Speciale

A scuola di notte

5 Marzo 2014

È davvero notte quando entro in quinta geometri per la sesta ora, che inizia alle 22 e 25 e termina alle 23 e 15. Gli studenti superstiti, buttati qua e là tra i banchi, hanno facce da paura, i capelli scomposti, gli occhi arrossati. Paolo è uno di quelli che di giorno lavora, fa il fabbro. Mi guarda e sorridendo mi domanda se facciamo davvero lezione. Me lo chiede sempre e io, che pur vorrei tanto urlargli di no, allargo le braccia e dico la verità: “Ragazzi, se non vi racconto qualcosa mi addormento”. E immancabilmente lui ribatte: “Ma così ci addormentiamo noi”. Pochi ridono, perché sanno che è la verità. In effetti, come facciano a stare lì davanti a me, tentando anche di seguire qualcosa delle mie parole, mi è sinceramente inspiegabile. Perché simili torture? Che senso ha costringere quei poveretti a stare a scuola a quell’ora? Sandro compie tra poco quarantacinque anni, non so se lavori o meno, so che ha una bambina piccola e che fa il volontario alla Croce Rossa.

 

Mi attende sulla porta e con uno sguardo d’intesa mi sussurra: “Lei non ha visto niente, vero?”. Nascosta tra le dita ha la sigaretta, che mi mostra per farla scomparire subito. Non vuole farsi notare dai compagni più giovani, “non vuole dare il cattivo esempio”, non vuole passare, lui, il decano della classe, per quello che le regole non le rispetta. Ma proprio non ce la fa. E io che posso ribattere? Forse gli dovrei dire che la legge lo vieta, che nessuno deve fumare anche negli “spazi circostanti l’edificio scolastico”? Gli dico “Sì vai” con un mezzo sorriso di solidarietà. Tornerà tra un quarto d’ora, a lezione abbondantemente in corso, chiedendomi scusa.

 

Dovrei spiegare Pascoli. Alle ore 23. Gli sguardi degli studenti implorano pietà, c’è chi è in piedi da quasi un giorno, mescolato a qualcuno che invece ha dormito fino all’ora di pranzo. Penso che la lezione mi potrebbe venir meglio se facessi saltare ogni regola, per esempio se spegnessi le luci e con l’aiuto di una candela mi aggirassi tra i banchi leggendo “La tovaglia”. E se mi sedessi in mezzo agli studenti e cominciassi a fare ragionamenti paradossali? “Siamo rimasti solo noi, tutt’intorno non c’è più nessuno e questo è l’unico libro che è sopravvissuto alla furia degli elementi (mostro le “Myricae”).

 

Di tutto l’umano sapere avanzano solo i versi di Giovannino, le sue parole sulla natura, i suoi simboli, le sue allusioni. Che facciamo? Rinunciamo anche a lui o lo salviamo cercando di capire cosa c’è scritto qui dentro?” Potrei farlo. Forse. Se fossi più fresco. Se fossi più giovane. Se fossi più coraggioso. E invece, disgustandomi, inizio parlando del 1855 e di San Mauro e della cavallina storna con la voce finto suadente di un imbonitore stanco. “Perché mi ascoltano?”, penso preoccupato. Non capisco se lo facciano davvero o se dormano ad occhi aperti. Ho la certezza che non gliene freghi molto di Pascoli. Molti vorrebbero solo mangiare. Però qualcuno – Marco, le due ragazze Manuela e Sara, forse anche Claudio – prende addirittura appunti. Loro non perdono un minuto di tempo.

 

Vogliono sempre “portarsi a casa qualcosa”. Fanno bene, sono veri studenti modello, di quelli che sono stati presi per scemi al diurno e invece sono davvero bravi. Ma, se devo dirla tutta, ci sono delle volte che non li reggo. Perché è a causa loro che io non posso fare la lezione extra-vagante (ma chi sono io per avere simili pretese?). Loro vogliono certezze: un brodino di Pascoli liofilizzato (un pizzico di “Fanciullino” ad insaporire e una nota biografica ben cotta, senza il contorno degli sdilinquimenti pseudo-psicologici sulla liason con Ida e Mariù). E io devo prepararglielo. Guai se gli servissi un altro piatto. Mi guarderebbero storti e poi si disunirebbero, abbandonerebbero la penna in attesa che io riprenda a dire le cose serie.

 

Così, alle ore 23, mi devo contenere, trattenere, limitare. Ma non sarebbe l’ora giusta per far saltare il bieco codice della vita scolastica? Sembra di no. Perché la fantasia (neanche tanta in verità) fa sempre un po’ paura, di notte più che di giorno: i miei timoratissimi allievi non sanno mai come prenderla, talvolta addirittura si offendono e poi qualcuno gli ha fatto credere che la scuola sia davvero questa cosa qui, una specie di stazione di servizio dove ti imbottiscono di dati per passare da un livello all’altro. E poi – ancora e soprattutto – siamo in quinta e alla fine dell’anno c’è inesorabile la Maturità e arrivano i commissari d’esame, i “professori veri”, come li aveva chiamati un alunno antico di questi corsi, che si era presentato confessandomi di “non essere molto infarinato in italiano”. E si sa che quei “professori veri” guardano il programma e si fanno un’idea sull’insegnante della classe andando anche loro a peso. Due chili di verismo e un etto e mezzo di Verga, bello fresco. Quattro etti di Montale con una spruzzatina di Saba.

 

“Prof, c’è film su questo tipo?”, mi chiede Leo, il moldavo. “Cosa?”, ribatto scuotendomi dall’infilata dei sogni. “Un film? No, non credo…”, rispondo. “No, no, non era domanda, lo so che c’è film”, ribatte Leo omettendo con piacere tutti gli articoli. Io abbozzo e cerco di assecondarlo, perché se si arrabbia alza la voce e poi finisce che litighiamo. Però quando mi descrive la trama sbilenca di non so che telefilm che ha visto da piccolo, dargli ancora ragione mi sembra troppo e allora gli dico che probabilmente dovrebbe tornare a dormire. La prende bene, riappoggia la testa al banco e tempo un minuto lo sentiamo russare. Come posso io fare il professore che rivoluziona, anche solo per mezz’ora, mentre la notte è profonda?

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