Calvino, Levi e i buchi neri

27 Agosto 2015

Nell’aprile del 1975 la rivista «Le Scienze», edizione italiana di «Scientific American», pubblica la traduzione di un articolo sui buchi neri. Il titolo in originale è The Search for Black Holes e l’autore lo scienziato Kip S. Thorne. La rivista è molto seguita in quel periodo in Italia e tra i suoi lettori affezionati ci sono anche due scrittori assai noti: Italo Calvino e Primo Levi. L’autore di Le cosmicomiche ne parla nel mese di settembre sul «Corriere della Sera» nella sua rubrica «Osservatorio del signor Palomar», titolo: I buchi neri. Calvino nota che da alcune settimane tutti gli amici con cui il suo alter ego, il signor Palomar, parla, finiscono sempre per affrontare l’argomento dei buchi neri. Il pezzo è un efficace riassunto degli argomenti sviluppati da Thorne, che si alternano a riflessioni di tipo filosofico e antropologico sul posto dell’uomo nell’universo.

Il tema appassiona Calvino da decenni, almeno dagli anni Quaranta, e ha trovato spazio nella sua opera narrativa, in particolare in Le cosmicomiche. Il cambio di paradigma in corso, osserva lo scrittore, è il passaggio dall’esplosione all’implosione: dalle teorie dell’universo in espansione a quelle in cui invece l’universo appare in contrazione e in scomparsa dentro di sé. Calvino ha quasi certamente letto il libretto Teorie cosmologiche rivali, pubblicato da Einaudi nel 1965, dove l’argomento era presentato in un confronto tra scienziati.

 

Siamo nel pieno della crisi degli anni Settanta, in cui si dibatte convulsamente la società italiana, e il signor Palomar, personaggio protagonista del pezzo, osserva con puntiglio che ora a prendersi una rivincita sono le immagini del vuoto, che sostituiscono quelle del pieno, del buio che alimenta la luce e dell’assenza che determina la presenza. Un mese dopo Calvino torna sul medesimo argomento ampliando il discorso. Un maremoto nel Pacifico, altro «Osservatorio del signor Palomar», così s’intitola l’articolo, riprende il tema dei buchi neri insieme a altre questioni. L’occasione gli è offerta da una lettera che l’astronoma Margherita Hack ha scritto al «Corriere della Sera» per contestare le affermazioni scientifiche fatte dallo scrittore. Palomar-Calvino risponde chiosando a sua volta la lettera della Hack. Si rifà a un altro articolo di quattro anni prima, apparso sempre su «Le Scienze», di Roger Penrose, dedicato anche questo al tema dei buchi neri.

 

Nelle obiezioni dell’astronoma c’è un punto in particolare che ha colpito Calvino: l’accusa di essersi «fatto incantare dalle immagini». «Per uno che pensa per immagini», scrive Calvino prendendo la parola in prima persona bypassando il signor Palomar, «e che va continuamente in caccia di immagini al limite del pensabile, questo è un duro colpo: come incontrare un cartello di ‘caccia vietata’ in un bosco (la scienza) che per lui è una riserva di pregiata selvaggina». Aggiunge una considerazione di metodo: «il pensiero per immagini funziona secondo il meccanismo dell’analogia, riducibile a contrapposizioni molto semplici: il dentro e il fuori, il pieno e il vuoto, la luce e il buio, l’alto e il basso, e così via. E può accadere alle volte che queste strade incrocino quelle della scienza di oggi, o le accompagnino per un tratto».

 

Primo Levi ha letto il medesimo articolo di Kip S. Thorne e l’ha conservato, poiché sei anni dopo, nel 1981, lo utilizzerà per chiudere la sua antologia personale, La ricerca delle radici. Il tema dei buchi neri è centrale nel libro che raccoglie testi antologizzati da Levi; nel grafo che apre il volume ne è addirittura uno dei vertici. In quello superiore è posto Giobbe, in quello inferiore i buchi neri. Le quattro frecce, che sono i quattro meridiani del grafo, o quattro rotte, su cui sono imperniati i brani raccolti da Levi, convergono verso la scritta buchi neri, dalla «salvazione del riso» alla «salvazione del capire», passando attraverso «l’uomo soffre ingiustamente» e «statura dell’uomo».

 

Primo Levi studente

 

Nella prefazione al brano di Thorne, Levi spiega perché ha incluso questo testo di divulgazione scientifica nel libro. Leggendolo si capisce che interpreta il tema dei buchi neri in modo assai diverso da Calvino. Sono due paragrafi. Nel primo accenna alla grande rivoluzione culturale in corso per merito degli astrofisici, in cui appaiono nuovi mostri celesti di fronte a cui il profano non può che «reprimere brividi inediti, tacere e pensarci su». Conclude ricordando che le spedizioni interplanetarie degli ultimi anni hanno confermato che non esistono altre forme di vita simile alla nostra nel sistema solare. Questa conclusione introduce la frase con cui si apre il paragrafo seguente, lungo il doppio del primo: Siamo soli. Una frase icastica, che fa da titolo al testo di Thorne, e che risuona come una considerazione d’ordine non solo scientifico ma anche morale e psicologico.

 

Mentre sulla terra le cose si aggrovigliano, dice Levi, quelle del cielo sembrano inasprire la sfida: «il cielo non è semplice, ma neppure impermeabile alla nostra mente, e attende di essere decifrato» (p. 1524, vol. I). Alla constatazione di solitudine, fa seguito un’altra affermazione: la statura dell’uomo è anche la salvazione del capire («La miseria dell’uomo ha un’altra faccia, che è di nobiltà»). Nelle righe conclusive della presentazione, è compendiata la visione di Levi in quel preciso momento della sua vita. Siamo all’inizio degli anni Ottanta e Levi sta scrivendo i saggi che comporranno I sommersi e i salvati; ha anche intensificato la sua produzione poetica, di solito scarsa. Cosa sostiene? Che noi umani esistiamo per caso, ed è anche probabile che siamo la sola «isola d’intelligenza» nell’universo. Piccoli, deboli e soli, e tuttavia Thorne, aggiunge, dimostra una cosa straordinaria: «la mente umana ha concepito i buchi neri, ed osa sillogizzare quanto è avvenuto nei primi attimi della creazione, perché non dovrebbe saper debellare la paura, il bisogno e il dolore?» (p. 1524, vol. I).

 

C’è chi ha visto in questi passi l’ennesima conferma del radicale pessimismo di Levi, o una crisi del suo illuminismo. Ma non è così. La sua visione dell’uomo, del mondo, e ora anche dell’universo, è sempre stata improntata a un moderato pessimismo, e un altrettanto moderato illuminismo. Il suo è, se così si può dire, uno scetticismo ben temperato, che va accentuandosi con il passare degli anni, fino a dare la sensazione di un deciso pessimismo. L’elemento entropico, qui enunciato, è sempre presente nella sua visione della scienza, e la tendenza al disordine progressivo della materia è ben presente nelle sue riflessioni.

 

Nel 1983 ha pubblicato sulle pagine di una rivista, il «Notiziario della Banca Popolare di Sondrio», uno scritto intitolato Il brutto potere. Scrive: «Se non l’universo, almeno questo pianeta è retto da una forza, non invincibile, ma perversa, che preferisce il disordine all’ordine, il miscuglio alla purezza, il groviglio al parallelismo, la ruggine al ferro, il mucchio al muro e la stupidità alla ragione» (p. 1205, vol. I). Contro questa inclinazione, cui Levi assegna da scrittore un significato anche morale, c’è però una controindicazione: l’omeòstasi. La parola viene dal greco e indica la tendenza che possiedono gli organismi viventi a raggiungere un equilibrio e a mantenerlo nel corso del tempo, anche quando si modificano le condizioni esterne. Si tratta di un principio di autoregolazione. Levi conosce questo processo, dato che in chimica si parla di omeòstasi, anche se è nell’ambito della termodinamica che è presente. Nell’omeòstasi è possibile ripristinare, attraverso un feedback, l’equilibrio. Buona parte dell’articolo di Levi è dedicato alla riflessione sul ciclo della retroazione, su Watt e sulla sua macchina a vapore; nella conclusione, poi, parla dell’omeòstasi applicata alla politica. La frase finale è senza dubbio pessimistica e sembra contraddire il cauto ottimismo della prefazione ai buchi neri: «Il mondo ci sembra avanzare verso una qualche rovina e ci limitiamo a sperare che l’avanzata sia lenta» (p. 1207, vol. I).

 

Calvino nel suo scritto in risposta a Margherita Hack, Un maremoto nel Pacifico, racconta la vicenda di una nave americana, Wateree, gettata da un maremoto sulla terra. Sollevata da un’onda alta più di venti metri, la nave si è trovata lontano dal mare, ma grazie alla sua chiglia piatta è rimasta in equilibrio. Il suo equipaggio, come si racconta in un libro, Onde e spiagge. Dinamica della superficie marina di William Bascom, che Calvino cita nell’articolo sul «Corriere della Sera», continua sulla terraferma la vita condotta in mare; naturalmente con le dovute differenze. Senza voler cavare una morale da questa storia, il signor Palomar considera che può essere accaduto qualcosa di simile alle creature viventi sulla terra: dopo un qualche maremoto o catastrofe gli esseri marini si sono adattati alla nuova vita proprio sulla terraferma. Lo stile mentale, cui ci vuole indurre il perplesso personaggio calviniano, è quello dell’applicarsi con esattezza e precisione a un campo limitato, osservando bene cosa avviene sotto i nostri occhi, cominciando da operazioni che paiono proprio insignificanti.

 

Palomar, in un articolo-racconto precedente, poi posto in apertura del libro omonimo, Palomar, aveva applicato la tecnica delle «piccole cose» alla lettura di un’onda marina, anche se il risultato non era stato esaltante; anzi, decisamente fallimentare. Il metodo d’osservazione utilizzato da Levi nei suoi articoli non è troppo lontano da quello del signor Palomar. Persino in Se questo è un uomo possiamo vedere in azione una forma mentis fondata sull’attenzione ai piccoli dettagli, analizzati tuttavia entro uno schema mentale ben più ampio: un modello. Levi fa osservazioni minuziose, s’interessa ai piccoli eventi, ai dettagli visivi, o più spesso auditivi, linguistici, da cui ricava osservazioni e riflessioni di portata più ampia. Questo stesso metodo lo si può vedere alla prova, con maggior forza e complessità, dentro un quadro concettuale più definito, nel libro che sta scrivendo in quegli stessi anni: I sommersi e i salvati.

 

La risposta che Calvino ha dato a Margherita Hack riguardo alla «caccia d’immagini», ci fa capire la differenza che esiste tra il suo «metodo» e quello di Levi. Anche Levi come l’amico un cacciatore d’immagini? Due anni dopo la pubblicazione di Il brutto potere, in margine a una mostra fotografica dedicata ai campi di sterminio – il testo è pubblicato sulla rivista dell’aned, «Triangolo Rosso» , Levi si sofferma sulla forza delle immagini. Scrive in Perché rivedere queste immagini, riferendosi alle foto: «Mi pare che dimostrino quanto afferma la teoria dell’informazione: un’immagine, a parità di superficie, ‘racconta’ venti, cento volte di più della pagina scritta, ed è inoltre accessibile a tutti, anche all’illetterato, anche allo straniero; è il miglior esperanto» (p. 1268, vol. I). Nonostante l’affermazione, non sembra però coltivare un’attenzione simile a quella manifestata da Calvino per le immagini in senso lato, per il bosco delle immagini scientifiche dove, dalla fine degli anni Cinquanta, quest’ultimo è andato a caccia di «pregiata selvaggina», ovvero idee per dare forma ai suoi racconti e romanzi.

 

Levi parla dell’immagine in termini di «teoria dell’informazione», ovvero in termini quantitativi. Non si attiva in lui il medesimo meccanismo dell’analogia, che gli consente di passare da un’immagine visiva a un testo scritto. Non che l’analogia non funzioni in lui, c’è, ma sembra diffidarne; gli preferisce senza dubbio la metafora quale strumento conoscitivo e attivatore della fantasia letteraria. Fa ampio uso delle metafore, ad esempio animali, nella poesia oltre che nei testi in prosa; e sono anche metafore gli elementi chimici utilizzati in Il sistema periodico, come ha notato giustamente Carlo Ginzburg. Levi preferisce l’invenzione d’oggetti o meccanismi, su cui esercita la sua immaginazione scientifica; ovvero, inventa «cose», da cui poi ricava dettagli tecnici coerenti, che alimentano la narrazione, come accade nei racconti del signor Simpson in Storie naturali. La sua è una scienza parallela – una botanica parallela, una fisica parallela, una tecnologia parallela – e non, come accade all’autore di Le cosmicomiche, un’immaginazione letteraria tout court.

 

Nello stesso periodo in cui esce l’articolo di Thorne, nel 1975, Calvino si occupa di cosmologia nell’«Osservatorio del signor Palomar». L’occasione gli è data da un astronomo di Harvard, David Layzer. Sempre su «Scientific American» del dicembre 1974 è stato infatti pubblicato un articolo sulla variante «fredda» della classica teoria del «Big Bang», ovvero l’esplosione iniziale da cui sarebbe nato il nostro universo. Il brano di Calvino sulla pagina del «Corriere della Sera» è diviso in parti, ciascuna introdotta da un breve titolo; quello sulla cosmologia è: Ultime notizie sul tempo. Lo scrittore vi riassume le tesi dello scienziato americano legate alla reversibilità e irreversibilità del tempo, quindi i temi entropici del disordine e dell’ordine. Nel brano successivo, Collezionista d’universi, Calvino spiega che utilizzo fa il signor Palomar di queste letture. Il suo alter ego, scrive, è «più sensibile alle suggestioni delle immagini plastiche che alle implicazioni filosofiche». Di tutta la dimostrazione esposta da Layzer nell’articolo, a lui è rimasto impresso un disegno che raffigura una digressione accessoria: «si tratta d’una serie di quattro rappresentazioni delle probabilità in varie fasi dell’evoluzione d’un sistema nel tempo». Le immagini attraggono Calvino-Palomar più delle teorie. Possiamo dire la medesima cosa di Levi? No, o almeno non nella forma o intensità che suscitano nel suo amico scrittore. L’articolo di Calvino si conclude così: «Il signor Palomar decide di iniziare un’altra collezione: d’immagini che non sa perché lo attraggono e che sente che potrebbero significare molte cose».

 

Nel maggio del 1980, appena un anno prima dell’uscita di La ricerca delle radici di Levi, che contiene quel Siamo soli, Calvino pubblica su «La Repubblica», quotidiano con cui ha cominciato da poco a collaborare, una recensione: No, non saremo soli. Il titolo è probabilmente redazionale, ma non fuori luogo. Il perché lo spiega la prima riga dell’articolo: si tratta della citazione di Il caso e la necessità di Jacques Monod, apparso dieci anni prima, libro di successo anche tra il grande pubblico. Calvino sintetizza la posizione del ricercatore francese riguardo alla solitudine dell’uomo con la frase: «L’antica alleanza è rotta: l’uomo sa finalmente d’esser solo nell’immensità indifferente dell’universo nel quale è emerso per caso». Le tematiche di Monod, insignito del Premio Nobel per la medicina e la fisiologia, professore di genetica cellulare, sono conosciute anche da Levi, sia per il libro tradotto in italiano da Mondadori (ma può averlo letto in francese), sia per altri due volumi di argomento simile tradotti dal suo editore, Einaudi: La logica del vivente (1971) e Evoluzione e bricolage (1978), di François Jacob. L’oggetto della recensione di Calvino non è però un’opera di Monod, bensì il libro di Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, uscito in Francia nel 1979 (sarà tradotto da Einaudi nel 1981). Nato a Mosca nel 1917, due anni più vecchio di Levi, Prigogine è naturalizzato belga ed è stato insignito come Monod del Premio Nobel, nel 1977.

 

Primo Levi in laboratorio, ph. Bernard Gotfryd

 

Cosa sostiene Calvino riguardo a Prigogine? Il fisico-chimico, studioso di fenomeni irreversibili, non corregge la visione di Monod nei suoi presupposti, ma nelle sue prospettive: «l’irreversibilità è fonte d’ordine, creatrice d’organizzazione». Prigogine rovescia la visione termodinamica fondata sull’ineludibile morte dell’universo attraverso il trionfo dell’entropia, scrive Calvino, e sulla degradazione di ogni energia in calore senza ritorno. Una visione opposta a quella proposta da Primo Levi, che oppone al degrado l’omeòstasi quale elemento conservativo. La nuova alleanza contiene un aspetto ottimistico che Calvino coglie immediatamente. Nel resto del pezzo lo scrittore rende conto della interpretazione che i due autori danno della separazione del mondo umano da quello fisico, operata da Newton, e finisce citando alcune frasi dalla recensione di Michel Serres, epistemologo francese, che ha accolto l’uscita del libro su «Le Monde».

 

Calvino ha forse modificato la sua visione dell’universo in espansione, che è presente in alcune fra Le cosmicomiche, sostituendola con quella dell’implosione? Domenico Scarpa ha ipotizzato che proprio nell’ultimo periodo della sua vita, nelle prose raccolte in Palomar (1983), lo scrittore ligure cominci a rientrare in se stesso, a ritirarsi dal mondo, a segregare la propria conchiglia, come ha raccontato anni prima in La spirale, racconto cosmicomico di forte ispirazione autobiografica. Scarpa ricorda che nella costruzione dei racconti del signor Palomar – apparsi, come si è visto, prima sui giornali cui collabora, poi rielaborati per il libro – Calvino aveva pensato a un personaggio che incarnasse l’aspetto negativo, «personificazione di un black hole». Il suo nome è signor Mohole, tratto da un progetto di trivellazione delle viscere della terra, come Palomar è il nome di un osservatorio astronomico.

 

In un dialogo pubblicato postumo, che avrebbe dovuto aprire una nuova serie di racconti-saggio sulle ragioni dell’espansione e quelle dell’implosione, ma che non ha mai scritto, Calvino mette in tensione le due visioni dell’universo. Si può supporre che proprio con la recensione a Prigogine, Calvino abbia colto un elemento di positività nella negentropia, l’anti-entropia, l’entropia negativa, come la definisce Michel Serres nei suoi libri. Per Serres l’elemento che si oppone all’entropia e alla dissipazione è la letteratura, capace di organizzazione creativa. Calvino l’ha individuato in Lévi-Strauss, l’antropologo strutturalista, scrive Scarpa, ma è soprattutto nell’opera di Michel Serres, il filosofo-marinaio, che è ben presente, e proprio Serres avrà una notevole influenza nell’ultima parte della vita di Calvino ispirandogli parte dei racconti di Sotto il sole giaguaro, il progetto di un libro sui «cinque sensi». La letteratura è un’isola d’ordine nel mare del disordine.

 

La lezione che viene da Prigogine è questa: le strutture dissipative organizzano provvisoriamente, ma in modo continuo, il disordine. L’opera letteraria, com’è già evidente in alcuni saggi raccolti in Una pietra sopra (1980), contiene questa capacità negentropica. Mohole, personaggio, mai pienamente dispiegato, esprimerebbe il rapporto con il mondo che Calvino ha mantenuto durante la sua esistenza, «un rapporto fondato sulla rinuncia: rinuncia all’effusione, rinuncia all’autobiografia, rinuncia a tutto ciò che nell’espressione è oggettivo e superfluo e sperticato» (Scarpa, 2006). Un perfetto intellettuale laico di discendenza ligure-piemontese, se si vuole attribuire un carattere regionale a questo aspetto della sua personalità. Questo carattere poi si compendia perfettamente nell’immagine del buco nero. Tuttavia la recensione a Prigogine e Stengers lascia intravedere qualcosa di nuovo, un cambio di passo che è anche suffragato dall’idea coltivata negli ultimi anni di procedere sulla strada di un’autobiografia, di cui si possono cogliere i segni nella edizione postuma del volume La strada di San Giovanni.

 

E Levi? La sua posizione è diversa; o meglio, simile, ma fino a un certo punto, almeno riguardo ai buchi neri. Intanto, all’entropia, al disordine, al degrado tendenziale della energia, Levi non oppone nessuna «nuova alleanza» tra mondo umano e mondo naturale. Levi resta legato alla scienza ottocentesca, quella di Clausius, al suo concetto di entropia enunciato nel 1865, cui oppone, come si è visto, l’omeòstasi di Il brutto potere. Per un fatto culturale oppure per un orientamento del carattere? Come ci fa capire Calvino con il suo oscillare tra Palomar e Mohole, conta anche l’aspetto caratteriale, oltre che le esperienze di vita. Per capire la lettura che Levi dà dei buchi neri bisogna tornare al 1975.

 

Uno degli effetti diretti della lettura dell’articolo di Thorne è una poesia, Le stelle nere. Compare nella prima raccolta a stampa delle poesie di Levi, L’osteria di Brema, presso Scheiwiller nel 1975. Nell’edizione successiva della raccolta, più ampia, Ad ora incerta (1984), Levi indica la sua fonte: l’articolo di «Scientific American», ma data la poesia 30 novembre 1974, ovvero prima della pubblicazione del pezzo di Thorne. Una piccola incongruenza che un giovane studioso, Lorenzo Marchese, ha spiegato leggendo la corrispondenza di Levi con Vanni Scheiwiller. L’autore l’ha retrodatata per poter chiudere il volume con la poesia intitolata Congedo, più adatta alla chiusa per via del titolo.

 

Le stelle nere è stata composta, scrive al suo editore, il 10 febbraio 1975; Levi usa mettere in calce a ogni poesia la data precisa di stesura. Perciò fa parte a buon diritto della questione dei buchi neri. L’incipit è apodittico: «Nessuno canti più d’amore e di guerra». Segue uno stacco di una riga a questo che è un comando. Dopo vengono versi davvero desolanti: «L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto / Le legioni celesti sono un groviglio di mostri, / L’universo ci assedia cieco, violento, strano. / Il sereno è cosparso d’orribili soli morti, / Sedimenti densissimi d’atomi stritolati». Si tratta di una messa in versi delle descrizioni che Levi ha tratto dalla lettura dell’articolo di Thorne, cui si aggiunge una veemenza e una disperazione assoluta, ma asciutta, tipica di molte delle sue poesie. Poi scrive: «Da loro non emana che disperata gravezza»; e nei due versi successivi descrive l’effetto delle «stelle nere»: «Non energia, non messaggi, non particelle, non luce; / La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso».

 

Primo Levi di fronte al computer in una foto di Mario Monge

 

L’espressione «buchi neri», come si può notare, non è usata né nel titolo né nei versi. Levi preferisce la dizione classica di «stelle nere»; la poesia ha un andamento classicheggiante, sebbene costellato di alcuni termini d’origine scientifica, entrati tuttavia ormai da tempo nel lessico comune (energia, messaggi, particelle, atomi). La chiusa è desolante: «E tutti noi seme umano, viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si coinvolgono perpetuamente invano». Il primo dei due versi riecheggia Shemà, la poesia che apre Se questo è un uomo («Che muore per un sì o per un no»). Domenico Scarpa, pur ammettendo che si tratti di «una dichiarazione di solitudine disperata dell’uomo nel cosmo», propende invece per una «disperazione che contraddice se stessa», soprattutto se confrontata con il testo che presenta l’articolo di Thorne in La ricerca delle radici. Ha ragione, ma come spesso accade in Levi si tratta di una contraddizione, di un ossimoro tematico e anche psicologico. È così sin dal suo esordio in Se questo è un uomo: l’opposizione tra la poesia Shemà, invettiva con maledizione, e l’affermazione che si tratta di «uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». La premessa a Thorne sui buchi neri contraddice la poesia Le stelle nere.

 

Si tratta delle due tensioni presenti nell’animo di Levi, mai arrivate a una sintesi: disperazione e ottimismo, umor nero e positività. Una serie di coppie che Levi ha poi sintetizzato a un certo punto della sua carriera di scrittore nella figura del centauro, al principio degli anni Sessanta, e che giace sul fondo della sua personalità di uomo e di scrittore da molto prima, forse sin dal suo esordio con Se questo è un uomo, o anche prima. C’è un Levi che leva lo sguardo verso il cielo, verso l’universo, e constata che l’ordine del cosmo non è più quello degli antichi, ordine immobile e insieme fatale, eppure stabile. «Il cosmo», come dice il primo verso, non è neppure più parola che possa essere usata impunemente, dal momento che si è rotta quella che Leo Spitzer ha chiamato nel suo studio L’armonia del mondo, l’universo ordinato, con la musica delle sfere, ancora pensabile nell’antichità classica e nel medioevo. L’ordine è sciolto. Rivolgendo gli occhi della mente verso l’alto, quello che l’autore dei versi vede è un universo cieco, violento e strano; parole che suonano perfette anche per definire la sua stessa vicenda concentrazionaria. «Invano» è l’ultima parola.

 

È vero che il testo compreso nella sua antologia personale contiene una visione più positiva del rapporto con i buchi neri, ma i due brani sono come due valve della medesima conchiglia che ha nome Primo Levi: estremi di un’oscillazione, poli opposti e complementari della personalità. Come Levi ha più volte detto, le poesie sono la sua parte in ombra, le sue angosce e ossessioni più profonde, il tutto custodito da un involucro letterario molto tradizionale. Molti dei componimenti poetici dello scrittore torinese emergono da un pozzo oscuro, un luogo buio, e hanno una loro negatività ciclica, se è vero che sono stati composti a grappoli. Seguendo la cronologia della stesura dei versi, la maggior parte sarebbe stata scritta in due periodi: quello del suo rientro dal Lager, nel 1946 (ben quattordici poesie scritte in quell’anno); e quello compreso tra il 1979 e il 1980 (sono nove nel 1980). Secondo Carole Angier, sua biografa, questi sarebbero i periodi di maggior depressione nella vita di Levi.

 

A proposito della poesia ispirata dai buchi neri, Scarpa scrive che è stata composta «a nervi tesi e con gli occhi spalancati», sono versi «dalle belle giunture e dai muscoli elastici», e definisce Levi un poeta didascalico piuttosto che lirico. Ebbene, nella forma didascalica assunta dai suoi versi è possibile versare la materia incandescente della sua psiche, quello «straccio di Es», che Levi finirà per confessare di avere proprio nella prefazione a La ricerca delle radici, probabilmente il libro che, seppur uscito molto tardi rispetto all’arco della sua attività poetica cominciata negli anni Quaranta, ne è il perfetto corrispettivo, proprio in virtù della sua forma antologica. Questa forma consente a Levi di mettere a nudo, come scrive sempre nella prefazione, un po’ di se stesso. Scarpa nota giustamente che i tre aggettivi – cieco, violento e strano – si trovano sia nella poesia sia nel pezzo sui buchi neri dell’antologia, dove a «cieco» si preferisce «ostile», segno minimo di un travaso dalla poesia alla prosa.

 

L’espressione «buco nero» compare in un altro testo di Primo Levi, un articolo di giornale: Buco nero di Auschwitz. Sono trascorsi dodici anni da Stelle nere e il termine ritorna sulla prima pagina del quotidiano «La Stampa» il 22 gennaio 1987. Il titolo è, con ogni probabilità, redazionale, ma nel corpo del testo l’espressione c’è. Non è riferita al campo di sterminio diventato l’emblema del sistema dei Lager nazisti, Auschwitz, bensì a due campi di sterminio, Treblinka e Chełmno, dove l’eliminazione degli ebrei era diretta e immediata, senza passare per il lavoro coatto. Sono questi due luoghi, di cui i nazisti si affrettarono a cancellare le tracce, a indurre Levi a usare l’espressione «buchi neri». Compare una sola volta, e anche tra virgolette, con un significato metaforico, certamente, ma anche per indicare «qualcosa» da cui non esce nulla, neppure un raggio di luce. Uomini, donne e bambini, scrive Levi, «colpevoli solo di essere ebrei», scesero dai treni per entrare nelle camere a gas: «da cui nessuno è uscito vivo».

 

Partita come un’immagine cosmologica, della scienza astronomica, il «buco nero» diventa per il testimone Levi la metafora-immagine della distruzione degli ebrei d’Europa. Il contesto in cui esce l’articolo è quello della discussione in corso in Germania intorno alla «soluzione finale» paragonata a quanto fecero i sovietici durante il regime stalinista, e anche dopo, nei Gulag. La critica che Levi muove agli storici tedeschi, Nolte e Hillgruber, è quella di non considerare la singolarità storica del genocidio dei campi nazisti, costruito, appunto, intorno alle camere a gas, all’eliminazione fisica di milioni di persone con metodo industriale. Nei Gulag sovietici non si svolsero mai «selezioni» come nei Lager tedeschi. L’articolo è breve e non aggiunge molto a ciò che Levi ha scritto altrove, in altri articoli, saggi, e in seguito in I sommersi e i salvati, riguardo alla sua posizione sulla «singolarità storica» del genocidio ebraico. Ma forse è opportuno sottolineare questo scivolamento, o spostamento, del termine «buco nero» dall’ambito cosmologico a quello storico, di cui la poesia Le stelle nere costituisce un antecedente, ma con una specificità. Là, seppur nei versi disperati, il black hole è in alto sopra la testa del poeta, mentre qui il buco nero sembra aprirsi di colpo sotto i suoi piedi: punto in cui collassa l’intera storia europea. Primo Levi, con tutta la sua passione per la scienza e le sue letture delle pagine di «Scientific American», sta sospeso tra questi due spazi dove: «La luce ricade, rotta dal proprio peso, / E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla».

 

 

Esce oggi in libreria per Guanda Primo Levi di fronte e di profilo  (Guanda, pp 736, € 38) di Marco Belpoliti, un libro che affronta tutti gli aspetti dell'opera di Levi con sguardo enciclopedico e andamento narrativo. Racconta la storia delle opere di Primo Levi, come sono nate, quando sono state scritte, di cosa parlano; s’addentra nell’universo dell’autore, nei suoi molti mondi: dalla deportazione alla chimica, dalla scienza alla antropologia, dalla biologia all’etologia, dall’ebraismo alle idee politiche. Levi è stato un uomo che si è interessato di molti campi dello scibile umano e ha praticato diverse forme letterarie, dal memoriale alla poesia, dal romanzo all’autobiografia, dal saggio al racconto. Da questa narrazione corale  emergono i diversi volti dello scrittore torinese. Intercalate nel testo, seguite da un breve testo, dieci fotografie fissano la vita dello scrittore addentrandosi nella storia dei suoi libri, nella passione per i voli spaziali, gli animali, le parole, la linguistica, il lavoro, la scienza, la chimica.

 

Calvino, Levi e i buchi neri che qui pubblichiamo è uno dei capitoli del volume.

 

 

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