Chi ha paura dell'Armageddon?
Abitando in America, dove la confidenza degli americani nella capacità di guidare il proprio destino, per non dire di quello del mondo, non è mai stata così bassa, tendo a dimenticare che il resto del pianeta è convinto che non si muove foglia che l'America non voglia. Ma tra settembre e ottobre ho passato in Italia quasi un mese, apprendendo, da vecchi amici di sinistra, o amici della vecchia sinistra, che se la Russia invade l'Ucraina è perché l'America l'ha costretta a invaderla, e che se Putin minaccia il mondo con l'atomica è perché Biden non gli lascia alternative. La chiamerei la filosofia politica di Stanlio e Ollio.
Quando Ollio combina qualche guaio, immancabilmente si rivolge a Stanlio per dirgli: “Guarda cosa mi hai fatto fare!” (“Look at what you made me do!”). Putin insomma non ha invaso l'Ucraina perché lo voleva; non minaccia il mondo con l'atomica perché ce l'ha e gli viene la tentazione di usarla. No, sta semplicemente dicendo a Biden: “Guarda cosa mi fai fare!” (Per quanto sembri incredibile, la domanda: “Ma allora Biden sta preparando la guerra nucleare?” mi è stata davvero rivolta.)
Parecchi anni fa, in un mio corso di cinema, introducendo Hiroshima mon amour avevo parlato delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki come di un fatto scontato. A un certo punto mi sono accorto degli occhi sgranati di alcune studentesse. Non sapevano che gli Stati Uniti avessero sganciato due bombe atomiche durante la Seconda guerra mondiale; non lo sapevano proprio. Non generalizzo, ma mi viene il sospetto che l'incredibile proliferare di film, romanzi e fumetti post-apocalittici abbiano un po' immunizzato i giovani rispetto a una elementare ovvietà: perché ci sia un eroico futuro post-apocalittico bisogna che prima venga l'Apocalisse.
E comunque è da molto tempo che Apocalisse e post-Apocalisse non hanno più il marchio obbligatorio dell’atomica o della bomba all’idrogeno. Anzi, una guerra nucleare è talmente fuori moda, talmente ventesimo secolo che non resisterebbe nemmeno a una serie televisiva in una stagione senza prequel e senza sequel. E poi la minaccia viene dalla Russia, uno stato che dal ventesimo secolo proprio non è mai uscito. Chi volete che ci creda? Tornando in America, non mi sono sorpreso di constatare che qui dalla guerra nucleare si parla molto meno che delle dimissioni della presidente del consiglio comunale di Los Angeles sorpresa a dire una battuta razzista.
Biden ha fatto benissimo a lanciare un allarme che a molti benpensanti è apparso folle e irragionevole, quando ha detto che siamo a rischio di Armageddon, la “battaglia finale” che secondo la Bibbia (Apocalisse 16, 16) dovrebbe svolgersi sulla collina di Megiddo (Har Megiddo), una cittadina palestinese sull’antica strada che connetteva Siria ed Egitto. Un po’ poco per la fine del mondo, ma una volta quello era il mondo. Biden è noto per dire cose che altri uomini politici si guardano bene anche dal pensare. Durante la campagna elettorale di Obama ci fu un coro di disapprovazione quando disse che il nuovo presidente sarebbe stato messo alla prova. Da che cosa? Non si sapeva ancora, ma certamente sarebbe accaduto. Oh, non si parla così, non si semina il panico.
Ma la prova ci fu: la crisi finanziaria del 2008, e anzi fu la vera ragione per cui Obama vinse la presidenza. Ma servirà a qualcosa? Un vecchio film russo si intitolava Mosca non crede alle lacrime (Vladimir Mensov, 1979). Un film pre-apocalittico ambientato oggi negli Stati Uniti dovrebbe intitolarsi L'America non crede al fallout. Ci sono testate come il “Business Insider” che sono generose nel diffondere mappe e previsioni strategiche: quali obiettivi americani verrebbero colpiti in caso di attacco russo, quali obiettivi russi colpirebbero gli americani in risposta. Ma sospetto che i lettori del molto conservatore “Business Insider” siano soprattutto baby boomer della Guerra fredda che vogliono tornare a provare qualche antico brivido. I giovani sono sintonizzati su altri canali.
Nel corso sul cinema del mondo che insegno questo semestre ho dedicato alcune settimane al cinema iraniano. Non potevo non menzionare la lotta delle donne iraniane, che non è solo per la libertà dall'obbligo del velo. Ho fatto vedere Il giorno in cui diventai una donna, uno splendido piccolo film diretto da Marzieh Meshkini (2000). Ho fatto vedere le foto delle manifestazioni delle donne, da quelle del 1979 in cui in una piazza di Teheran non c'era una sola donna che portasse il velo a quelle di oggi in cui le studentesse bruciano i veli. Ho parlato di La metà nascosta di Tahmineh Milani (2001), ambientato durante l'epoca della rivoluzione islamica, quando parecchie studentesse avevano deciso di indossare lo chador non solo per fede ma anche in segno di ribellione alla brutale secolarizzazione imposta dallo Scià Reza Pahlavi.
Ho detto loro che il velo è una questione di classe e non solo religiosa, visto che nei quartieri alti di Teheran le iraniane ricche possono vestirsi come vogliono, sicure che la polizia non verrà mai a dar loro fastidio. Non c'è stata la minima reazione. Nessuna parola di commento, nessuna simpatia espressa da parte delle studentesse presenti. Non mi aspettavo una sinfonia di esecrazioni tanto facili quanto scontate, però nemmeno potevo pensare che l'unico intervento di una donna fosse una lunga tirata su quanto sono razzisti i film… di Disney.
E nemmeno mi aspettavo che uno studente giudicasse anche Il giorno in cui diventai una donna un film razzista. Per spiegarmi: la prima parte del film racconta l’amicizia di una bambina iraniana bianca e un bambino iraniano nero, in cui il diverso colore della pelle non gioca il minimo ruolo. Nell terza parte del film una donna anziana, analfabeta e sempre vissuta in povertà, riceve una cospicua eredità e pensa di adottare un bambino nero.
Il quale le dice di no, ha già una madre. Allora decide che non adotterà un nero, adotterà un bianco. Ma anche il bambino bianco ha già una madre, e la questione si chiude. È bastato perché il film fosse giudicato razzista. Da un solo studente, sì, ma ne basta uno. Ed è bastato perché io mi dovessi avventurare in una lunga spiegazione sul fatto che il film si svolge nel sud del paese, sul Golfo di Oman, dove ci sono parecchi neri, mentre la donna, da come si veste, è probabilmente curda e viene dal nord dove di neri ne incontra pochi.
Cos’ha a che fare tutto questo con la minaccia nucleare? Semplice. In America è diventato difficile concepire l'idea che esista un problema che riguarda l'intera umanità, o anche solo la parte femminile dell’umanità. Sì, le donne iraniane sono in rivolta, ma “donne” non significa niente. In che etnie sono divise? Quante di loro sono bianche, quante arabe e quante nere? Qual è il loro gender?
Quali sono tra di loro le più oppresse e quali le meno oppresse? Questi sono tempi in cui la solidarietà va centellinata, non la si può mica distribuire come se niente fosse. Invece il fallout, beato lui, piove sui giusti e sugli ingiusti, sui bianchi e sui neri, sugli etero e sui gay. Non distingue tra razzisti e antirazzisti, è interclassista e interrazziale, non bada alle differenze e non può farti sentire moralmente superiore rispetto a nessun altro.
La sensazione è che l'espressione “diritti umani”, di per sé non molto antica, visto che è entrata nell’uso comune solo dopo la dichiarazione dell'ONU del 1948, sia ormai obsoleta. L'aveva già sospettato Hannah Arendt negli anni Cinquanta quando osservava che i diritti umani esistevano solo per chi aveva un passaporto. Del resto, la Rivoluzione francese a suo tempo aveva promulgato la carta dei diritti “dell'uomo e del cittadino”, come a dire che se non sei un cittadino non siamo sicuri che tu sia un uomo. In un romanzo o un saggio di C.S. Lewis, ora non ricordo quale fosse, c'è un personaggio che si sente rivolgere la seguente domanda: “Sei di nobile discendenza?” Al che risponde: “Discendo da Lord Adamo e da Lady Eva, e non c'è discendenza più nobile di questa”.
È una battuta meravigliosa, e non so se Kwame Anthony Appiah ci ha pensato quando ha proposto l’istituzione di un certificato di appartenenza alla razza umana. Ma se una guardia di frontiera che chiede: “Nazionalità?” si sente rispondere: “Razza umana”, temo che la sua prossima richiesta sia: “Ok, mi faccia vedere il passaporto”.
La minaccia nucleare non è credibile perché riguarda l'umanità, e l'umanità non esiste più. Riguarda i diritti umani, che sono i diritti della vita, della libertà, della sopravvivenza, ma ormai tali diritti devono essere specifici, devono appartenere a un etnia, a una razza, a un genere, a una minoranza. Come in fondo è sempre stato, perché anche i diritti umani di cui si parla nelle rivoluzioni francese e americana non riguardavano affatto tutta l’umanità, visto che gli schiavi erano esclusi.
So di dire qualcosa di cattivo e di ingiusto, ma la identity politics incattivisce tanto chi la pratica (qualcuno dei miei studenti) quanto chi cerca di difendersene (il loro insegnante), e mi viene da pensare che se il regime iraniano avesse scatenato una repressione non nei confronti delle donne ma solo di alcune donne, di una specifica etnia, di uno specifico orientamento sessuale, donne riconducibili a qualche categoria comprensibile a chi ha spezzettato l'umanità come carta truciolata in un sacco di coriandoli, un po' di indignazione ci sarebbe. Se nessuno è umano per il semplice fatto di essere nato, e se deve godere di un’ulteriore qualifica per poter essere riconosciuto come tale, allora si può capire perché l'atomica non fa paura. Colpisce gli esseri umani, ma se gli “esseri umani” non ci sono più, non colpisce nessuno.