Artpod / Barry X Ball, "Matthew Barney", 2000-2003
Fa una certa impressione vederla sospesa là, nella Collezione Maramotti, la testa di Matthew Barney segnata di rosso, come se fosse sanguinante, con due lunghe appendici come un collo svuotato della carne che lo lega al corpo. Una faccia immobilizzata nel freddo di una preziosa scultura, levitante al soffitto con un perno placcato in oro, il volto di un amico ritratto dallo scultore nel prezioso onice messicano, e trasformato in una specie di San Sebastiano trafitto al capo da un solo dardo. Il cranio è una calotta sovrapposta al volto, fissato in un’espressione intenta ma mobile allo stesso tempo. Sembra un reperto antropologico, una testa conservata da una tribù di imbalsamatori della parte più nobile dei nemici o dei parenti, antenati protettori. La mobilità dell’autore di Cremaster, viaggio nei miti della società americana, video magici di trasformazioni, è recuperata pienamente dal gioco di luci, che moltiplicano il riflesso della scultura su vari punti del pavimento.
Algido orrore autoptico e potenza di metamorfosi.
Questa scultura, frutto di uno sguardo ammirato alla cultura italiana classica, come le altre delle serie Ritratti e Capolavori, è un misto di artigianalità e di tecnologia: l’originale, scansionato in 3 D dalla persona o dal manufatto oppure duplicato immagazzinando dati da foto ad altissima definizione, viene poi riprodotto nel materiale scultoreo e quindi decorato a mano dall’artista californiano, figlio di un pastore evangelico, in cerca sempre dell’unicità dell’individuo e della sua moltiplicazione, clonazione, del suo svaporamento nelle moltitudini. Dell’amico Matthew Barney esistono altre erme, in dialogo con i volti e le nuche dell’autore stesso, in un altro gioco di specchi che moltiplica l’identità, la scava, la dissolve. Quelle teste mostrano l’intrico delle vene enfatizzate dal materiale, come nei corpi degli Scorticati della cappella di Raimondo di Sangro principe di Sansevero. Là il modello è decisamente tardo barocco e esoterico. Qui le forme richiamano piuttosto uno scabro rigore medievale o primo rinascimentale.
Ma il gioco con il volto e i lineamenti nell’opera di Barry X Ball non si ferma qui: del conte Panza di Varese, primo suo grande mecenate, riproduce in serie il volto, con espressioni lievemente diverse, in una moltiplicazione decisa della personalità che è liquefazione dell’unico e sottolineatura attraverso l’ipostatizzazione del materiale petroso della mobilità individuale, sempre con un sottofondo di fissità, di immobilità che apre le strade al vuoto.
È casuale, probabilmente, ma curioso che nello stesso periodo in cui Barry X Ball concepiva questi ritratti, tra anni novanta e duemila, abbia girato uno spettacolo teatrale del quebecchese Denis Marleau. Era una versione dei Ciechi di Maeterlink affidata a dodici maschere di volti umani, sei di uomo e sei di donna. Gli uomini erano riproduzioni di un solo volto e così le donne. Allo spettatore apparivano sospese nel buio, fisse, per poi prendere vita con le voci di due attori fuori scena: giochi di luce e proiezioni davano l’impressione che lentamente si trasformassero, muovessero qualche muscolo, parlassero, cercassero di squarciare le tenebre cui erano condannati. Fu presentato al festival di Avignone del 2002 e poi in Italia.
Come quello di Barry X Ball questo dispositivo sovrapponeva tecnologia (le maschere parlanti e mutanti) e artigianalità (il teatro). Lo diceva chiaramente il sottotitolo dello spettacolo, Fantasmagoria tecnologica, che cercava di forzare il teatro e le sue regole, sottraendo la presenza dell’attore per andare a scoprire forze sotterranee. Là, comunque, superato lo stupore dell’impatto con i visi che incombevano, alti su di noi, che sembravano scrutarci senza guardarci, o che sembravano vedere in un altrove oscuro, quello che emergeva era il testo, con il suo girare a vuoto intorno al dolore senza consolazione e speranza dell’esistenza. Nella scultura di Barry X Ball risalta l’immobilità dolente, ferita, scarnificata, neppure capace di urlare come invece il retro della testa bifronte dell’altra versione della scultura, quella di Barney a specchio con la testa dell’autore. L’immagine qui si perde, arcaica, nello sguardo verso la lontananza del niente, moltiplicata dall’alto verso il basso dalle luci, cielo di copia di stelle sul pavimento del museo, prezioso trofeo di qualche barbara principessa che, come Turandot, decapita gli incapaci di risolvere gli enigmi. Cioè: tutti noi.
Legge Ermanna Montanari del Teatro delle Albe.