Sara Benaglia. Casting the circle
Credo che l’assunto di partenza a cui tutti possiamo in qualche modo aderire è che l’arte ha a che fare con un modo diverso di pensare, non fosse che passa attraverso il visivo piuttosto che altri linguaggi. Non si storca dunque il naso di fronte al rimando di questo ciclo di opere di Sara Benaglia alla telepatia, e vi si scorga invece subito, sotto il velo della parapsicologia, il gioco sottile tra l’esoterismo e la dimensione popolare, diciamo pure “tele-visiva”, che lo amplifica. Non è così, televisivamente, che sembrano passare la maggior parte dei messaggi oggi?
Benaglia doveva passare per il Giappone per raggiungere questo ultimo esito: lì la disciplina è una forma misteriosa che sembra appunto rispondere a una trasmissione del pensiero, ma anche la loro lingua ideogrammatica dice ancora oggi quanto di visivo resta per loro nel verbale. Ma quanto questo appartenga sottotraccia anche a noi, Benaglia sappiamo già che sta per dimostrarci con altre serie di opere che sono in preparazione. I nostri rituali, il ricorso al rituale simbolico, perfino all’esoterismo, ogni volta che si voglia raggiungere e governare una vasto numero o uno strato diffuso della popolazione, chiamiamola così, lo dimostrano da tempo immemorabile e tutt’oggi almeno religione e politica, ma anche culture elitarie e perfino underground. Ma poi, oserei dire, lo stesso meccanismo si ritrova, mutatis mutanda, anche a livello individuale, personale, che è quanto Benaglia mi pare che abbia indagato prima di questa serie e rilancia qui almeno nel lato che lei considera la consapevolezza di genere, nel senso di gender a cui riconduce questo lavoro.
Dunque, quello che vediamo nelle fotografie sono gruppi di ragazze orientali in divisa disposte in figure geometriche perlopiù distese per terra. Perché sono disposte in questo modo? Sorta di “molecole umane”, le definisce l’artista, cercano di costruire – “casting” dice il titolo, quasi gettate dunque – forme di “ordine non gerarchico”. Ma chi o che cosa le ha indotte a disporsi in questo modo? La “telepatia” appunto. Ma in che senso? Una sorta di magia naturale e al tempo stesso pur sempre misteriosa. Nei disegni, e in altre opere precedenti, Benaglia la collega più allo stadio animale che all’umano, non per semplificare, ma quasi invece per complicare la questione. Anche qui il Giappone e l’Oriente hanno probabilmente dato una spinta alla risoluzione del problema.
Questa “telepatia” ha infatti una strana posizione che sta fra un tipo di pensiero che consideriamo del tutto naturale come quello che crediamo che guidi gli animali e che per gli esseri umani invece potrebbe avvicinarsi all’esercizio orientale della meditazione, dello svuotamento, del non-pensare, e il pensiero vero e proprio nella sua trasmissione più misteriosamente immateriale o gli stati alterati della mente. Gli insetti da un lato, potremmo dire, e i maghi dall’altro: l’arte in mezzo. In fondo l’arte è la restituzione visiva di un pensiero, non solo nel senso di cui dicevamo prima di un pensiero eminentemente visivo, ma anche in quello che potremmo intendere letteralmente, cioè del pensiero che si rende visibile.
Benaglia ha preso a cuore questo ambito e lo sta indagando a fondo in ogni direzioni. Noi di proposito non diamo indicazioni, bibliografie o rimandi più precisi, perché non ci si incollino addosso gli esoteristi paranoici o dimentichi di sé e d’altro canto neppure quelli che liquidano tutto con una scrollata di spalle al solo sentire una parola che non rientra nel loro vocabolario usuale. Ci interessa di più che un artista ci faccia fare i conti con delle questioni meno scontate – ma d’altro canto di sicura attualità se le teorie dell’empatia sono rifiorite negli ultimi tempi e se il riferimento dei neuroni specchio a questo punto parrà inevitabile – e che dimostri in questo modo l’impegno che mette nel cercare un proprio percorso.
D’altro canto i rimandi alla telepatia sono pochi ma significativi nella storia dell’arte, almeno a nostra conoscenza, ovvero gli esperimenti svolti dai surrealisti, anni venti, in particolare quelli di Robert Desnos che diceva di essere in contatto telepatico con Marcel Duchamp attraverso Rrose Sélavy, suo alter ego femminile, che gli dettava calembour diventati famosi e la Telepathic Piece di Robert Barry, del 1969, o le varie versioni di Musique télépathique di Robert Filliou, dal 1976. Benaglia ha raggiunto qui una sintesi di esposizione che si manifesta attraverso una grande semplicità di immagine tanto grande quanto, noi crediamo, la sua efficacia. La complessità dell’idea emerge dalla “stranezza” e dalla non evidenza dei suoi risvolti.
Running Reverse di Sara Benaglia è in corso presso Baco - Palazzo delle Misericordie (Bergamo) fino all'otto giugno 2014