Indicativo presente | Duecento giorni in classe / Cominciare

26 Ottobre 2018

Una classe spesso comincia ad essere classe prima che arrivi un professore. Venti o più ragazze e ragazzi non sempre hanno davanti il tizio che sarà con loro per un anno. Conoscono i docenti di ruolo, e cominciano a conoscere i supplenti. Supplenti per due settimane, per un mese, o tutto l’anno. La scuola italiana rimane un organismo burocratico enorme, nonostante la legge che istituiva l’autonomia scolastica, la 59 del 15 marzo 1997, abbia voluto rendere ogni istituto una sorta di azienda statale più indipendente, con un migliaio di studenti e cento-duecento dipendenti tra docenti, amministrativi, “bidelli” (il personale ATA Amministrativo Tecnico e Ausiliario). I docenti di ruolo (quelli che resteranno sino alla pensione) sono la maggioranza, ma tanti sono “precari”. Attendono in genere la nomina annuale in una o più scuole, che arriva dall’Ufficio Provinciale del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica a fine settembre, o a inizio ottobre.

Quindi la storia della mia classe è cominciata prima di me, il professore.

 

Ricevi una mail dalla scuola che ti propone un contratto “sino ad avente diritto”: vuol dire che cominci a lavorare ma non sai per quanto. L’essenza della precarietà. Ma ai ragazzi è bene non dirlo, perché in qualche modo hanno bisogno di cominciare. Allora prendi servizio, firmi una decina di fotocopie che ti chiedono più o meno gli stessi dati per dieci volte, stringi la mano al collega vicario (il docente che fa da vice al dirigente scolastico spesso assente perché sta svolgendo una reggenza dirigenziale su un altro gigantesco istituto scolastico magari a 20 chilometri, che può darsi che non avrai occasione di vedere prima del prossimo Collegio dei Docenti). Il vicario di norma è accogliente e cordiale, perché è stato precario anche lui e sa che dedicandoti un po' di empatia per una mezz’oretta tu partirai meglio.

Poi entri in aula docenti, dove gli altri colleghi, a loro volta cordiali, ti salutano, ti chiedono su che classe sei, cosa insegnerai e tirano un sospiro di sollievo perché non dovranno più sostituirti altre ore, gratuitamente, domando i leoncini. Poi cerchi la tua “buca”, il cassettino a te dedicato dove potrai ricoverare i libri di testo adottati dalla tua classe. La buca, solitamente, è piena di scartoffie abbandonate da un collega esasperato a fine anno, e senza i libri adottati per l’anno in corso, così entri in classe a mani vuote.

 

Ph Steve McCurry.


Gli allievi sono insieme contenti di cominciare, e scontenti di non dovere più non cominciare. Ma è chiaro: ti stavano aspettando. L’appello è una prova che mi ricorda il DOP, il Dizionario d’Ortografia e di Pronunzia di Radio Rai, redatto decenni fa da Bruno Migliorini. Sbagliare la pronuncia di un nome non italiano al primo appello non va bene, ma spesso, se pronuncio in francese un cognome di origine francoafricana, o con accento arabo un cognome magrebino, il ragazzo mi corregge esigendo una pronuncia italianizzata. Il terreno è minato. Gli italiani della classe sono quattro o cinque. Gli altri – come sto dicendo in classe tentando un approccio soft alla multiculturalità del gruppo – avevano i nonni nati in Romania, Albania, Ucraina, Moldova, Filippine, Perù, Senegal, Ghana, Egitto, Marocco, Algeria, Tunisia, Cina. Quelli con i nonni italiani sono una schiacciante minoranza in un gruppo che però si sente giustamente tutto di italiani. Anche se tanti di loro non possono essere cittadini italiani perché in Italia non è stata ancora approvata una legge di civiltà quale lo ius soli, che ti darebbe la dignità di essere come i tuoi compagni se nato nel territorio di questo Paese.

 

L’attuale legge in vigore sulla cittadinanza è del 1992 e prevede un’unica modalità di acquisizione, lo ius sanguinis: un bambino è italiano se almeno uno dei genitori è italiano. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e solo se fino a quel momento ha avuto residenza in Italia «legalmente e ininterrottamente». Un trucco per non dare a migliaia di bambini nati e cresciuti in Italia diritti da italiani, visto che il permesso di soggiorno dei genitori nel frattempo può scadere, e costringere i conseguenza tutta la famiglia a lasciare il paese per alcuni mesi per ricominciare daccapo come “stranieri”. Questo è uno dei casi in cui il Parlamento è molto più indietro della realtà sociale e civile, e per spinte ideologiche e meschinità varie ignora intenzionalmente un fatto: questi ragazzini di fronte a me (i ragazzini con cui parlo occhi negli occhi quando – spesso – lascio la ottocentesca “cattedra” per stare fra di loro e avvicinarci) credono tutti di essere italiani, e quando scoprono di non esserlo cadono dalle nuvole, con mortificazione o rabbia, non capendo perché il compagno con cui hanno fatto tutta la scuola elementare e le medie sia italiano e loro no e restino Senegalese, Marocchino, Peruviano.

 

Un anno in classe comincia così: attendendo che ti diano una classe; entrando in una classe che non sai se sarà la tua; facendo il primo appello ascoltando come i ragazzi vogliono che tu pronunci il loro nome, dandoti alla vita nella loro classe; e infine prendendo atto che tra di loro nessuno non ha problemi che in qualsiasi momento possono far saltare attenzione e dialogo. Comincia una storia di molteplici interazioni. 

Sono tornato a insegnare da pochi anni, dopo una carriera che è finita perché è finito un mestiere, quello del giornalista. Internet ci ha uccisi prima lentamente, dai Novanta, poi il nodo scorsoio si è stretto sempre più in fretta, la pubblicità è crollata, i lettori sono spariti, e sono cominciati i licenziamenti. Quando sei licenziato a 50 anni senti che sotto il tuo mondo si apre una voragine oscura: quell’idea così consolidata di “carriera”, di sicurezza, di progressivo assopirsi verso la pensione, svanisce nelle poche settimane in cui devi saperti difendere dal mobbing aziendale per ottenere la migliore buonuscita cui lavora il tuo avvocato. Quando ho appreso la resilienza, e sono finite prima l’euforia della libertà, poi la rabbia per l’espulsione e infine la depressione del “perché proprio io?”, mi sono detto: «Il mondo non ha più bisogno di giornalisti, perché tutti leggiucchiano ormai brevi news gratuite sul web. Devo farmene una ragione: sono come un postiglione di inizio Novecento: la sua carrozza non avrebbe mai più viaggiato perché era nata l’automobile; i suoi cavalli sarebbero andati al macello. Non è colpa mia, è l’Ineluttabile. È l’Impermanenza che ho capito come buddhista che ora si fa tegola sulla mia testa». Poi, mi sono chiesto: «Quale cosa che io so fare può ancora servire al mondo? Cosa potrebbero comprare da me gli altri?». La risposta è stata insegnare, e stare con le ragazzine, e i ragazzini, vicino alla loro stupenda e terribile energia. Nel 2007 Daniel Pennac ha scritto nel suo Diario di scuola: «Insegnare è proprio questo: ricominciare fino a scomparire come professori. Se non riusciamo a collocare i nostri studenti nell’indicativo presente della nostra lezione, se il nostro sapere e il nostro piacere di servirsene non attecchiscono su quei ragazzini e su quelle ragazzine, nel senso botanico del termine, la loro esistenza vacillerà sopra vuoti infiniti». Non è cambiato niente, da allora. Sono loro, i ragazzini, cui spetta il mondo; lo salveranno se io sparirò, togliendo loro da sotto, giorno dopo giorno, il Vuoto che incombe.

 

21 ottobre 2018

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