Visita a Testaccio

3 Gennaio 2016

Tempo fa, a Testaccio, mentre languivo in macchina alle pendici del monte dei Cocci, passò una carrozza trainata da un cavallo, e udii la voce del cocchiere che borbottava: “Daje che nella prossima vita io so’ er cavallo e tu er vetturino”. Il cavallo era schiantato dalla calura, e in quel momento il pungolo del padrone dev’essergli sembrato l’unico conforto. Per tratteggiare con una battuta una scena che si svolge in un’era futura di reincarnazione, dove cavallo e vetturino si scambiano i ruoli in una forma di compensazione delle fatiche terrene, ci vuole un dialogo delicato, una teatralità tutta romanesca, nutrita da scherno, affetto e sapienza popolare. La romanità in questo è molto simile alla napoletanità, con una sola, sostanziale differenza: il teatro della romanità non prevede un pubblico. E in effetti il cocchiere testaccino pronunciò la sua battuta dal sedile della botticella da cui non poteva vedere me, che me ne stavo rinchiuso in macchina, e insomma, a eccezione di me e del cavallo, nessuna creatura vivente era in grado di assistere alla commedia, il che depone a favore della sua perfetta sincerità. Nel romano, il sarcasmo è la distrazione dalle pene d’ogni giorno, compresa la pena delle pene: la solitudine.

 

Così io, non so perché, quando vengo a Testaccio mi sento più solo che in ogni altro luogo della città. Mi trovo nel quartiere popolare per eccellenza, dove Roma sembra un’immensa pedana per le orchestrine che suonano i ballabili degli anni Cinquanta e dove però le case costano quasi seimila euro al metro quadro. Cosicché i discendenti dei disgraziati che affollavano il complesso di edilizia intensiva voluto al principio del Novecento dall’Istituto per le Case Popolari, oggi si ritrovano un tesoro. Ma non per questo si è rinunciato al cliché da guida turistica che vuole Testaccio immerso tra due anime: di giorno ex ghetto operaio ancora animato da uno spirito schiettamente popolare, di notte village della capitale. Ma avendo io in antipatia tanto l’aggettivo popolare – termine da giornalismo romantico che in quanto a bugiarderia non ha eguali nel dizionario della lingua italiana – quanto le notti village, è naturale che adesso mi aggiri tra queste vie non con la faccia ammaliata del flâneur, ma col muso lungo dello zelante affossatore di quartieri.

 

Dunque lascio la macchina nel parcheggio della Città dell’Altra Economia, al Campo Boario dell’ex mattatoio, dove negli anni Novanta, negli spazi occupati dal Villaggio Globale, ho passato anch’io sprazzi di tonante giovinezza. È una gelida mattina di dicembre, il sole basso scaglia una luce gialla e affilata sulle strade. Roma d’inverno è di un’incantevole goffaggine. La prima cosa che voglio visitare è il mercato nuovo di via Galvani che ha preso il posto dello storico mercato di piazza Testaccio. Entro dalla parte di via Franklin. Da lontano intravedo il Jumping Wolf realizzato dallo street-artist belga Roa, un murales di trenta metri raffigurante un lupo che salta e azzanna e che copre l’intera facciata di un condominio di sei piani. È una cruda rivelazione urbana, il sorcio, come lo chiamano da queste parti per via della magrezza ferina che lo rende infidamente simile a uno smisurato topo di chiavica.

 

 

Mi insinuo tra i banchi del mercato, è un posto dove tutti sembrano conoscersi. Lascio scorrere gli occhi intorno. Accanto a un banco di gastronomia vedo una finta pergamena su cui è vergata una preghiera a Padre Bacco. È una specie di salmo pagano al vino che fa: “Padre Bacco che sei in cantina, sia sempre lodata la tua medicina…”. Mi incuriosiscono queste forme di comunicazione che spiccano negli esercizi commerciali, ornamenti che spesso non gareggiano nel cercare l’amicizia del cliente, ma tendono ad affermare piuttosto il carattere del bottegaio, il suo credo. Come quello che vedo un minuto più tardi, accanto a un banco di macelleria, dove campeggia il poster di Totti fatalmente sovrastato dalla scritta Carne equina. Se mi mettessi a elencare tutte le coincidenze subliminali, tutti i doppi sensi che mi sembra di scorgere ovunque, se anche il mondo ne fosse ossessionato almeno quanto ne sono ossessionato io, finirebbe la civiltà moderna. O forse la civiltà moderna è già finita. O perlomeno, nei mercati rionali che ogni volta mi prendo la briga di visitare, non è mai iniziata. Perché il funzionamento di un mercato rionale è dettato da relazioni antiche quanto l’uomo. Ora, per esempio, mi cade l’occhio sulla locandina che sponsorizza la gara canora A squarciagola, e nel mentre il macellaio dà dei colpi con la mandossa su un povero pezzo di bestia pennuta, con una forza tale da squarciarle, giustappunto, la gola.

 

Esco dal mercato e mi avvio verso Piazza di Santa Maria Liberatrice. La piazza è affollatissima, davanti al Teatro Vittoria c’è una scolaresca in attesa della matinée. Da queste parti è nata Gabriella Ferri. Mentre cerco il palazzo, mi affiora un ricordo della mia infanzia, mio padre che suonava la chitarra e cantava: “Anche tu così presente / così solo nella mia mente / tu che sempre mi amerai”, la faccia di lui affondata in una piega trasognata, le sue spalle curve, gli occhi chiusi. Sono gli stessi versi che trovo incisi poco più in là, sulla targa al piano rialzato di un palazzo dell’Ottocento, sotto all’intestazione: “Qui è nata Gabriella Ferri, grande interprete della canzone italiana”. Così vado avanti ancora per un attimo a riflettere su quella cosa che diceva Thoreau: “Il tempo è soltanto il fiume dove vado pescando”.

 

 

Attraverso lentamente la piazza, passando per i giardinetti. Mi siedo su una panchina a contemplare le insegne dei negozi. Qui il commercio sembra essersi fermato a un’altra epoca, resistono ancora botteghe di mestieri come il tappezziere, l’ombrellaio, il materassaio. C’è un traffico di solitari con amori nella testa, studentesse con gli occhi pesti di sonno e anziane con le buste cariche della spesa, facce appiccicate a una finestra, uomini con le mani nei cappotti che, con il loro camminare errante, contribuiscono alla modificazione ininterrotta del transito della piazza, madri che oggi non hanno portato i figli a scuola e hanno concesso loro un giro in altalena, la vita secolare di questa città cattolica e reazionaria, che traveste l’indolenza con l’arte del sacrificio personale, addormentata dalla peggiore delle droghe di massa: la quotidianità.

 

Dalla piazza esco su via Mastro Giorgio. È la via in cui Elsa Morante colloca la casa di Ida e Useppe ne La storia: “Ida e Useppe” – scrive la Morante – “andarono a vivere così nel quartiere di Testaccio, in via Mastro Giorgio, presso una famiglia di origine ciociara di nome Marrocco. Oltre a Filomena, sarta, e a suo marito Tommaso, portantino presso gli ospedali, vivevano in quella casa, composta da due sole stanze e un ampio ingresso, anche il padre anziano e malandato di Filomena e la nuora Annita, mentre il loro unico figlio, Giovannino, era sul fronte russo. In attesa che il ragazzo tornasse dalla guerra i Marrocco, per poche lire, avevano deciso di affittare la sua stanzetta a patto che tutto restasse com’era”. Tempo fa, una sera piovosa Al Biondo Tevere sull’Ostiense – il ristorante dove Elsa Morante veniva a scrivere e dove Visconti girò delle scene di Bellissima – parlavo con un amico; parlavamo di Pasolini, e si diceva che a Roma non c’è più un posto di cui non si dica: “Qui ci veniva Pasolini”, e poi si diceva che a Roma non c’è più un posto di cui, dopo aver detto “Qui ci veniva Pasolini”, non si aggiunga: “… e la Morante”, al punto che a Roma non si capisce più dove effettivamente bazzicassero Pasolini e la Morante.

 

 

 

Con questo dubbio nella testa raggiungo piazza Testaccio, l’antico cuore del quartiere. È un immenso slargo che mi ricorda una grande casa svuotata e messa in vendita in cui non hanno fatto in tempo a dissolversi le voci familiari di generazioni, e dove tra poco regnerà la pace e le vecchie cose terminate per sempre. C’è un giovane sui vent’anni che si difende dal vento gelido con una coperta lercia, porta al guinzaglio un cane dal pelo ispido e chiede qualche spicciolo a un pensionato. È l’immagine tetra di un tempo storico invertito, dove è Anchise a portare Enea sulle spalle per fuggire dalla città in fiamme.

 

Mi sposto verso il centro della piazza, nel punto in cui da poco è stata ricollocata la fontana delle Anfore. Sento una voce che mi chiama per nome, mi volto e vedo il viso di una donna con cui ho lavorato in ufficio qualche anno fa. Lì per lì quasi non la riconosco, per via della sua nuova tinta di capelli biondo platino. Ci salutiamo e ci raccontiamo in poche parole i nostri ultimi anni di vita. Le chiedo notizie dei suoi bambini. Mi parla genericamente di gioie e di problemi. In conversazioni come la nostra, tutto viene ammantato sotto una cappa di indeterminatezza, ogni felicità diventa sterile, e la tristezza non trova conforto.

 

Fontana delle Anfore

 

A via Alessandro Volta mi fermo a contemplare la facciata di una scuola degli anni Venti. Sono ancora visibili le antiche incisioni che indicano la sezione femminile e la sezione maschile. In questa strada, quasi vent’anni fa, trascorsi interi pomeriggi, seduto sul marciapiede, a leggere i classici americani pubblicati dalla Newton nella collana a 3900 lire, mentre aspettavo che la mia ragazza di allora terminasse le sue lezioni di AutoCAD. Ce li ho ancora i classici della Newton a 3900 lire, e giusto qualche giorno fa mi è tornata tra le mani la copia de La città e la metropoli di Kerouac, che attacca con un’apertura che sembra una lenta carrellata americana alla John Ford: “La città è Galloway. Il fiume Merrimac, largo e placido, scorre giù dalle colline del New Hampshire, verso Galloway, per incresparsi alla cascata dove si spezzetta in schiuma contro la roccia…”. Lo lessi in quegli anni lì, ma incappai in un imprevisto insopportabile. A causa d’un errore nella stampa del volume, alla pagina 160 non seguiva la pagina 161, bensì la 337. Ero allora uno studente di lettere affamato di libri e senza un soldo in tasca, per cui non mi sfiorò neppure l’idea di comprare un’altra copia del libro, seppure all’abbordabile prezzo di 3900 lire, solo per vedere cosa diavolo succedeva in quelle centosettantasei pagine mancanti. Perciò non mi restava che un’unica soluzione: proseguire da me e immaginare una trama che raccordasse al meglio le due parti del romanzo. Una cosa complicatissima e disonesta che però mi chiarì un concetto: reinventare una storia certe volte è un atto di sopravvivenza niente affatto disprezzabile.

 

 

E visto che Testaccio mi ha messo in moto questo ragionamento sulla sopravvivenza e sugli scrittori beat, mi si accende una specie di idea meravigliosa nella testa: cosa c’è di più sopravvivente della poesia? E quindi penso che potrei visitare la tomba di Gregory Corso nel cimitero acattolico alla Piramide, penso a Bomba la sua poesia più famosa, esempio moderno di carme figurato a forma di fungo atomico, che a casa mia da anni penso di mettere sotto vetro in un’incorniciatura, cosa alla quale invero non ho ancora provveduto:

Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba

Giocattolo dell'universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti

Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino

La mazza nodosa di Un Milione di A. C. la clava il flagello l’ascia

Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone

Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart

E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda

[…]

 

Ma quando arrivo in prossimità del cimitero, ossia ai giardinetti di viale del Campo Boario, succede una cosa, e all’improvviso mi sembra che visitare la tomba di Gregory Corso non sia più tanto importante. Perché ai giardinetti di viale del Campo Boario c’è un monumento in ricordo dei soldati inglesi caduti per la difesa di Roma nel settembre del ‘43. Il monumento consiste in una colonna scanalata, di una tonalità bianchiccia e innaturale, forgiata senza grande ispirazione. Sulla base che sorregge la colonna c’è una bottiglia di Peroni vuota. A terra, accanto al monumento, altre sei bottiglie. Tutte rovesciate. Ma è la bottiglia in piedi, quella accanto alla colonna, che mi attrae. Con quel vetro brunito, l’aspetto grossolano, beffardo, che deride la mania degli uomini di erigere monumenti sgraziati e tetri, che nessuno si ferma mai a guardare. E penso che i monumenti in memoria sono fatti apposta per non serbare memoria. Invece, quella bottiglia di Peroni vuota mi fermo a guardarla. È un monumento agli sbronzi d’ogni tempo, ai disperati, agli indolenti, agli stronzi, agli scioperati, ai morti di fame, ai cornuti, agli sfaticati. È un monumento ai caduti che non hanno smesso di aver voglia di cadere.

 

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