Eleonora Duse, il mito

21 Aprile 2024

Ammirata da Chaplin, da un riformatore del teatro come Gordon Craig e da molti altri intellettuali e artisti, amata da Arrigo Boito e da Gabriele d’Annunzio, celebrata come “la Divina”, Eleonora Duse, la Duse, morì 100 anni fa a Pittsburgh, negli Stati Uniti, il 21 aprile. Lontano dall’Italia, dove il suo teatro in fondo non aveva mai trovato lo spazio per affermarsi totalmente. Subito il suo corpo fu prelevato dal regime, dal fascismo, che dopo averla trascurata in vita le tributò funerali faraonici, trasportandone la salma per mare e poi da Napoli a Asolo, con una cerimonia funebre a Roma a Santa Maria degli Angeli.

Ma quella donna fragile, tormentata, nata nel 1858 in una famiglia di guitti itineranti, di “scavalcamontagne” come li si chiamava, forse in una locanda o in vagone di terza classe, non particolarmente imponente e neppure eccezionalmente attraente, aveva conquistato le platee di tutto il mondo con uno stile particolarissimo. E il suo mito ha continuato ad agire negli anni successivi alla morte. Le sono stati dedicati moltissimi studi oltre a libri di ricordi e di aneddoti. Uno storico avvertito come Antonio Attisani nel volume L’invenzione del teatro la accosta a Carmelo Bene, a disegnare, ai due corni del novecento, un teatro assolutamente di poesia. Sulla scena le sono stati dedicati tributi come quello di Leo de Berardinis, che ne indossò gesti e carisma nel suo personaggio di Ilse nei Giganti della montagna di Pirandello (1993), riprendendo pose e atteggiamenti desunti dalle immagini della Città morta di d’Annunzio, interpretata dalla Divina agli inizi del secolo scorso. E altri artisti e soprattutto artiste si sono confrontati con la sua aura, come per esempio Elena Bucci delle Belle Bandiere, in vari spettacoli, tra i quali Non sentire il male del 2000, ripreso di recente per l’Istituto di cultura italiana di Parigi.

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Il funerale di Eleonora Duse ad Asolo.

“Non vedevi il volto: non c’erano sussulti delle spalle. Se ne stava in silenzio, quasi senza muoversi. Solo una volta attraverso il corpo le scorse un brivido di dolore, come un parossismo. Gli unici movimenti visibili furono questo e l’istintivo ritrarsi della mano tesa del figlio […]. Confesso che mi ha strappato le lacrime […]. Quando si è girata, alla fine, con tutte e due le mani tese in un unico gesto di assoluta disperazione, rassegnazione, resa, è stata la cosa migliore che io abbia visto su un palcoscenico”. Lo scrive Charlie Chaplin sul “Los Angeles Daily Times”, due mesi prima della morte, dopo averla ammirata nella Porta chiusa di Marco Praga. “È una donna vecchissima – dice – ma ha in sé qualcosa di un bambino patito”. Cito a mia volta dal libro più completo uscito sulla Duse di recente e disponibile in libreria, Eleonora Duse. Storia e immagini di una rivoluzione teatrale di Mirella Schino, valente studiosa e docente di Discipline dello spettacolo a Roma Tre. Sarà questo volume, che ne traccia la vicenda biografica, artistica e di capocomica, la guida del mio ricordo.

Schino, già in precedenti lavori, aveva identificato l’arte della Duse con la capacità di costruire un “secondo dramma” sotto e a fianco, dentro e in profondità del copione portato in scena. La sua era qualcosa di più di un’interpretazione: era una ricreazione, spesso ‘in levare’, basata su micromovimenti, oppure incentrata su sbalzi, salti, rotture che sorprendevano lo spettatore e lo trascinavano, emozionalmente, non nella pièce ma in un tempo vivo, in un presente assoluto, in una epifania possiamo dire, in cui arte e vita coincidono. Precipitava in una vita più reale, tenendosi lontana dal verismo e dal naturalismo, andando verso qualche radice profonda, facendo balenare una nuda, spesso detonante, verità umana, quasi una rivelazione di un’essenza, simile a quella di cui parlava Platone.

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Come arriva a questi risultati l’attrice nata tra guitti, che si accontentavano di recitare in luoghi marginali, lontani dai grandi centri?

Schino ne ripercorre la carriera, dal ruolo di Cosetta dei Miserabili di Hugo interpretato a quattro anni con i genitori, alla Giulietta di Shakespeare, dove inventa tutta un’azione con le rose e i loro petali, fino al ruolo di seconda donna nella compagnia di Giacinta Pezzana e poi, a Napoli, a quello di prima attrice. Narra del primo figlio, morto poco dopo la nascita, del matrimonio con l’attore Tebaldo Checchi, della figlia Enrichetta, della separazione dal marito. Ma soprattutto ne ripercorre la carriera, come capocomica e come attrice artista, creatrice.

Viene dalla polvere del palcoscenico, la Duse, e la sua sarà una lotta per acquistare autonomia, all’interno di un sistema teatrale molto differente dal nostro, dove non esistevano sussidi pubblici, dove il pubblico bisognava conquistarlo e le compagnie amministrarle sagacemente per sopravvivere e per vivere meglio. Diventata capocomica, il suo repertorio è quello tradizionale dell’epoca, con drammoni sentimentali tipo La signora delle camelie di Dumas o le opere di Sardou e commedie come La locandiera o Gli innamorati di Goldoni. Lei ci mette qualcosa di più, un trasporto che conquista. La sua Margherita Gautier sotto l’aspetto della navigata mantenuta del demi-monde conserva qualcosa di una fragile ruvidezza contadina. Il pubblico la Duse lo soggioga con una recitazione inventiva, mai prevedibile; concedendosi totalmente e sottraendosi, facendo slittare repliche, rifiutando scritture non convenienti, abbandonando l’Italia per frequenti e più remunerative tournée internazionali, nelle quali furoreggia e si conquista una grande fama. 

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La Duse come Margherita Gautier.

Nella parte centrale della carriera si lega sentimentalmente a due poeti che, in parte, ne determinano alcune scelte. Con Arrigo Boito tenta un testo ‘difficile’ di Shakespeare, Antonio e Cleopatra, con uno scontro con l’amato su come ridurlo per la scena. Di d’Annunzio interpreta quattro opere, Sogno di una mattina di primavera, La Gioconda, La città morta, Francesca da Rimini. Intorno alla Figlia di Iorio avviene la rottura. Gordon Craig poco tempo dopo le indirizza una lettera. La cito, come la riporta Schino: “Riprende un’affermazione attribuita all’attrice […]: per essere salvato, il teatro deve essere distrutto e tutti gli attori e le attrici devono morire di peste. […] Il teatro deve essere distrutto. Ma sono soprattutto i poeti che devono essere buttati fuori. Sono loro quelli che avvelenano l’aria, sono loro che rendono ‘la nostra arte’ impossibile”. Craig, uno dei propugnatori della regia, di un teatro creato sul palcoscenico, con mezzi ‘teatrali’, vede in lei un’innovatrice, capace di cambiare quel carrozzone ormai polveroso che è il vecchio teatro delle compagnie e di dare di più dell’interpretazione di belle parole poetiche. Capisce che a lei le parole non bastano: delle storie aveva bisogno, per riempirle di umanità con la sua arte.

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Una scena della Città morta.

Innovatrice? Legata ai movimenti che tra fine ottocento e inizi del novecento propugnano una nuova arte della scena? Per l’idea che possiamo farcene dalle testimonianze che la riguardano, dalle foto, per lo più in posa in studio (molto bello è l’apparato del libro di Schino, che riprende i documenti conservati nell’archivio della Fondazione Cini a Venezia), e anche dal suo unico film muto, Cenere, del 1916, la Duse vive due nature: quella dell’attrice nata e formatasi nel vecchio sistema, che solo quello conosce, e quella di uno spirito avventuroso, che vive il teatro come una ricerca continua, in territori inesplorati della psiche. Scrive Schino: “lei trasforma radicalmente il teatro, solo in altri modi e con altri mezzi [dai movimenti dei riformatori e dei registi], e non solo per il suo stile d’attrice, ne cambia l’uso. Dietro le parole commosse, perfino stravaganti con cui si parla di lei c’è un nuovo senso dello spettacolo, che con lei non è più divertimento, emozione, passione. Non è neppure arte o cultura, è frattura, o vertigine. È una grande esperienza esistenziale: contemplazione dell’anima, per usare le parole a cui sono ricorsi i suoi contemporanei. Il teatro, il suo teatro, era un paradosso vivente, era una meravigliosa opera d’arte da contemplare, e insieme uno strumento attraverso cui guardare la realtà, per vedere, finalmente, qualcosa dietro le apparenze. Permetteva a chi la contemplava in scena di cambiare, come aveva notato, esplicito fino a un’apparente ingenuità, il giovane Alfred Kerr ammirando la sua Signora delle camelie”. Aggiungiamo: quando Alfredo buttava su Margherita i denari vinti al gioco, gridando che così le ripaga quello che lei aveva speso per lui (sottolineando sciaguratamente quella che crede la natura ‘mercenaria’ del suo amore), la Duse modulava con un senso crescente di disperazione, prima come un flebile sospiro, poi sempre più incalzante e sconsolata, il nome “Alfredo”.

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Una scena di Cenere.

Nel 1909, a poco più di cinquant’anni, la Divina si ritira dal teatro. Non ha mai truccato il volto o tinto i capelli in scena: i segni dell’età non le consentono di interpretare più i personaggi del suo repertorio. O forse è stanca della fatica di uno snervante muoversi, in Italia, in Europa, tra i continenti. Starà lontano dalle scene fino al 1921, attraversando tutti i terribili anni di guerra. Ma non sta ferma. Scrive, lettere, pensieri, mai un’autobiografia: ma la sua scrittura sembra riprodurre quella vitalità che l’aveva fatta ammirare come attrice, franta com’è, nervosa, figlia di un nuovo secolo ma tanto più avanti dei poeticismi o dei barocchismi di tanti scrittori laureati coevi.

Nel 1914 tenta l’apertura di una casa delle attrici a Roma: luogo di incontro, di letture, ma anche di residenza, che avrà breve vita. Poi nel 1915, con la società Ambrosio di Torino, si lancia nell’impresa del film Cenere, dal romanzo di Grazia Deledda. E qui possiamo apprezzare innanzitutto il suo lavoro sull’originale: lo cambia, lo muta, lo adegua al linguaggio cinematografico e alla propria arte, fatta sempre più di apparizioni e di sottrazioni, di un perdersi nell’ombra e un riapparire alla luce per dettagli. La Duse che vediamo sullo schermo è anziana, con i capelli bianchi rilucenti, col volto di una donna indurita dagli stenti, dai rifiuti e dalle sofferenze. E l’azione è tutta concentrata sul rapporto tra la madre e il figlio illegittimo abbandonato da piccolo, senza oleografie d’ambiente sardo. Il film sarà un insuccesso, che troncherà i progetti di continuare a sperimentare nella nuova arte.

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La scena della morte della Duse in Cenere, ispirata al miracolo del fanciullo di Sessa nella Basilica Inferiore di S. Francesco ad Assisi.

Alcuni rovesci economici e l’impossibilità di stare senza quello che chiamava il Lavoro, con la elle maiuscola (e ci leggiamo l’ansia e la fatica di creare), la portano a ritornare sui palcoscenici, negli anni difficili degli scontri sociali e politici del primo dopoguerra. Il nuovo debutto avviene a Torino nel 1921 con La donna del mare di Ibsen, autore amato di cui aveva già portato in giro testi cruciali come Casa di bambola. In quella breve intensa stagione, come ospite della compagnia di un attore suo coetaneo ma rispetto a lei di stile molto più sorpassato, Ermete Zacconi, trova lo sguardo di un giovane intellettuale prestato alle cronache teatrali, Piero Gobetti. Egli come pochi altri la esalta e ne elegge la presenza scenica a esperienza religiosa, mistica. Scrive Gobetti, liberale, vari pezzi per “L’Ordine Nuovo”, il giornale comunista fondato da Antonio Gramsci, che poi risistema in un testo più meditato, La frusta teatrale, con il titolo preso in prestito dalla caustica Frusta letteraria di Giuseppe Baretti. Scrive Gobetti nel quinto capitolo della Frusta, Confidenze con l’ignoto: “Contro il positivismo che, sulla bilancia delle scoperte fisiologiche dei medici lombrosiani, alla luce delle leggi di ereditarietà riduceva l’opera d’arte in termini di trattato di psicopatologia, s’affermava violentemente l’individualità inesorabile ed istintiva della sensibilità. Questo librare di libere impressioni non si presenta come effetto di analisi o di maturità riflessiva. Anzi si direbbe che in ogni attimo della vita voglia realizzarsi istintivamente tutta la vita, con la gioia della dedizione, quasi l’artista rinunci a risparmiarsi in un meditato sviluppo e abbia tutta la sua personalità, già nel più esile momento di noviziato e di transizione”. 

A Zacconi che indulge in effettacci ‘lombrosiani’, il giovanissimo, acuto scrittore, che sarà massacrato dai fascisti, contrappone proprio lei, la Divina: “Pochi hanno saputo ritrovare come Eleonora Duse l’incanto e il tormento di questa sensibilità esasperata. Nella quale assistiamo un po’ stupefatti al miracolo di una profondità, in cui è immanente un vero e proprio fattore mistico, che si rivela (si rivela; non si esprime, che è un concetto critico moderno) con l’ansia e l’ingenuità del primitivo, nella purezza, senza storia e senza riflessione, della sensibilità libera da tutti gli intellettualismi”. 

Eleonora Duse, dirà nel resoconto di un’intervista, crede nella potenza educativa del teatro, crede “in un chiaro concetto di unità ideale in cui arte, moralità, verità rientrano in un rapporto sacro”; vorrebbe che gli artisti non smettessero di ricercare; crede nei nuovi drammaturghi, in Pirandello in particolare; ha in mente il progetto di aprire un teatrino suo (progetto che fallirà, perché insostenibile economicamente in un sistema non finanziato, ndr). Ma soprattutto (ritorno alla Frusta): “Ella non conosce leggi ferme, non interpreta, ma dice vibrazioni sue ed opera per esse: non è un’attrice di presupposte individuazioni, non rappresenta opere di teatralità; non è un’artista ma uno spirito religioso”. È insomma un “fatto specificamente singolare”.

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L’ultima Duse, in una foto di Genthe del 1923.

Ecco disegnato il mito dell’attrice artista, dell’attrice spirituale, e del teatro come superamento del puro intrattenimento, quel novecentesco, tardo novecentesco e ancora attuale spirito che tenta di superare la rappresentazione nel dire qualcosa di profondo, di assolutamente umano, facendo della finzione scandaglio di verità. In questo la nuova biografia di Schino è una guida sicura, mentre più laterale appare un volume uscito più di recente, che raccoglie varie novelle dell’epoca dell’attrice. Pubblicato da Bibliotheka dannunziana, Primadonna di Maria Pia Pagani con il sottotitolo mette alquanto fuori strada. Non si tratta, infatti, di Novelle per Eleonora Duse: molti dei testi raccolti, firmati da autori che vanno dal Duca Minimo (d’Annunzio) a Haydée, passando per Panzacchi, Panzini, Ojetti, Bracco, Gozzano, Moretti e molti altri e altre, sono racconti in cui l’attrice viene evocata molto alla lontana. Parla di più di lei la curatrice nell’introduzione, citando dal Fuoco, romanzo del 1900 del Vate che la vede presente sotto tre nomi, Perdita, Foscarina e Fosca. Le novelle raccolte, se pure danno un’idea dei tempi e della società in cui Eleonora Duse visse, poco ci dicono, o solo lateralmente, di lei e della sua arte.

Letture 

Antonio Attisani, L’invenzione del teatro, Bulzoni 2003 e ora Cue Press 2024.
Mirella Schino, Eleonora Duse. Storia e immagini di una rivoluzione teatrale, Carocci 2023.
Piero Gobetti, Scritti di critica teatrale, Einaudi 1974.
Maria Pia Pagani, Primadonna. Novelle per Eleonora Duse, Bibliotheka dannunziana 2024. 

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