Teatro delle Albe: Pantani

14 Novembre 2012

Sono tre ore e mezza di passione e intelligenza con il ritmo stringente del buon giornalismo e il respiro epico del grande teatro. È uno spettacolo che sale fino alle vette del trionfo sui tornanti delle montagne più irte con gli scatti brucianti e le fughe solitarie di Marco Pantani e poi precipita, seguendo il Pirata, nelle cadute che ne segnarono la meravigliosa, turbinosa, sventurata carriera, dalle montagne di Coppi e Bartali fin verso il mare di una Romagna antica. Attraversa il sogno e l’amicizia, naufraga nella rovina della terribile sospensione dal Giro d’Italia del 1999 per ematocrito alto, fino al precipizio degli ultimi anni e alla morte drammatica. Debutta venerdì 16 novembre il Pantani del Teatro delle Albe, più di cento pagine di testo scritto da Marco Martinelli partendo dal libro del giornalista francese Philippe Brunel, Gli ultimi giorni di Marco Pantani (Rizzoli), un viaggio nel mito del campione e nella sua distruzione, in quell’Italia “impantanata”, mediatica degli anni ‘80-’90, che vede emergere Berlusconi e rinverdirsi l’ideologia del successo facile.

 

Ha il respiro dell’inchiesta, con il personaggio dell’Inquieto, un giornalista controfigura di Brunel, interpretato dall’attore belga Francesco Mormino (lo spettacolo è coprodotto da Le manège di Mons), che pone domande senza risposta su una “caduta degli dei” troppo comoda per il sistema dello sport. Ha l’aura della tragedia, nel dolore nel personaggio della madre di Pantani, Tonina, affidata a Ermanna Montanari in abito rosso passione, rosso furore, e quella della ricostruzione della memoria, grazie al personaggio del padre Paolo, un altro dei “vecchi” della Albe, il roccioso Luigi Dadina. Al loro fianco Alessandro Argnani, Francesco Catacchio, Fagio, Roberto Magnani, Michela Marangoni e Laura Redaelli incarnano altri personaggi della vicenda, mentre da uno schermo, disegnato come tutto lo spazio scenico da Alessandro Panzavolta di Orthographe, irrompono foto e video di repertorio, e la storia viene punteggiata da cori epici – della pianura e del monte, della salita, dell’Italia, del gregario, degli amici… – e da emozionanti canti popolari a cappella, con il contrappunto della voce dolente, pietosa, beffarda della fisarmonica di Simone Zanchini.

 

Pantani si può vedere fino al 2 dicembre al teatro Rasi di Ravenna (lunedì e giovedì riposo, info 0544/30227, Teatro delle Albe.)



 

Martinelli, cosa ti ha colpito della vicenda di Pantani?

Il fatto che è al tempo stesso la storia di un individuo, di una persona che muore tragicamente, e di un grande atleta che diventa una vittima sacrificale. Nella sua morte siamo implicati tutti noi. È il mito del campione che arriva in cima alla montagna e da là lo scaraventano giù. È un mito arcaico, con tutti i crismi per rivivere della nostra società mediatica.

 

 

Ma è anche una storia molto romagnola…

Sta con le radici ben piantate in una Romagna antica, anarchica, che sembra sommersa da discoteche e stabilimenti balneari e che invece permane come un masso reagente. Tutti questi diversi elementi sono come i raggi di una ruota che hanno iniziato a farmi girare la storia in testa.

 

 

Nella tua visione, Pantani non è un dopato ma un eroe. Senza tentennamenti.

Sicuramente è un eroe tragico dello sport. Lui, prima di quel 5 giugno 1999 in cui fu incastrato con un dubbio esame che rivelò l’ematocrito alto, aveva riportato il ciclismo all’epica di Coppi e Bartali. Era imprevedibile. Inventava la corsa, senza calcoli da ragioniere. Era un artista: fin da piccolino la bicicletta era il suo violino. Sposava la cura maniacale dei dettagli tecnici all’estro. Avversari e cronisti non sapevano mai cosa poteva inventare.

 

 

Hai consultato altre fonti oltre il libro di Brunel?

Ho letto tantissimo per due anni, e poi sono andato a cercare i testimoni: Pino Roncucci, quello che lo portò nella prima squadra come dilettante, i compagni della Mercatone Uno, la sorella Manola, i genitori, e poi Elisa, la ragazza che gli fu vicino negli ultimi terribili mesi, dandogli una speranza in quell’inferno finale fatto di droga e prostituzione, a cui nello spettacolo abbiamo appena accennato, con pudore. Ritornano tutti in scena, interpretati dai nostri attori o in interviste video, che vanno a rintracciare anche altre figure importanti della sua vita, come Luciano Pezzi, un altro vecchio romagnolo, che gli costruì intorno la squadra della Mercatone Uno. Come appaiono o vengono ricordati altri personaggi, dal nonno Sotero che gli instillò la passione per la bicicletta, ai responsabili del prelievo di Madonna di Campiglio, il ministro Gasparri o il bandito Vallanzasca, che in carcere seppe che le scommesse davano perdente Pantani in quel giro del 1999 che stava dominando. Da questo mosaico emerge se non la figura di un eroe o di un rivoluzionario certamente quella di un ribelle: gli sarebbe bastato un po’ più di senso politico e forse sarebbe uscito da quella storia in tutt’altra maniera.

 

 

La sua esclusione dal Giro per ematocrito alto fu una congiura?

Proviamo a spiegarlo, seguendo Brunel, all’inizio del secondo atto. Il Coni era stato travolto da scandali. All’Acqua Acetosa erano stati trovati campioni organici di calciatori per l’antidoping mai esaminati. Il sistema cercava di preservare gli sport con grandi giri di affari, il calcio, la Formula uno, il tennis. Il ciclismo era l’anello debole, e venne colpito. I controlli diventarono ossessivi, con lo slogan “Io non rischio la salute”. I blitz continui e spettacolari.

 

 

Pantani fu un capro espiatorio?

Avevano provato a rendere obbligatori ulteriori esami antidoping nel calcio, e la risposta di quell’altra federazione era stata no. Pantani si era messo alla testa della protesta dei ciclisti, che si consideravano tartassati dal Coni, dalla federazione nazionale e da quella internazionale, sforacchiati in continuazione. E qualcuno gliel’aveva giurata. L’esame del 5 giugno e le accuse successive Brunel le smonta con argomenti credibili, dimostrando che sono una farsa. Pantani era il più grande, e si era esposto troppo, con il suo carattere impetuoso, da Zorro, come appare mascherato in una foto di quando era piccolo. Lui pensava: o ci salviamo tutti o non si salva nessuno.

 

 

Pensi che il doping non sia un problema del ciclismo?

Già Coppi diceva che il ciclismo moderno ha bisogno della scienza. Il problema è che tutti in questa società ci dopiamo, con i farmaci, dai vecchi di potere che usano il viagra a chi va avanti con tranquillanti, eccitanti, antidepressivi… Non si possono fare 200 chilometri al giorno con l’acqua minerale. Il problema, senza moralismi, è avere regole certe, uguali per tutti e per tutti gli sport”.

 

Foto di Fagio.

 

Una domanda a Ermanna Montanari, che in questa avventura si è buttata in parallelo con Poco lontano da qui, lo spettacolo realizzato con Chiara Guidi. Come è la tua Tonina?

Siamo andati a parlarle varie volte. Ho visto molti filmati su YouTube. Ho tenuto quell’invettiva che pronuncia dopo il funerale contro i giornalisti, contro il sistema dei media: “Andate via, andate via”, grida. Quell’attacco mi fa sobbalzare il cuore. Ho un importante rapporto con un fiore per me totemico, che torna in vari spettacoli, una calla bianca, segno della sparizione, come il non-colore bianco. Rappresenta anche una piccola luce in tanto buio. E indosso un abito rosso, sanguigno, amoroso, che contrasta con il biancore interno, con gli svenimenti intimi in cui lei si trova sospesa. In scena non guarda mai i video, non vuole vedere: lo spegne, lo schermo. Non vuole guardare il figlio tra i carabinieri...

 

Foto di Fagio.

 

Hai imitato la vera Tonina?

Dopo averla conosciuta, ci ho pensato. Ero affascinata dalla sua figura bella, rotonda, dal volto aperto con gli zigomi alti. Ho pensato di mettermi una parrucca bionda. Mi sarebbe piaciuto trasformarmi in lei, anche per eliminare l’icona Ermanna Montanari. Poi ho deciso di rimanere me stessa. Ho provato a prenderne il respiro, quello di una donna a cui hanno ammazzato un figlio. Ad assumerne la tragicità molto quotidiana. Di un quotidiano dell’anima.

 

 

Massimo Marino - @minimoterrestre

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