Antonio Latella: Wonder Woman

19 Gennaio 2024

Non ci basta l’indignazione. L’abbiamo ripetuto molte volte. Il teatro deve darci qualcosa di più, un senso non una tautologia, deve fornirci un affondo, non una riproduzione dell’attualità, non cronache, siano pure di guerra, di miseria, di sopraffazione, di sfruttamento. Deve squarciare, deve arrivare agli organi interni, ai muscoli, ai nervi, alle ossa, e ricomporre; ricomporre e scorticare, scomporre e ricostruire. Deve aprirci la strada per qualche altrove, che metta in questione la nostra vita, il nostro orrore quotidiano, dalle radici.

Non basta l’indignazione in Wonder Woman di Antonio Latella e Federico Bellini, regista e drammaturgo. Certo, si racconta uno stupro, ma si va oltre. Non è sufficiente il simbolo delle scarpe rosse, che le quattro interpreti, vestite di nero, indossano, occupando lo spazio vuoto, introdotte da un romantico suono di pianoforte, a contrasto col tema dello spettacolo, con la violenza di quello che sentiremo. Qui non si raccontano solo i dettagli della vicenda: si scompone il “discorso” che il fatto ha generato, la sentenza di assoluzione degli stupratori, la serata terribile vissuta dalla vittima, i suoi sentimenti, la reazione dei genitori, la violenza dell’interrogatorio della polizia. Violenza su violenza. 

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Le quattro donne invadono il palco nudo del teatro Astra di Torino. Si schierano e iniziano con impeto, che si colora di indignazione, di delicatezza, di ricerca di verità, un lungo monologo a più voci. Le parole dei protagonisti, i diversi momenti di un “discorso” complesso, difficile perfino da sopportare, sono spezzate in quattro voci che si susseguono senza respiro; i diversi momenti del fatto, di come è stato vissuto o letto o narrato, diventa un coro che spezza l’assurdità e il dolore in singoli interventi, incalzanti, guerrieri, come di amazzoni in cerca di verità. Sono disposte in riga, frontali, Maria Chiara Arrighini, Beatrice Verzotti, Chiara Ferrara, Giulia Heathfield Di Renzi. La più vecchia di loro ha 25 anni; provengono da scuole di teatro ma hanno una capacità di arrivare dritte allo spettatore da attrici insieme fresche e di enorme spessore. Dosano i singoli interventi e le parti d’insieme come se fosse un unico flusso, un concertato dell’orrore e della voglia di reagire che rapisce e implica lo spettatore. Senza nessun orpello teatrale. Senza finzione bruciano parole cariche dell’ideologia spietata dei giudicanti.

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Wonder Woman non nasce sull’onda dell’attualità e dell’indignazione per l’assassinio di Giulia Cecchettin. Lo spettacolo fu composto da Latella, con la drammaturgia di Federico Bellini, tre anni fa in Germania ed ebbe subito grande successo. Questa incursione nel presente, in un tema d’interesse civile e sociale, è un’eccezione nella carriera di un regista che ha quasi sempre riletto, rovesciato, forzato, rimesso in vita i classici. È stata presentata per Teatro Piemonte Europa al teatro Astra di Torino (e per ora non avrà tournée), nella stagione intitolata dal direttore artistico Andrea De Rosa Cecità, dedicata a quello che non vogliamo vedere, a ciò che nasconde la verità.

La storia parte dall’assoluzione decretata dalla Corte di Assise di Ancona nel luglio del 2017 degli stupratori di una ragazza di origine peruviana. Le motivazioni del collegio giudicante, costituito da tre donne, è che la vittima non era attraente, tanto da essere memorizzata, nella rubrica di uno dei violentatori, come “Vichingo”. Quindi doveva aver compartecipato alla notte di sballo andata a finire oltre le intenzioni. (Per la cronaca: la Cassazione ha poi rovesciato questo giudizio di secondo grado, condannando gli autori della violenza sessuale).

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Lo spettacolo ripercorre la sentenza, sottolineando le assurdità con gli interventi corali, che rappresentano sottolineature, ingrandimenti, zoom su parole e intenzioni. Il testo scorre senza punteggiatura, con l’alternanza di brani in minuscolo e altri tutti in maiuscolo, con enumerazioni senza spazi, come fossero un’unica parola, un unico fiato che toglie il respiro, per esempio la scansione della successione delle birre bevute. Commenti fanno le ragazze, molto diverse fisicamente l’una dall’altra, con diversi gradi di un’energia comunque esplosiva: la prima è minuta, uno di quei fisici che sembrano nati per scagliarsi contro i mulini a vento; la seconda più corpulenta e solida, una roccia su cui appoggiarsi; spigolosa e carismatica è la terza, pronta allo scatto, alla sottolineatura; la quarta è rossa, come una delicata dama di campagna inglese, ma con gli artigli. Tutte intervengono con una partecipazione totale, come fossero un unico discorso indignato che rovista le cause, a disegnare oltre l’indignazione la condizione terribile di chi si trova a diventare da vittima accusata, quasi fosse lei la colpevole. Drogata? Dice, per una strana schiuma nella birra bevuta, ma subito arriva la voce dei giudicanti: “COME PUO’ AVER RICORDATO UN PARTICOLARE DEL GENERE?” se era fuori di sé?. 

Raccontano il dolore della penetrazione, perché la ragazza era vergine. Richiamano la voce della madre e il refrain: “SAREBBE OPPORTUNO APPROFONDIRE QUESTI ASPETTI…”. Riprendono la sentenza: lei che cavalcava l’imputato, lei sopra l’imputato, come dichiarato, e allora: “QUESTO CI FA DUBITARE DELL’USO DELLA FORZA”. Infine: si assolvano gli imputati, e il coro, implacabile: “CHI È COINVOLTO SIA ANCHE ASSOLTO” (“Anche se voi vi sentite assolti / siete per sempre coinvolti” cantava Fabrizio De André. E qui molte sono le citazioni, anche frasi del “buon senso comune”: la gente mormora, il paese è piccolo…).

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Ascoltiamo le parole degli stupratori, le risate, i commenti. Frastuoni. “Tutti dicono che l’ho voluto io” fa la voce della ragazza… Poi l’interrogatorio di polizia, terribile, a cercare pregiudizialmente la colpa della vittima, la “provocazione”, senza pietà per la sofferenza, per il dolore… La televisione in casa… La famiglia… Sono peruviani, tutti sanno ballare, lei no, è goffa, è mascolina… Avanti e indietro, come una pista registrata, come un mangiacassette di quelli di una volta. Avanti veloce… stop… indietro… Un vortice: il consumismo… la banalità dello spettacolo continuo… lo stordimento televisivo… le serate in provincia… “Non possiamo condannare oltre ogni ragionevole dubbio”. 

Avanzano di un passo, le donne, ora figure mitologiche vendicatrici, “Amazzoni”: prendono dei microfoni, quadrati, sparano agli spettatori i loro dubbi, le loro ferite, le loro verità, come un bombardamento, come un tentativo di trovare una via di fuga, un’isola dove la verità non sia negata. Come Wonder Woman, la creatura del fumetto DC Comics creata dallo psicologo William Moulton Marston, inventore anche della macchina della verità: una paladina della giustizia e, naturalmente, della verità. Una combattente.

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Il finale dello spettacolo, in un crescendo ritmico impressionate e trasportante, ci trascina nella necessità di verità, in gironi infernali che chiedono uno sguardo che torni a veder le stelle:

“WONDER MACHINE TRUTH MACHINE WONDER MACHINE / STOP! / Allacciatemi stringetemi collegatemi / Ora / Undicesimo cerchio / Undicesimo girone / Sono io il corpo del reato il luogo del delitto la scena dell’azione / Il poligrafo di carne / il misuratore di ritmo / cardiaco / la tacca della / pressione / Non ho aritmie blocchi emozioni / Non sputo più sudore il mio corpo non mente / Collegatemi pure non ho niente da temere sono io Wonder Woman / STOP! // Dodicesimo girone / Poche ore dopo lo stupro / Con il test di gravidanza il test sierologico il test per la sifilide il test per l’epatite B / Tredicesimo girone / Io Wonder Woman poche ore dopo lo stupro”. La scrittura fluisce per salti e associazioni, come le voci, in una vertigine di profondità estetica, capace di evocare strati di sensazioni, oltre ogni descrittivismo a una sola dimensione. 

Ritmo, ritmo, teatro, oratorio a quattro voci: “sono io il corpo del reato”, come un unico respiro che diventa alla fine danza. Sono una comunità, guerriera, le quattro donne. Danno alla vittima il nome di Nina, come la protagonista del Gabbiano di Čechov, emblema della gioventù offesa, tradita. 

Le quattro amazzoni si portano sul fondo della scena, dove dall’inizio vedevamo appoggiati in terra oggetti colorati. Indossano armature leggere, collane, decori afro di barbarica bellezza e forza: e iniziano una danza, scandita dalla colonna sonora singultante, parlante, evocante composta da Franco Visioli, su una base sacrale di organo. 

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“Siamo il grido di tutte quelle donne che non hanno voce”. Lanciano lontane le scarpe rosse: non basta il simbolo di protesta. Danzano come regine meravigliose e ferite, abbandonate e solenni, pericolose e dolcissime. Guerriere. Ripetono sequenze di gesti che ci trasportano dal presente all’arcaico e di nuovo al presente, nel bisogno di vite diverse, di spessori di pensiero differenti, utopici, meravigliosi, impastati del dolore. Esseri d’aria, donne di cabaret, ballerine, alzano il pugno chiuso, fanno il gesto del lazo che cattura, corrono, lottano, si mettono in posizione di difesa, di nuovo in riga, una danza arcaica, maestosa, rituale, una corsa, una fuga, un’avanzata possente. Slogan. Fumano, attraggono, respingono, sparano, volano, mentre il silenzio dilaga; si stringono le tempie, indicano, indicano noi, noi, come il finale della canzone cilena che impersonano, El violador en tu camino: 

L’assassino sei tu 
Lo stupratore sei tu 
Le guardie 
I giudici 
Lo Stato 
La Chiesa
E lo Stato oppressore 
è un macho stupratore 
E lo Stato oppressore 
L’assassino sei tu 
Lo stupratore sei tu 
Siamo il grido altissimo e feroce 
di tutte quelle donne che più non hanno voce 
L’assassino sei tu 
Lo stupratore sei tu.

Intanto siamo storditi e ammaliati. Nella denuncia, niente abbiamo ascoltato di risaputo. Perché questa non è cronaca: è taglio, incisione nella tela della realtà, che con potenza teatrale – dialettica, contradditoria, emozionale – entra nelle anime, nelle malattie dei discorsi, dei giudizi, delle mentalità. Nel modo di vedere le cose e il mondo e muoversi in essi.

In scena al teatro Astra fino al 21 gennaio

Le fotografie sono di Andrea Macchia.

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