Albe: Paradiso Borromini

8 Luglio 2022

Arriva finalmente a conclusione, dopo una forzata pausa causa Covid, la Divina Commedia del Teatro delle Albe, ideata da Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Come per Inferno del 2017 e Purgatorio del 2019, realizzati per Ravenna Festival anche in quest’ultimo atto (Purgatorio anche con Matera capitale europea della cultura), si parte dalla tomba di Dante, dietro la chiesa di San Francesco. Aprono il viaggio fuori dalla paura, verso la purificazione e la conoscenza, le parole finali della prima terzina del Proemio: …vita… oscura… smarrita. 

In questa terza cantica si salirà per i cieli e ancora – secondo l’idea del Teatro delle Albe che la scena vive nella città, in relazione con la collettività – attori e spettatori saranno accompagnati da un coro di cittadini, diverso ogni sera. Con spighe di grano in mano irrompono con le voci davanti alla tomba di Dante, che Martinelli e Montanari aprono, per legarci al grande poeta che ha costruito tassello per tassello, attraverso ostacoli, paure, tentennamenti e scontri, un cammino verso il trasumanar. 

Il verbo, è noto, è usato anche da Pasolini, cui è dedicata questa edizione del festival ravennate. Ma tutto il Paradiso che vedremo è un viaggio verso l’estasi, verso l’uscita da sé, dalla compassatezza, dall’abitudine; un’estasi poco new age e molto ‘sociale’, fatta di indignazione politica e umana, di necessità di superare la condizione quotidiana di pigrizia, di soggezione, di mancanza di capacità di volare.

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Il desire, il desiderio, spinge Dante fino a visioni che la memoria non può contenere, e qui si aggiunge ancora un mattoncino: la memoria, necessaria, fondamentale, per vivere e sopravvivere, in certe condizioni va dimenticata, superata, trasumanata, guardando l’oltre.

Ripete il coro dei cittadini frasi lanciate da Martinelli, avvolgendo gli spettatori nel suono, nell’empatia, nell’essere insieme che sostiene l’avventura di conoscenza di uno, di quell’Io che è Dante distribuito tra tutti noi – everyman come diceva il poeta Ezra Pound, ciascuno. 

Parte il corteo al suono di trombone, verso il Paradiso. È un percorso nel centro di Ravenna, con balconi che fanno pendere “picciolette barche” di carta e un adolescente che da palazzo Malagola, sede del centro per le ricerche sulla voce, introduce il secondo canto della cantica. Intanto un canto di lontananze di Mirella Mastronardi appare da un altro poggiolo e ci accompagna, con le sue risonanze profonde, a lungo, insinuandosi nel corteo, rimbalzando sulla strada e tra i palazzi, vibrando dentro.

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Nel Paradiso si entra dopo essere stati segnati con tre cerchi: è il giardino della Loggetta Lombardesca, dietro il Mar, il Museo di Ravenna. Gruppo di cittadini schierati in bianco come cori; donne che cuciono (i nostri destini? le nostre mancanze? le nostre visioni?); bambini che girano felici in bicicletta o che irrompono con le loro vocine a spiegare “cos’è il paradiso”, tutti di bianco vestiti. Si domandano, con versi di Emily Dickinson, se zappano, se portano scarpe nell’Eden, se non c’è nessuno che sgrida. 

Le apparizioni sono moltissime, distribuite tra il grande pratone e i due piani della Loggetta. Là, nel piano terreno, annebbiati da un velo i musicisti suonano rapinose musiche di Luigi Ceccarelli, con interventi elettronici. Al piano superiore appariranno alcuni beati dei diversi cieli, bianchi, ingessati in statue simili a quelle delle estasi di Gianlorenzo Bernini. Un’idea di bene accreditato per sempre, distante, in fondo museale?

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Nel prato viceversa la carne dirà la felicità di essere, di esserci, in scene di ballo come il girare in tondo come i sufi lanciato da Ermanna, e poi il cerchio dei fraticelli di Francesco, veri giullari di Dio, dionisiaci protagonisti della felicità di uno spirito che si sposa con la povertà, con l’essenzialità gioiosa e saporita della vita, con l’ebbrezza della danza.

Sono monumentalizzati sulla balconata del museo i beati, Piccarda Donati, Giustiniano, che pronuncia le parole di papa Francesco contro l’ingiustizia, per la solidarietà, la lotta alla povertà, la pace (il Paradiso bisogna farlo oggi). Prima e durante le loro apparizioni Dante è ancora pieno di dubbi. Come un bambino che deve imparare, mai soddisfatto dalle risposte, con la paura di fare continuamente passi falsi. E domande sulla vita oltre la vita fanno le persone del coro, in un questionare che non dà nulla per scontato. 

Appaiono altri cerchi di beati (il cerchio è la figura geometrica fondamentale della cantica), sempre danzanti, bella realizzazione dei cori dei beati, cui le Albe tolgono la fissità da santino e donano una reale spinta a superare i limiti dell’umano, restando completamente esseri impegnati in questa terra.

Le musiche si assottigliano in soffio o crescono in clamore. Appare l’antenato di Dante, Cacciaguida il crociato, un uomo piegato dagli scontri, con la voce esile (il meraviglioso, intimo Luigi Dadina) ad annunciare le sofferenze dell’esilio del discendente, il sapere come sa di sale il pane altrui. Viene circondato da giovani indiavolati con mitra, che presto sono ricacciati in quella cantina degli incubi da cui sono usciti per strade misteriose, purtroppo sempre aperte.

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Sfilano Cunizza da Romano, san Tommaso, che introduce i dionisiaci zompanti come lingue di falò fraticelli francescani, san Pier Damiani, san Pietro. 

Ancora lampeggia la delicatezza profonda di Emily Dickinson, detta da Ermanna: “Io abito la Possibilità. / Una casa più bella della prosa, / con molte più finestre, / superiore, quanto a porte…”.

Di suoni tutto è avvolto: voci, soffi, sospiri, assoli di strumenti e insiemi, variazioni e elettroniche, un mondo intero. Si vorrebbe che come i suoni e le apparizioni anche questa cronaca desse l’idea di una molteplicità unica, di un distendersi in episodi di un tempo compresente, o meglio forse di un ‘non tempo’ della visione, fatto di angoli, anfratti, spiazzi, vie dritte e tortuose, fonti, cieli, caverne, tutti come un unico respiro nella memoria.

In questa aiuola sporcata dalla guerra che è la Terra sta il Paradiso. L’allegrezza. L’umanità e la giustizia che redimono perfino l’assenza di fede. Fino ai misteri della Trinità, a quello che è enigma e che dà le vertigini, mettendo in moto l’intelletto e il sentimento umani.

“Come un grano di senape / la fede / sposta il monte nel mare! / Chissà cosa farebbe / se fosse una zucca!”.

Canta, profonda, Mirella Mastronardi, per la terza volta, mentre inizia a scendere il buio e ad avvolgerci, e dietro le statue risplende un muro di tessere musive d’oro.

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Marco avanza, nell’oscurità incipiente, e inizia uno strano discorso su Gian Lorenzo Bernini e la sua prospettiva frontale, contro le bizzarrie di architetti che costringono, con i loro torcigliamenti, a guardare sempre altrove, e in alto… In una chiesa, per esempio San Carlino alle Quattro Fontane a Roma, “anzi, peggio, ti conviene stendere il mantello al centro del pavimento e sdraiarti per terra… è l’unico modo per guardarla comodamente…”.

Bernini non lo nomina, ma l’oggetto della sua polemica è Francesco Borromini, suo contemporaneo e rivale, un architetto che apriva gli occhi alla trascendenza per vertigine delle forme e delle prospettive, rifuggenti da quelle regolari, ortogonali. Variazione e moltiplicazione dei punti di vista contro l’ingessatura delle statue del Museo. Fuga infinita come itinerario della mente in Dio. Come Altrove, ascesi, estasi. 

Qui arriva il momento finale. Sei grandi teli circolari vengono stesi per terra e Marco invita gli spettatori a sdraiarvisi sopra, a concludere lo spettacolo sentendo l’ultimo canto, il trentatreesimo, aperto dalla preghiera alla Vergine, sdraiati, guardando l’infinito, le stelle, il cielo.

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Chi scrive è rimasto seduto: stelle ce n’erano poche (per l’inquinamento luminoso in città), ma appena sospesa sul tetto della Loggetta si stagliava nel cielo una falce di luna commovente. Chi guardava il cielo e chi, più in basso, il nostro pallido romantico pianeta, veniva trasportato nell’ultimo viaggio dalla voce di Ermanna Montanari. Impastata di armonici arcaici, di profondità, si sublimava in un concertato di suoni con grane quasi bambine, come dovevano essere all’origine le voci del mondo. Poco in certi punti lasciava concentrare sulle parole. Il senso si smarriva a favore della musica, monodica polifonia, un altro girare in tondo e sfondare prospettive verso la vertigine (e l’ordinato caos) alla Borromini. Quel ritmo, quella cantilena, quel canto parlato faceva il vuoto e portava in alto, da qualche parte, lasciando presenti tutti gli altri e le altre intorno, i corpi stesi sui tondi in terra come pulviscolo di stelle in cieli astronomici o di figure immaginarie in cieli astrologici. Era un vibrare “con”, sentendo “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, l’ultimo verso, il fiato di scioglimento dall’incanto. Del viaggio.

Il cast, monumentale, si avvaleva dei begli interventi scenici di allieve e allievi dell’Accademia di Brera coordinati da Edoardo Sanchi, con i costumi di allieve di Brera coordinate da Paola Giorgi; luci e ombre erano creati, magmaticamente, da Fabio Sajiz; le musiche, trasumananti, erano di Luigi Ceccarelli, e Marco Olivieri era il sound designer. Qui leggete la locandina.

Le fotografie sono di Silvia Lelli

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