Aldo Moro, la storia, il teatro

26 Aprile 2012

In Aldo morto / Tragedia di Daniele Timpano la vera imputata è la storia, anzi la nostra incapacità, impossibilità di raccontare, di dipanare la storia. L’attore romano deve essere partito dalla domanda: il teatro, l’arte, può interpretare i tempi che abbiamo vissuto? E la risposta, al contrario di tutto il teatro politico e di narrazione, che ci spiega ogni cosa, è: decisamente no.

Sembra dirci: io, sul palcoscenico, posso solo mostrare il mio punto di vista; io, nel 1978, quando Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dopo quasi due mesi di prigionia, avevo quattro anni. Se qualcuno gli obiettasse che noi comunque discutiamo di fatti di epoche in cui non eravamo nati, la risposta, con un sorrisetto impacciato, sarebbe: già, ma quale verità c’è nei nostri discorsi?

 

 

Il bellissimo, dolorosissimo spettacolo che ha presentato in prima nazionale al teatro Palladium di Roma, dopo molte anteprime in giro per l’Italia, apre più di una questione e lascia molti spettatori dubbiosi. Perché Timpano sembra essersi assunto il compito di fare una controversa antistoria d’Italia attraverso alcuni cadaveri eccellenti. In Dux in scatola ha narrato il fascismo storico e quello postbellico attraverso le vicende della scomparsa della salma di Mussolini (ma ha raccontato, così, anche la nostra Italia democratica e antifascista). In Risorgimento pop, intorno alla mummia di Mazzini ha ripercorso non tanto l’epopea dell’Unità quanto i buchi di un Paese mai veramente compiuto, e tutta le retorica che esso sa ritrovare intorno agli anniversari.

In Aldo Morto si identifica, anche fisicamente, in Moro, si trasforma in un suo figlio che si chiama Daniele, ripercorre le vicende di quei giorni, di quegli anni di lotte e contrasti, come se fossero puntate dell’infinito talk show nazionale, del continuo spettacolo televisivo zeppo di pubblicità che siamo capaci di allestire su morti, conflitti, idee, con evidenti sconfinamenti nella truculenza da tifo calcistico che ricorda il nostro scarso distacco dalle radici di clan, campanile, fazione.

 

 

Interpreta, con la sua aria dinoccolata apparentemente ingenua e inetta, pasticciona, l’uomo politico democristiano, e ne nota una somiglianza con un eroe dei fumetti come Nathan Never, con quella pinna bianca nei capelli. Evoca, con toni beffardi, brigatiste che hanno fatto libri più o meno di successo del loro pentimento e altri non pentiti che si sono spostati “sul sociale”; brutti film e attori vati da strapazzo. Irrompe sulle note di “Viva la pappa col pomodoro” e con la maschera di Goldrake, evoca slogan e canzoncine sanguinarie che si cantavano nei cortei in quegli anni promettendo di spaccare teste a poliziotti e via dicendo. Non mancano gli inviati sul luogo della strage di via Fani, grotteschi, cinici, di fronte alla “marmellata di sangue” che imbratta l’asfalto. E neppure i riferimenti al fatto che, con cinque processi, non sia accertata una verità credibile.

 

 

Lo spettacolo corre con toni da cabaret impietoso, tra Renato Curcio e Ramazzotti. Ma ha qualcosa in più, che ne fa un lavoro unico, da vedere, rivedere, ripensare. Vi si coglie il senso di impotenza generazionale di chi percepisce che la storia è impossibile farla: che rimangono gli eventi, le ferite, il sangue, le divisioni, le conseguenze, e mai un’interpretazione appena coerente. Dappertutto? Sicuramente in questa bella Italia di menzogne. Allora non resta che rifugiarsi negli umori, nell’indignazione, nello sberleffo, nella pietas, nell’orrore inconsolabile per la morte. Nel teatro, come veicolo di emozioni personali, come lingua dello smarrimento, come ricerca di (insidiata) presenza.

 

 

Da questa storia di misteri e ipocrisie spicca la figura tragica di Moro, un provinciale tecnocrate che porta le mozzarelle del paese ai figli e parla con un linguaggio forbito e arzigogolato d’altri tempi. Spiccano il dolore umano e la ripugnanza per anni che invocavano la violenza come palingenesi, come se il sangue versato non fosse sangue vero. Timpano guarda con piglio da moralista la capacità di ridurre tutto a spettacolo degli italiani e di lucrarvi sopra. Ma soprattutto si fa e ci fa domande sgradevoli: sì, la violenza è orribile, la mistica della violenza era a volte pagliaccesca tra le sigle rivoluzionarie anni settanta, ma oggi la violenza mi cresce intorno e la rabbia mi monta dentro ogni momento, con il precariato, con i politici di fumo o peggio… verrebbe da prendere la P38… dice; e poi, in anticlimax: ma io non lo farei…

 

La verità rimane nebbia, in quel teatrino di guitti che è l’Italia, dove forse non si può far altro che accumulare visioni e contraddizioni. Timpano lo fa a meraviglia, cosciente, con sorriso dolce e insinuante, che “il teatro non è un pranzo di gala”, e che tra servizi, P2, 3 e 4, P38, marketing e spettacolo, “questo stato, il mio stato, fa schifo”. Per esorcizzare la ferocia della fine, irrimediabile, non resta che rifugiarsi nel gioco, con quel modellino di R4 rossa targata Roma dove fu trovato il cadavere di Moro, mentre scorre la telefonata di Morucci. L’attore si trasforma nell’uomo politico sequestrato sotto una stella a cinque punte fosforescente nel buio, identificandosi in un’icona di un Paese che non sa guardare dietro le proprie immagini, dietro le proprie tragedie.

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