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Peste / Cosa c’entra Manzoni con il Covid?

3 Maggio 2020

Manzoni, ovvero della peste. Appena si profila un’epidemia, in Italia si pensa istintivamente all’autore dei Promessi sposi; e così è successo anche questa volta. A maggior ragione, potremmo aggiungere, perché si trattava – si tratta – dell’epidemia più allarmante che abbia mai colpito il mondo industrializzato. Ma oggi, a svariati mesi dalla prima notizia del misterioso nuovo coronavirus in Cina, e a dieci settimane dalla scoperta dei primi focolai sul nostro territorio, possiamo dire che don Lisander, dopo tutto, non è il caso di scomodarlo. Da noi, almeno. E per ora.

Gli aspetti salienti della peste manzoniana sono infatti due. Agli esordi del contagio, la stupefacente sottovalutazione del pericolo, per cui sia la popolazione sia (cosa ben più grave) l’autorità politica si ostinano a negare l’evidenza; in seconda battuta, dopo l’esplosione del morbo, il delirio collettivo sull’esistenza degli untori, causa del clamoroso processo analizzato nella Storia della Colonna infame, una fra le pagine più buie della storia giudiziaria nazionale. Dunque, due questioni distinte: da un lato l’incomprensione della gravità del fenomeno, dall’altro la pretestuosa ricerca di un capro espiatorio. Su entrambi i versanti, le imputazioni possibili includono ignoranza, inettitudine e malafede. Rinviando la prima questione a un’occasione ulteriore, mi soffermo ora sulla seconda.

 

Cosa è successo in Italia con il Covid-19? C’è stata forse una caccia all’untore? In tutta franchezza, no. Sono bensì avvenuti, nei primi tempi del contagio, alcuni ingiustificabili episodi di intolleranza nei confronti di cittadini di origine cinese; ma, nell’insieme, non si può dire che nel nostro Paese abbia preso piede un’ossessione aggressiva contro qualcuno. Di questo possiamo moderatamente compiacerci: non era affatto scontato. Altrove, però, le cose sono andate in modo diverso. A partire dalla scoperta del primo focolaio negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump, responsabile di ritardi più gravi di quelli imputabili a qualunque capo di governo europeo, ha cercato un colpevole da additare come nemico all’opinione pubblica. Sintomatico il tentativo, presto fallito, di accreditare un’espressione platealmente denigratoria come «virus cinese» (Chinese virus). Ad esso è poi seguita una quotidiana ricerca di responsabili cui accollare colpe più o meno gravi: i laboratori di Wuhan, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i governatori democratici, gli stranieri. Intanto i numeri del contagio crescevano, diventando via via più allarmanti. Mentre scrivo, il sito web «Worldometer» registra negli USA un totale di 60.000 decessi da Covid-19, più che Italia e Spagna messe insieme. 

Se dicessi che verosimilmente Trump non ha mai letto Manzoni, non sfonderei una porta aperta: in questo caso non c’è nemmeno una porta, né stipiti, né parete; del resto, una buona traduzione inglese dei Promessi sposi finora non esisteva (ci sarà fra poco, grazie alla meritoria opera di Michael F. Moore, già traduttore dei Sommersi e i salvati di Primo Levi e di tanti altri autori italiani, da Alberto Moravia a Sandro Veronesi). Ma sarebbe imprudente compiacersi dell’impressione che la cittadinanza italiana sia culturalmente un po’ meno sprovveduta di quella che quattro anni fa ha eletto Trump alla Casa Bianca. Dobbiamo fare ancora una lunga strada prima di poter dire che abbiamo superato indenni il pericolo della peste delle coscienze. 

 

Da un sondaggio condotto negli Stati Uniti intorno alla metà di marzo dal Pew Research Center risultava che secondo un terzo degli interpellati il coronavirus era stato prodotto in laboratorio. La persuasione che il Covid-19 sia un man-made virus risulta ora condivisa da quasi metà dei britannici: tale il risultato di un sondaggio commissionato del quotidiano «The Independent». In Italia, per fortuna, gli istituti demoscopici si sono finora astenuti dal compiere rilevazioni simili; o forse bisognerebbe dire, nessuno glie ne ha commissionate, vuoi per autonomo senso di responsabilità patriottica, vuoi a seguito di pressioni dall’alto. Ma non c’è da farsi molte illusioni. Prima o poi, sondaggi del genere si faranno anche da noi. E quanto più incerte e precarie saranno le condizioni in cui il Paese starà allora versando, tanto più credito troverà la tesi (già oggi strisciante) del contagio «manufatto». Un incidente di percorso in una azzardata ricerca di laboratorio, un complotto ordito da qualche potenza straniera, una diabolica manovra per colpire la nazione, la democrazia, la gente comune: la sindrome paranoica del «loro vogliono che» è sempre in agguato. Terribile è questo uso del pronome «loro». «Loro» come indeterminata entità terza, esecrabile ad libitum, senza una fisionomia determinata, e alla quale quindi si può attribuire qualunque volto: un puro collettore di rancore sociale. Né mancheranno gli adepti di ipotesi strampalate. A quanto pare, secondo il sondaggio citato, l’8% dei britannici è incline a collegare la diffusione del Covid-19 con la tecnologia 5G. Una cosa che, come avrebbe detto mia madre buon’anima, non sta né in cielo né in terra: ma incontra qualche accoglienza presso un’opinione pubblica frustrata, irritata, impaurita. 

 

 

Certo, per male che vada, non avremo tentativi di linciaggio contro qualche innocente malcapitato, come poteva avvenire a Milano nell’estate del 1630. Potremmo avere però un altro fenomeno. Quello che potrebbe affiorare, nei mesi o negli anni della lenta e difficile ripresa, sarà un rinnovato e indiscriminato discredito nei confronti delle autorità, delle istituzioni, degli esperti: sopito ora, nell’emergenza sanitaria più drammatica, ma pronto a galvanizzarsi non appena i disagi materiali torneranno a pesare più dell’ansia per la propria incolumità. Ad alimentarlo, il contagioso virus della dietrologia, contro cui non esiste vaccino, se per vaccino s’intende una misura che immunizzi in maniera piena e definitiva. Non mi riferisco, sia chiaro, alle critiche – anche dure – fondate sui dati e sui numeri: sarà giusto e doveroso e necessario valutare con attenzione le decisioni che saranno state prese, e, a chi di dovere, chiederne conto. Mi riferisco invece al nebuloso livore su cui fanno leva la demagogia, la propaganda tendenziosa e opportunistica, la politica che – come s’usa dire – parla solo alla pancia del Paese. Ora, i deliri complottistici possono essere non dirò debellati (a tanto, mai s’arriverà), ma arginati e contrastati con efficacia solo attraverso l’esercizio di una pacata razionalità. Ma la ragione, la riflessione, il calcolo, richiedono condizioni concrete non troppo sfavorevoli. Non è a un disperato che si può chiedere di essere lucido. Se paura o rabbia dilagano, anche in forma sotterranea, il raziocinio non ha scampo. Prevale l’istinto: e l’istinto non tollera analisi, non legge statistiche. Vuole colpevoli, qui e ora. 

 

Il Manzoni parlava di «passioni». Soggiacere alle passioni significa deporre la preziosa risorsa del buon senso e piegarsi al senso comune, seguendo impulsi irriflessi. Un buon livello di istruzione, per quanto utile ed auspicabile, non rappresenta di per sé una garanzia sicura; così come non lo è appartenere a una formazione di civiltà che molto ha insistito, molto ha investito sulla razionalità delle organizzazioni e dei comportamenti. Se il Seicento poteva apparire un secolo oscuro rispetto al tempo attuale, non erano però «uomini del Seicento» i giudici milanesi dell’infame processo agli untori: erano «uomini della passione», che infrangevano le stesse leggi della loro epoca (leggi inaccettabili alla coscienza moderna, certo: ma questo è un altro discorso). Del resto, secondo il Manzoni, «delirî» non dissimili si erano verificati pochi decenni addietro, nella civilissima Francia, durante la Rivoluzione. 

Lo abbiamo letto, lo abbiamo pensato tutti fin dall’inizio di questa storia. La pandemia di Covid-19 ha due facce: quella clinica, per la quale si può sperare che venga trovato un rimedio in tempi non lunghissimi, e quella sociale, molto più insidiosa e subdola, che rischia di minare alla base i sistemi democratici. L’insegnamento della storia, da questo punto di vista, è chiaro: un’opinione pubblica snervata, esasperata, spaventata dal futuro, è facile preda di autoritarismi.  

 

Ancora una riflessione sugli Stati Uniti (sarà l’ultima). Non sono pochi gli aspetti per i quali la società americana presenta, agli occhi di un europeo, sconcertanti sacche di arretratezza. La persistenza in molti Stati della pena capitale, l’assurda diffusione delle armi fra i privati e l’incapacità di regolamentarla, la forte presenza del fondamentalismo religioso, la mancanza di un sistema sanitario pubblico, la censura contro le teorie darwiniane vigente in molti ordinamenti scolastici: per inciso, a Petersburg, nel Kentucky – ma a mezz’ora di macchina da Cincinnati, Ohio – sorge un Museo della Creazione (Creation Museum) che occupa una superficie di 7000 metri quadri. E oggi, in tempi di pandemia, può accadere che l’inquilino della Casa Bianca esterni madornali sciocchezze su possibili rimedi alla malattia, tanto da costringere perfino una rete reazionaria come Fox News a smentirlo. Infine, la storia di Maatje Benassi, impiegata civile dell’esercito residente in Virginia perseguitata dalle accuse di aver diffuso il coronavirus, assomiglia davvero a una riedizione del delirio secentesco delle unzioni. Un tale George Webb, cospirazionista militante e youtuber privo di scrupoli, che può vantare quasi 100.000 followers, ha lanciato un video che è l’esatto equivalente del grido «Dàgli all’untore!».

 

Da allora Maatje e il marito Matt sono entrati in un incubo. L’inchiesta del giornalista della Cnn Donie O’Sullivan è sconcertante. 

Se nulla del genere è accaduto nel nostro Paese non è un caso. E tuttavia non c’è dubbio che dall’esito delle elezioni presidenziali di novembre dipenderà molto anche del destino della democrazia in Europa. Non occorre spendere molte parole per spiegare perché: è una questione di rapporti di forza. Il più bel saggio di Calvino sul Manzoni è intitolato «I promessi sposi»: il romanzo dei rapporti di forza. Appunto. 

Concludo. Se la pandemia provocata dal nuovo coronavirus continua ad essere preoccupante, non lo sono meno i focolai infodemici, che tanti utenti dei social media di sicuro continueranno a fomentare. Improbabile è ormai che scoppi un’epidemia di panico, come nella Lombardia dei Promessi sposi. Forte è invece il pericolo che nella società italiana, dove una sorda e astiosa diffidenza contro le istituzioni e contro «gli altri» ha, specie dopo la crisi del 2008, carattere endemico, conosca accensioni di virulenza. Da sempre l’Italia soffre di una mancanza di «capitale sociale». Sapremo nei prossimi mesi se il Covid-19 sarà riuscito – astuzia della biologia? – a incrementarlo, o se lo avrà ulteriormente eroso. 

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