Venezia 79. Gruppi di famiglia in un interno

8 Settembre 2022

Claustrofobia famigliare. Così si potrebbe riassumere questa edizione della Mostra del cinema, forse l’ultima dell’Era COVID, certo la prima con la guerra in Ucraina sullo sfondo. Una decina d’anni fa, il Leone d’Oro 2013 a Sacro GRA aveva definitivamente segnato il trionfo del “cinema del reale”, oggi potremmo parlare semmai di un “cinema dell’iperreale”. Impossibile raccontare altrimenti una realtà ormai fuori misura e fuori controllo. In questo senso, come ha giustamente osservato Mariella Lazzarin nella prima parte del reportage dal Lido (la potete leggere qui), la scelta di aprire la Mostra di quest’anno con Rumore Bianco di Baumbach/De Lillo appare, col senno di poi, quanto mai rivelatrice. 

Di fronte a questa impasse, sono sempre più numerosi i film del concorso principale che scelgono di mettere la realtà fuori dalla porta e chiudere la macchina da presa fra le quattro mura di un appartamento. Emblematico, in questo senso, The Eternal Daughter di Joanna Hogg: titolo che echeggia Dostoevskij ma che gioca con tutti i topoi della ghost story alla Henry James (Il giro di vite), in cui ritroviamo una Tilda Swinton nell’ennesimo doppio ruolo, per un inedito, stringatissimo (“appena” 96 minuti) e anche un tantino tedioso confronto tra una filmmaker e la memoria della figura materna.

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The Whale.

Altrettanto esemplare, anche se con esiti espressivi a dir poco opposti, è The Whale di Darren Aronofsky. Il regista, molto amato dalla Mostra, già Leone d’Oro nel 2008 con The Wrestler e nuovamente in concorso nel 2017 con Madre!, si candida già fra i papabili al premio maggiore (o quanto meno a una Coppa Volpi al suo protagonista) con un kammerspiel che è anche il ritratto di un personaggio-mondo. Charlie (Brendan Fraser), afflitto da una gravissima forma di obesità, vive barricato nella sua casa nell’Idaho, da cui insegna Letteratura Americana a un gruppo di studenti, rigorosamente a distanza e in videoconferenza. Come su di un palcoscenico mentale, Aronofsky mette in scena gli ultimi giorni di vita dell’uomo, visitato da una figlia adolescente che lo odia (Sadie Sink), da un giovane adepto di una setta cristiana fondamentalista (Ty Simpkins), da una amica infermiera (Hong Chow) e infine dalla ex moglie (la sempre ottima Samantha Morton). Ormai praticamente immobile, ostacolato dal corpo informe e minato dalle difficoltà cardiache e respiratorie, Charlie cerca in qualche modo di riportare ordine nel caos che ha lasciato dietro di sé, mentre fuori una pioggia incessante sembra preparare la venuta di un nuovo diluvio universale.

Come di consueto, Aronofsky gioca sul doppio registro del tragico-biblico e del grottesco con risvolti a volte comici a volte patetici. A cominciare dal titolo del film: da un lato greve e scoperta allusione alle dimensioni abnormi del protagonista; dall’altro a uno dei capisaldi della letteratura made in USA, Moby Dick, qui definita “un povero grasso animale senza emozioni”. La Letteratura, degradata e ormai ridotta a materiale buono soltanto per le prove di scrittura creativa, non è più in grado di dare conforto a nessuno: se Melville è solo uno scrittore noioso che cerca di nascondere la propria infelicità dietro infinite digressioni sui cetacei, il “canto di me stesso” di Whitman è addirittura il lamento narcisistico di una “checca patetica dell’Ottocento”.

Come in The Wrestler e in Il cigno nero, con The Whale Aronofsky porta all’estremo il suo lavoro sulla fisicità dei personaggi, procedendo dall’esterno verso l’interno, cercando di estrarre una vita interiore da quei corpi di volta in volta sfatti, feriti, automutilati. Certo, non è un regista che ama le mezze misure, e la mano è spesso pesante: la dimensione allegorica della vicenda è dichiarata a chiare lettere fin dal principio, il gusto per l’immagine a effetto e per l’iperbole visiva è più scatenato che mai. Rispetto ad altri lavori del passato, stavolta Aronofsky può contare su uno straordinario Brendan Fraser: nascosto sotto quintali di lattice, dà vita a una performance al tempo stesso minimalista e sopra le righe, tutta voce e movimenti d’occhi, rivelando qualità insospettate e soprattutto non negandosi alcunché, anzi sottoponendosi a un percorso martirologico che tocca punte di grottesco a metà tra il Ferreri della Grande Bouffe e il Creosoto dei Monty Python. 

Cinema del martirio? Millenarismo? Consapevolmente o meno, sempre in bilico fra sublime e triviale, Aronofsky ci sbatte in faccia la nostra condizione odierna: individui drogati di cibo e di farmaci, ossessionati dall’autenticità e dalla sincerità, ma ormai capaci di interagire soltanto attraverso una webcam, rintanati in casa in attesa di una fine ormai certa. 

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The Banshees of Inisherin.

La claustrofobia predomina anche in The Banshees of Inisherin, con tutto che il film è girato per la maggior parte en plain air. Ma la Inisherin del titolo è un’isola (immaginaria) dell’arcipelago delle Aran, al largo delle coste irlandesi, dove gli echi della guerra civile (siamo nel 1923) arrivano a malapena. La vita scorre tranquilla, almeno fino a quando non scoppiano le ostilità tra il candido ma un po’ tardo Padraic (Colin Farrell) e il robusto e riflessivo Colm (Brendan Gleeson). Un pomeriggio, invece di recarsi come al solito con l’amico a farsi una pinta nell’unico pub dell’isola, Colm si chiude in casa; e quando Padraic gli chiede spiegazioni, l’altro risponde di non voler più saperne di lui. La tensione fra i due cresce: Padraic non si dà pace, cerca in ogni modo il dialogo; ma tutti i suoi tentativi di riannodare l’antica amicizia hanno come unico esito di peggiorare le cose. Finché Colm arriva a minacciarlo: se continuerà a dargli il tormento, si amputerà una a una le dita delle mani. 

The Banshees, diretto da quel Martin McDonagh che alla Mostra di cinque anni fa era riuscito a portarsi a casa un premio (meritato) alla sceneggiatura con Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ne ripropone per certi versi i personaggi stravaganti e lo humour stralunato e macabro. Regista-sceneggiatore dalla sensibilità squisitamente letteraria (lo script del film è tratto da una sua opera teatrale inedita), McDonagh costruisce un racconto dai toni gogoliani (Storia del litigio tra Ivàn Ivànovič e Ivàn Nikìforovič), con qualche prestito da Beckett via Laurel & Hardy (la dilatazione dei tempi, la strana coppia, gli scambi occhio-per-occhio, qui virati decisamente al gore) e un’atmosfera vagamente cimiteriale e depressa, debitrice di certa letteratura irlandese novecentesca, da Seumas O’Kelly a Flann O’Brien.

L’insensatezza del gioco al massacro fra i due protagonisti fa il paio con quello di una guerra civile di cui nessuno capisce più bene le ragioni. E se la religione non dà risposte (il turpiloquio del prete in confessionale), anche l’arte non serve più: anzi, si annienta da sé, nelle dita amputate di Colm, violinista e compositore (le banshees del titolo vengono da una sua canzone). Il pessimismo di McDonagh potrà apparire un compiaciuto e a tratti un po’ di maniera. Eppure, soprattutto qui al Lido, è difficile non pensare a noi, con i nostri orizzonti limitati, le nostre petizioni di principio, i nostri piccoli giochi al massacro, sordi ai pericoli che incombono all’esterno. 

L’altro versante del concorso ripiega invece all’interno del nucleo famigliare, sviscerandone i rapporti, anche impietosamente. Dell’operazione condotta da Hogg si è già detto, ma c’è spazio anche per donne che la maternità la cercano, come la protagonista (Virginie Efira) di Les enfants des autres di Rebecca Zlotowski: un prodotto medio di ottima fattura, ma decisamente fuori luogo in un concorso internazionale. Oppure di madri che i figli li perdono per sempre, come accade nel bell’affresco di Love Life, diretto dal giapponese Kôji Fukada; o ancora di madri omicide, come in Saint Omer, esordio nella fiction della regista Alice Diop, di impeccabile rigore.

Anche i film italiani del concorso principale si muovono in questa direzione: purtroppo, va detto, con esiti non sempre impeccabili. L’immensità segna il ritorno sul grande schermo di Emanuele Crialese, a undici anni di distanza da Terraferma, che proprio qui al Lido, a dispetto del Gran Premio della giuria, venne accolto dalla critica con benevola indifferenza. Malgrado il regista abbia ribadito a più riprese le profonde ragioni autobiografiche dietro la vicenda di Adriana che vuole essere chiamata Andrea (l’esordiente Luana Giuliani), il film sembra più che altro volersi riagganciare a quel Respiro che ormai vent’anni fa lanciò definitivamente Crialese verso il successo internazionale: anche in questo caso, infatti, abbiamo una figura femminile “fuori dagli schemi” (interpretata da una Penelope Cruz brava come al solito) che un sistema maschile e patriarcale tenta in ogni modo di disinnescare, smorzare, sopprimere. 

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L’immensità.

Purtroppo il regista si dimostra alla resa dei conti incapace di scegliere con decisione la strada da imboccare (il ritratto di donna o la storia di un’adolescenza transgender): anche per questo L’immensità rimane tutto sommato un film irrisolto, con personaggi monodimensionali (il capofamiglia interpretato da Vincenzo Amato, attore-feticcio di Crialese), troppi prestiti da altri registi (Almodovar su tutti, ma anche Sorrentino e Ozpetek) e troppe concessioni al vintage più bieco (la carta da parati, la moquette, i pigiami sintetici, gli show del sabato sera della RAI in bianco e nero, i vinili…). E se qualcuno già parla di coerenza autoriale (la figura dello straniero e dell’alieno; i temi della trasformazione e cambiamento…), in altri sorge il sospetto (non del tutto illegittimo) di un astuto sfruttamento dei “grandi temi” del momento: ieri i migranti (Nuovomondo e Terraferma), oggi la fluidità di genere.

Meno ricco di difetti, anche se non privo di momenti interlocutori, è invece Il signore delle formiche di Gianni Amelio, le cui intemperanze durante la conferenza stampa hanno già contribuito a dare al film l’aura di succès de scandale di cui il festival non sembra proprio poter fare a meno. Di nuovo alle prese, dopo Hammamet, con una “storia vera” dell’Italia recente, Amelio rievoca a modo suo la vicenda di Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio): mirmecologo, saggista, poeta, drammaturgo, ex partigiano, ex militante del PCI, trascinato in tribunale nel 1964 con l’accusa di plagio (reato previsto dal fascista Codice Rocco, ma di fatto applicato nel dopoguerra solo in questa occasione, e in seguito abolito) ai danni del giovane compagno, Giovanni Sanfratello. Il vero obiettivo dell’accusa era quello di colpire un intellettuale non allineato, che per di più non faceva mistero della propria omosessualità. Al termine di un processo dalle forti connotazioni politiche, contro il quale si batteranno personaggi come Eco, Bellocchio, Pannella e altri, Braibanti viene condannato nel 1968 a nove anni di reclusione, poi ridotti a sei in appello (per meriti resistenziali ne sconterà soltanto due).

Dalla vicenda reale, recentemente oggetto di un bel documentario di Massimiliano Palmese e Carmen Giardina, Amelio riprende la situazione principale (il “caso” giudiziario che portò Braibanti all’attenzione dell’opinione pubblica), ma ne stravolge la cornice e i personaggi. Il suo Braibanti è decisamente “pasolineggiante”: i suoi discorsi, il rapporto con la madre, la sua iattanza polemica, persino lo stesso modo di parlare rimandano all’intellettuale friulano – che fu peraltro uno dei più fermi difensori di Braibanti nel corso della vicenda giudiziaria. Soprattutto, Amelio ne fa un altro capitolo della sua filmografia fatta di Madri Coraggio, padri mancati e figli in cerca di una figura paterna. Per Amelio, Braibanti è soprattutto un pedagogo socratico (e come Socrate finisce vittima della società e di una condanna ingiusta), mentre il compagno, qui ribattezzato Ettore (Leonardo Maltese), è una sorta di alter-ego giovane del regista, che identifica in Braibanti quel padre/fratello che non gli riesce di trovare nella realtà.

Certo, qualcuno potrebbe legittimamente risentirsi per come ancora una volta il nome di Braibanti venga messo in secondo piano, occultato da una vicenda romanzesca “liberamente ispirata a fatti reali”. Eppure, malgrado alcune sottolineature attualizzanti, vagamente anacronistiche (affidate soprattutto al personaggio-portavoce di Elio Germano) e qualche caduta nel didascalismo da prima serata Raiuno, Il signore delle formiche rimane un oggetto curioso, ibrido forse impossibile fra un melò post-viscontiano (il finale kitsch e bertolucciano con l’Aida campestre), un court drama all’americana e un film “civile” alla Rosi. Impossibile accettarlo o rifiutarlo in blocco: bisognerà riparlarne.

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