Speciale

Centenario / Alpinismo

9 Marzo 2019

Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.

 

Nel lager di Auschwitz a Primo Levi viene marchiato sul braccio il numero 174157. Trascorrerà un anno e mezzo in quel luogo pieno di freddo, fame, dolore e umiliazioni. Il mondo degli affetti, della cultura e dei monti diviene un rifugio dell’anima: un giorno prova a tradurre in francese la Divina Commedia al suo compagno di prigionia Pikolo: “…quando mi apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto che mai veduta ne avevo alcuna” e lo coglie un forte moto di commossa nostalgia: “E le montagne, quando si vedono di lontano … le montagne … oh Pikolo, Pikolo, dì qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel buio della sera…” (da Se questo è un uomo).

  

La libertà e gli ampi orizzonti delle montagne sono per lui una passione sin da ragazzo.  Le sue prime cime, a due o tre ore di bicicletta da Torino, sono i Picchi del Pagliaio con il Torrione Wolkmann, i Denti di Cumiana, Roca Patanüa (Roccia Nuda), il Plô, lo Sbarüa (oggi la Sbarüa). Anni dopo, ne Il sistema periodico, nel racconto Potassio, scriverà: “… le montagne attorno a Torino, visibili nei giorni chiari, e a portata di bicicletta, erano nostre, non sostituibili, e ci avevano insegnato la fatica, la sopportazione, ed una certa saggezza”. 

 

Il lago bianco, Alta valle di Champorcher.


Negli anni che seguono l’approvazione delle leggi razziali e l’inizio del conflitto mondiale, l’Italia è un Paese dominato dall’incertezza e dalla paura del futuro, “il cielo sopra di noi era silenzioso e vuoto”. Primo Levi e i suoi amici hanno come tanti altri un’idea romantica della montagna e dell’alpinismo, e il contesto drammatico in cui vivevano li spinge ancor più a cercare la fuga e la messa alla prova sulle vette. 

A condurlo verso le montagne è anche il desiderio di fuga da un’Italia oppressa dall’ideologia pervasiva e irrazionale del fascismo ma anche di affermazione del proprio io in anni in cui il solo appartenere alla razza ebraica era “a prescindere” un connotato d’inferiorità: “Tu fascista mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, unterer, ebbene io ti dimostro che non è così” (da Ferro in Il sistema periodico). La montagna per lui è libertà, è ricerca di suggestioni inedite e impossibili in una città, Torino, che gli appare opprimente e rassegnata.                                                                

Alla fine degli anni ’30 Primo Levi è un ragazzo minuto ma pieno di energia. I libri di Verne, Stevenson e Conrad lo spingono verso l’avventura, quelli di Lammer, Whymper e Mummery verso vette lontane. Chi vive a Torino del resto le vede, quando il tempo lo permette, sul filo dell’orizzonte, belle e raggiungibili. 

Il racconto di montagna più noto di Primo Levi è Ferro, si tratta di uno dei ventuno racconti di Il sistema periodico, pubblicato nel 1975. Tutti hanno per titolo il nome di un elemento chimico, ciascuno dei quali è pretesto per scandagliare i meandri della memoria e della ragione. 

 

Primo Levi al Colle Belledonne, Alpi francesi, 24 settembre 1984. Ph Alberto Papuzzi.


Il racconto riprende con grande abilità un testo pubblicato nel 1961 sulla rivista Il Mondo, La carne dell’orso. Mentre in quest’ultimo Levi non era riuscito ad amalgamare riflessioni e vicenda narrata, con i protagonisti che risultavano appena tratteggiati, in Ferro c’è la storia vera e coinvolgente di Sandro Delmastro, amico e compagno di cordata

Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. (…) Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portina del bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove. “ 

Il bivacco Martinotti si trova nei pressi del ghiacciaio del Money in Valnontey, presso Cogne, uno degli ambienti alpini più cari a Primo Levi. Per chi ama i suoi libri, salire lassù è un buon modo per ritrovare qualcosa del loro autore.

 

Primo Levi al Colle della Tournette, 31 luglio 1983, Ph Alberto Papuzzi.


Uno dei più bei ricordi delle avventure con Sandro, riportato nella parte finale del racconto Ferro, era stato un bivacco ad alta quota, in pieno inverno, con i piedi negli zaini per salvarli dal congelamento.  

Come faremo a scendere?” aveva chiesto Primo all’amico quando la notte stava salendo veloce e inesorabile dal fondo della valle.  “Per scendere vedremo”, gli aveva risposto Sandro, aggiungendo con un sorriso che al più avrebbero “mangiato la carne dell’orso”, un modo di dire che alludeva a un bivacco imprevisto, in quota nella notte. 

Alla fine del racconto Ferro Primo Levi scrive: “Ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.

Proprio questo finale è ripreso dal precedente scritto del 1961: Levi, consapevole della modesta tenuta del testo originario, ne aveva estrapolato la parte migliore, l’aneddoto della carne dell’orso, fondendolo mirabilmente con la storia vera di Sandro Delmastro, in un racconto che diviene emblema di valori etici universali. 

 

Primo Levi al Rifugio Sella in Valnontey, Cogne, aprile 1940. Centro Primo Levi.


Sandro Delmastro fu ucciso nell’aprile del 1944, faceva parte del Comando militare piemontese di Giustizia e Libertà ed era stato fatto prigioniero; tentò di fuggire calandosi dalla Casa Littoria di Cuneo ma una scarica di mitra alle spalle lo abbatté nel viale sottostante. Il suo corpo fu lasciato a lungo in strada, come monito. Ne fu testimone Anna Delfino, futura moglie di Nuto Revelli. Legato a Delmastro dalla comune militanza nelle fila di Giustizia e Libertà, Revelli lo ricorderà ne La guerra dei poveri.

La fine della libertà, per Primo Levi, avviene proprio in montagna, quasi una beffa del destino. Dopo l’8 settembre del 1943 c’erano stati l’armistizio, la fuga del re da Roma, lo sbandamento dell’esercito e l’invasione delle truppe tedesche. Primo Levi decide di andare in montagna con i suoi amici, per combattere con i partigiani di Giustizia e Libertà. Si uniscono a un gruppo che agisce nelle montagne tra Saint Vincent e Brusson.  Sono consapevoli di essere dei ribelli inesperti, privi di abilità militari, con poche armi e pochissime munizioni, ma nei primi di dicembre di quell’anno si sentono liberi nel loro rifugio tra i monti, immerso in un paesaggio innevato. Invece qualcuno li tradisce, e il 13 dicembre del 1943, trecento soldati della Milizia fascista accerchiano il loro rifugio. Otto riescono a fuggire, ma Levi e altri due compagni sono catturati.

Il 26 gennaio del 1944 è inviato con altri nel campo di concentramento di Fossoli, e da lì, un mese dopo, ad Auschwitz.

 

Primo Levi, ph Giovanna Borgese.


Dopo la guerra, nei tempi concessi dal lavoro, Levi proverà più volte a riassaggiare “la carne dell’orso”. Salì infatti la Testa Grigia, sopra Gressoney, poi nel 1964 il Monte Rosa e infine, nel 1983, il Pian della Tornetta, presso Cogne.

Negli anni Ottanta, insieme ad Alberto Papuzzi, era tornato anche nella valle di Champorcher, a rivedere il lago Bianco, che gli evocava i racconti di Jack London, e la lontana Rosa dei Banchi, che secondo Levi era la montagna ideale, per la perfezione della sua piramide.

Un tempo andavo spesso in montagna, specialmente da solo. Quando ero giunto in cima, mi coricavo sotto il sole nell'aria ferma e silenziosa, e mi pareva di aver raggiunto uno scopo. In quei momenti, e solo se vi ponevo mente, percepivo questo leggero odore, che è raro sentire altrove. Per quanto mi riguarda, lo dovrei chiamare l'odore della pace raggiunta” (da “I mnemagoghi”, in Storie naturali).

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