mai in centro! Sanno a mala pena com’è fatta la città e in che zona della città sia il loro quartiere. Con la simpatica collega di Arte così li ho accompagnati in bus in centro alla mostra del Polo del 900 intitolata “Che razza di storia”, che in pochi ambienti e con un uso efficace della multimedialità ha raccontato come l’Italia di re Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini si sia vergognosamente, criminalmente allineata all’antisemitismo del nazismo tedesco in pochi mesi, con una raffica di documenti pseudo-scientifici firmati da pseudo-scienziati che nell’abominevole rivista “La difesa della razza” si sono inventati fiumi di vomitevoli parole su conformazione cranica di ebrei e africani e altre porcherie. C’era una piccola scenografia che rievocava i faldoni cartacei che l’Ovra preparava per schedare prima e poi cacciare da tutti gli impieghi pubblici gli ebrei adulti, in particolare i nostri colleghi professori, e da tutte le scuole del Regno i bambini e le bambine ebrei.
A quella uscita Samir è venuto con un taccuino e una penna: per quattro mesi il suo banco è rimasto vuoto; mai un libro, mai un appunto, niente; solo battibecchi con compagne che non lo sopportano, e gli dicono che puzza (effettivamente ho poi tenuto una lezione sull’igiene personale, evocando l’incredibile efficacia del sapone quotidiano su capelli, ascelle, area genitale e piedi; promuovendo inoltre un po’ partigianamente il valore antitraspirante dell’allume di potassio, conosciuto da alcune ragazze ben curate della classe).
Samir non ha disturbato, ha ascoltato attentissimo la guida, che parlava un italiano piuttosto universitario per il mio piccolo branco: io ogni tanto traducevo.
Samir prendeva appunti contro le pareti su cui erano serigrafate le domande che i curatori ponevano ai visitatori e un custode lo ha sgridato: non poteva appoggiarsi in nessun dove; le domande facevano riflettere sul fatto che il razzismo è qualcosa che è sempre capitato nella Storia, e che capita, ricapita sempre se non stiamo in campana e non ne identifichiamo le infinite varianti.
Giorni prima Mwaka ha raccontato che le cose sui mezzi pubblici vanno di male in peggio: «Perché i bianchi quando un nero si ribella a un insulto stanno tutti dalla parte di chi ha insultato e vogliono chiamare i Carabinieri per fare il culo al nero?». Ehm… ho decostruito l’insidiosa domanda. Si evince che alcuni passeggeri dell’Europa dell’Est, spesso etilisti, approcciano con violenza verbale “negre” sedute o che chiedono di sedersi. Loro si difendono ad alta voce e a quel punto il bus si allea contro “la negra” e partono le intimidazioni razziste. Questo è quello che capita alle loro madri. Ora che Ministri della Repubblica Italiana incoraggiano chiunque a pensare che fare annegare in mare profughi africani sia una tutela degli italiani, ecco cosa comincia a capitare nella vita quotidiana dei miei allievi, fuori dalla scuola e dalla nostra vigilanza. Gli europei dell’Est aggrediscono, pensando che sia in pericolo la loro immigrazione, e i pensionati ex operai della Fiat di origine meridionale di questi quartieri periferici rincarano la dose.
La storia sanguina razzismi e schiavismi. I negrieri portoghesi scoprirono la fruttuosa tratta dai re del Senegal e del Benin e cominciarono a metà Quattrocento a scambiare prima e a rapire poi derelitti dall’Africa; papa Niccolò V nel 1452 con una bolla autorizzò il re del Portogallo Alfonso V a rapire e fare schiavi tutti gli islamici e i pagani che voleva, visto che non li poteva definire cristiani, e dunque degni di pietà cristiana. Gli arabi da secoli mercanteggiavano schiavi di ogni origine e etnia: slavi, europei, cristiani o meno. Non sappiamo quanti milioni di africani siano stati deportati dagli arabi pre-islamici e poi islamici: 10, 15, 20 milioni? Il modo in cui oggi i libici trattano i profughi che vengono da altri Paesi, in particolare sub-sahariani, non ha nulla di sorprendente.
In classe ogni tanto si accendono razzismi di cui loro sono inconsapevoli: le ragazze di origine maghrebina sono ferocissime contro i ragazzi di origine africana. Le ragazze di origine italiana sono ferocissime con i ragazzi di origine maghrebine. I ragazzi africani capeggiano il fronte “voi italiani siete tutti razzisti” ma contestualmente appena possono prendono per il culo i ragazzi di origine maghrebina. Durante l’ora di Geografia, parlando d’Africa, ho proposto per domarli in un ricorrente impossibile tumulto di inizio ora di approfondire soltanto i capitoli sui Paesi di cui sono originari «i loro nonni». Vivevano in campagna o in città? Erano già tutti praticamente ex-contadini inurbati, che sono poi emigrati dalle città; da Fez, Rabat i nonni marocchini; da Lagos i nonni nigeriani; dal Cairo i nonni egiziani. Mwaka, originario del Senegal, non ha voluto venire alla mostra sulle leggi razziali; è il burattinaio del clan degli africani, e a ogni rimprovero accusa di razzismo i professori. Abbiamo deciso di accerchiarlo, rilevando che il suo presunto diritto di ripetente di portare ininterrottamente in testa un berrettino di lana grezza blu esula del tutto dalle regole di buona educazione (in luogo chiuso ci si scopre il capo; fatto salvo il precetto islamico per le ragazzine in età riproduttiva). Gli ho detto che se continuerà ad aizzare i compagni e a prendermi in giro prenderò il suo berretto e lo farò volare in cortile: con un filo di voce ha replicato: «… e lei finirà nella tomba».
La classe ha atteso la mia reazione all’alta sfida: «Guarda Mwaka, io ho vissuto abbastanza, ho praticamente fatto quanto potevo e volevo fare, e per me morire non sarebbe grave. La tua vita invece sarebbe rovinata dagli anni di galera che dovresti scontare». Così nei giorni successivi Mwaka ha sospeso le trame di ribellione.
Il capitolo sull’Egitto lo faccio leggere a Samir, anzi, lui vuole leggerlo: ha difficoltà enormi a leggere ad alta voce, si sta sforzando molto, ma da inizio anno ha fatto progressi. Gli chiedo dove vivessero prima di inurbare al Cairo, e lui ci cita una piccola città vicino ad Alessandria. «Per andare al Cairo, tipo tu cammini sulla strada e quando passa un tuk-tuk tu gli fai segno con la mano, tipo, e lui si ferma e carica fino a tre persone». Mentre lo racconta ha gli occhi entusiasti perché sta ricordando qualcosa di qualche estate fa; viene alla lavagna a disegnarci un tuk-tuk. Io cerco sul tablet foto di tuk-tuk e le mostro alla classe. Mentre tutto questo accade il clan degli africani lancia boati di derisione verso Samir. Perché quei tuk-tuk (i nostri Ape car) sono da “pezzenti marocchini”. Ma io e Samir siamo andati avanti, e ora tutti sanno cosa sono i tuk-tuk d’Egitto.
La prossima settimana farò cooperative learning sulle leggi razziali, sulla mostra, sullo spettacolo dei loro compagni Il giorno in cui non sono andato a scuola, e visto che il razzismo cola anche dai muri, porrò alcune domande come quelle scritte sulle pareti del Polo del 900: “La paura alimenta l’intolleranza?” L’ignoranza, aggiungerò, è madre di tutti i razzismi?; ignorare ad esempio che siamo tutti una zuppa di cromosomi etnici? Non essere empatici, non metterci nei panni dell’altro, è padre di tutti i razzismi? Le frecce avvelenate del razzismo scoccano da, e in, ogni direzione, in classe, sui bus, sui social. Potreste imparare a sentire il sibilo insidioso della freccia appena scocca dal vostro arco?