Speciale
Variazioni di viaggio da Ghiffa a Lugano
Il tema è lo stesso di un mio precedente intervento: come spostarsi, usando il più possibile i mezzi pubblici, da una piccola frazione di Ghiffa, detta Cargiago, posta sui dolci pendii delle colline della sponda piemontese del lago Maggiore e nella quale risiedo quando mi trovo in Italia, alla volta di Lugano, distante, in linea d'aria, circa trenta (30) chilometri, sede della Facoltà dell'Università della Svizzera italiana nella quale insegno.
Prendiamo il traghetto per attraversare il lago, scegliendo dunque di seguire la sponda piemontese del Verbano, questa volta col treno Tilo, Ticino-Lombardia, preso alla stazione delle ferrovie dello stato italiane di Laveno, raggiunta, dicevo, con la motonave. Ma prima di salire sul treno occorre procurarsi il biglietto, o titolo di viaggio, e questa sì che è un'impresa. La biglietteria della sgarrupata stazione di Laveno – centro un tempo famoso per le sue officine di ceramiche e per un manicomio, entrambi da tempo chiusi – non esiste più; e nemmeno esiste più l'edicola che insieme ai giornali ti vendeva il biglietto. Te lo darà il controllore, per prezzo modicissimo, scarabocchiando a mano un foglietto giallo col quale potrai viaggiare fino a Luino. Ma tu vuoi recarti a Lugano, e per farlo devi proseguire oltre Luino fino a Cadenazzo, lì cambiare per Bellinzona e a Bellinzona cambiare ancora per Lugano. Se, incauto, riveli ai controllori svizzeri (al plurale perché sono sempre in coppia o in terzetto) che il biglietto non ce l'hai perché proprio non potevi farlo, ti multeranno immediatamente con l'esosa cifra di 100 Franchi (che valgono ormai come 100 Euro). Che fare dunque? La rete, certo, avrò fatto il biglietto in rete, sul sito. Quale sito? Impossibile farlo su Trenitalia, anche perché non viene considerato l'abbonamento metà-prezzo. Dunque? Il sito delle Ferrovie svizzere te lo consente ma... fatti tutti i passaggi coi quali acquisti con carta di credito il tuo biglietto scontato del 50%, quello che ti viene sputato fuori non è un biglietto «vero», bensì una carta che dice che potrai ritirare il tuo documento di viaggio presso una stazione svizzera che abbia una biglietteria. La carta stessa non è considerata documento di viaggio, c'è scritto molto chiaramente. Ma tu attraversi solo paesini appesi al nulla e che è tanto se hanno un distributore automatico. Scendi, per cambiare, a Cadenazzo, ma anche lì niente e nessuno ha la virtù di trasformare la tua carta in un biglietto valido. Allora stai lì con la carta in mano sperando che i controllori non salgano o che siano così comprensivi da rendersi conto dell'assurdità della tua situazione. Solo arrivato a Bellinzona, capitale del cantone, un gentilissimo signore della biglietteria compirà la magica metamorfosi e tu potrai ostentare con fierezza il tuo biglietto intonso che a quel punto non servirà a nulla.
Con questa sgradevole storia di biglietti quasi dimenticavo il viaggio in sé che invece è gradevole e vario. Si sale sul treno Tilo, che è bello e pulito e silenzioso e che subito dopo Laveno si immerge nelle gallerie che tagliano il fianco della montagna. Quando si sbuca fuori, si continua a costeggiare il lago, il cui spettacolo sarebbe bellissimo se lo si potesse vedere dal finestrino. Invece pareti di arbusti e sterpaglie si coalizzano con la sporcizia dei vetri per togliertene la visione se non per brevi scorci, per esempio sul retro e sul profilo della Rocca di Caldé, coi fianchi squarciati dalle esplosioni per estrarne la pietra. Dall'altra parte del lago, sulla sponda piemontese, sul crinale della collina, la sagoma dell'ospedale auxologico di Pian Cavallo, centro rinomato per la cura di malattie della crescita e dell'obesità. Prossima sosta, la stazione di Porto Valtravaglia, in condizioni tutto sommato decorose, cosa che non si può dire per esempio per altre che tra poco verranno. Dopo Porto Valtravaglia il treno costeggia brevemente la strada statale in un tratto aperto, per infilarsi poco dopo tra le infestanti robinie e le palme selvatiche che impediscono la vista al viaggiatore. Anche il bambù si aggiunge, con le sue radici rizomatiche che paiono essere lì lì per invadere rotaie e traversine. Ma ecco, superato il ponte sul fiume Tresa (che detto così ci permette di non scegliere tra la versione maschile e quella femminile del nome, entrambe presenti), la piccola e dotta Luino con la sua architettura del ventennio (quello fascista) e la sua stazione dai bellissimi interni lasciati nel più completo abbandono. Oggi è mercoledì, giorno di mercato: se ne intravedono alcune bancarelle oltre gli edifici bassi a fianco della stazione.
A Colmegna entrano ben tre controllori svizzeri (che cosa dicevo?): due donne e un uomo, lui con al lobo sinistro l'orecchino, simbolo dell'eredità lasciata dai marinai ai ferrovieri: è l'anello del vincolo che allude al ritorno a casa. Breve sosta a Maccagno, che si stende su un pianoro verso il lago: entrano due signore svizzere che parlano tranquille loro stretto dialetto ticinese. Siamo in Svizzera. Da che cosa si capisce che siamo in Svizzera? Nel bene e nel male: dal fatto che le scarpate tra le quali scorre il treno sono pulite da rovi e arbusti infestanti (bene); ma anche dalla invasione di cemento a vista nei cuboni dall'altra parte del lago, divenuta anch'essa elvetica (male). La collina, da quella parte, conserva alcune tracce di verde nella parte alta, ma in quella bassa è deturpata da orrendi edifici, tra i quali alcuni incongrui grattacieli.
Da un gruppetto di tre viaggiatori italiani si levano proteste, dopo il passaggio dei controllori: «Ma come si permettono, di solito in questo tratto non passano mai?!». Tu però non senti quasi perché guardi la sponda svizzera dalla parte di Brissago, Moscia, intuisci Ascona nascosta dall'insenatura, e ti si stringe il cuore nel vedere lo scempio della collina. I tre italiani continuano a inveire contro la Svizzera, adesso tocca ai prezzi: «Un cappuccino, 4 franchi, una bottiglietta di acqua minerale pure!». Di fronte, la colata di cemento è in continua crescita, come testimoniano le infinite gru al lavoro che fanno immaginare il peggio. La base delle colline non ha più un centimetro di verde, è questo ciò che «la gente» desidera? Passare qualche giorno di ferie in uno di quei grattacieli che spiccano nel loro orrore? I tre italiani insofferenti continuano a denunciare le infamie, a parer loro, della confederazione, le due signore ticinesi chiacchierano tranquille, ma ecco la foce del fiume tra canneti e canali, ecco la piana di Magadino, ecco il canneto pacioso, i salici, il delta del Ticino.
Il fiume Ticino ha una caratteristica molto peculiare: entra nel lago Maggiore col nome di Ticino, ne esce con lo stesso nome. Le sue acque si incanalano nel lago a Magadino, lo attraversano compatte per più di 70 chilometri, escono dall'altra parte, a Sesto Calende, rimanendo integre. Grandioso, solo al Ticino riesce questa impresa, penso, l'ho sempre pensato fin da bambina. Mentre ci inoltriamo col treno nella piana la visione delle acque ci abbandona; crescono capannoni, campi coltivati, maneggi di cavalli, diminuiscono le abitazioni. Passano le guardie di confine, siamo a Cadenazzo, fine della corsa, come è passato in fretta il tempo scrivendo. Devo scendere, cambiare treno, arrivare in due-tre minuti a Bellinzona, cambiare di nuovo per Lugano. Tempo impiegato, tra traghetto, percorso a piedi, tre treni (!), attese: più di due ore e mezza.