Blade Runner 2049 / Gli occhi del capitale

14 Ottobre 2017

In occasione dell’uscita del film Blade Runner 2049, diretto da Denis Villeneuve, Vanni Codeluppi ha curato per l’editore FrancoAngeli il volume Blade Runner Reloaded, che contiene scritti di David Harvey, Antonio Caronia, Simone Arcagni, Mauro Ferraresi e altri. Doppiozero presenta in esclusiva l’introduzione del volume.

 

Il successo di Blade Runner è probabilmente dovuto all’estrema cura formale con la quale questo film è stato realizzato, ma anche al fascino di un’atmosfera in sintonia con un gusto estetico tipicamente postmoderno, con architetture, arredi, oggetti e segni che intrecciano in grande libertà epoche e stili espressivi differenti. Va considerato inoltre che Blade Runner non conteneva una rappresentazione realistica della città di Los Angeles, cioè, come è stato spiegato da Mike Davis, «la grande pianura senza soluzione di continuità fatta di bungalow in decadimento, e di bassi villini stile ranch» (Agonia di Los Angeles, pp. 43-44), ma, se pensiamo che Los Angeles rappresenta nel nostro immaginario la città della finzione per eccellenza (grazie soprattutto alla presenza di Hollywood e Disneyland), appare evidente che per questo film non poteva essere rintracciata un’ambientazione urbana più adeguata. Si spiega così perché Blade Runner abbia dato vita con grande successo al modello per eccellenza della metropoli postmoderna. Una metropoli dispersa sul territorio e priva di una storia, proprio come Los Angeles.

L’elevato interesse suscitato da Blade Runner deriva però soprattutto dal fatto che, come ha sottolineato David Harvey nel volume La crisi della modernità, al centro delle vicende raccontate dal film ci sono dei replicanti, ovvero degli esseri umani che vivono solo quattro anni ma in una maniera particolarmente intensa: «I replicanti esistono, insomma, in quella schizofrenica accelerazione del tempo che Jameson, Deleuze, Guattari e altri considerano fondamentale nella vita postmoderna.

 

 

Ed essi si muovono attraverso lo spazio con una fluidità che permette loro di acquistare un’immensa quantità di esperienza. Sotto molti aspetti questi personaggi corrispondono al tempo e allo spazio delle comunicazioni mondiali istantanee» (p. 377). I replicanti corrispondono cioè a quella compressione spazio-temporale che caratterizza l’odierna fase avanzata di evoluzione del capitalismo, dove la tecnica è andata sempre più ad imporsi sulla soggettività individuale. E dove il capitale si è fatto globale ed è pertanto diventato indifferente alle esigenze specifiche delle comunità e dei territori. Non a caso, i replicanti nel film in questione vengono costruiti mediante dei processi produttivi che sono tipicamente “postfordisti”, cioè basati sull’esternalizzazione e sulla divisione dei processi lavorativi tra diversi specialisti e differenti luoghi. I sofisticati occhi tecnologici dei replicanti, ad esempio, sono prodotti nello scantinato di un emigrato di origine orientale, dove sembra scarseggiare l’igiene. In un luogo, dunque, simile a quelli nei quali di solito nascono i prodotti tecnologicamente avanzati delle odierne marche globali.

 

A rendere però Blade Runner particolarmente sintonico con l’attuale fase evolutiva del capitalismo è soprattutto la rappresentazione buia e cupa che tale film fornisce della vita urbana. La metropoli del futuro vi viene infatti dipinta come un luogo estremamente pericoloso, un incubo inquietante che richiama l’atmosfera tipica di molti film noir del passato e in cui si può soltanto sperare di riuscire a sopravvivere. Manca dunque in Blade Runner la fiducia in un modello sociale positivo. Gli individui sono costretti a restare chiusi dentro la società in cui si trovano, la quale sta vivendo una situazione di profonda crisi, senza più una dinamica temporale in grado di connettere il presente con il passato e il futuro.

 

E anche qui, come nel film Alien anch’esso diretto nel 1979 dal regista Ridley Scott, il pericolo si nasconde nell’altro, si nasconde cioè nello straniero o nel diverso. Ma l’altro adesso è esattamente uguale a noi, è un replicante che ci assomiglia in tutto e per tutto. Non ci si può dunque più fidare dei propri simili. Anzi, sono questi i soggetti maggiormente pericolosi, perché sono indistinguibili da noi. Tutto ciò risulta ancora più evidente nella versione del film che è stata rimontata da Scott nel 1992, e cioè il Director’s Cut, nella quale il protagonista del film, il cacciatore di replicanti Rick Deckard interpretato da Harrison Ford, viene considerato a sua volta come un replicante. Pertanto, non è più possibile definire con precisione chi è l’Altro – il nemico da combattere – e ciò rende impossibile esercitare un qualche controllo su di lui. Ne deriva una condizione di vita in cui il pericolo può nascondersi ovunque e si presenta pertanto come una minaccia generalizzata alla quale è difficile fare fronte.

 

Insomma, il film Blade Runner ha lucidamente registrato che aveva cominciato a disgregarsi quel tessuto sociale comune che aveva contraddistinto le società occidentali durante l’epoca d’intensa industrializzazione che si era sviluppata a partire dagli anni Cinquanta. Ciò spiega perché, al posto di quella che il filosofo Byung-Chul Han ha felicemente denominato nel volume La società della stanchezza «epoca immunologica», caratterizzata da una netta distinzione tra l’interno e l’esterno, tra il proprio e l’estraneo, negli ultimi anni sia emersa una fase sociale dove l’Altro diventa estremamente difficoltoso da identificare. Una fase sociale cioè nella quale «al posto dell’alterità abbiamo la differenza, che non provoca alcuna reazione immunitaria» (p. 10). L’estraneo lascia così il posto all’esotico, che non pone problemi e può pertanto essere affrontato con estrema facilità. Anche perché il processo di globalizzazione ha bisogno che le barriere vengano abbattute, ma anche, nel medesimo tempo, che il flusso delle relazioni sociali ed economiche non venga ostacolato.

 

Blade Runner ha mostrato perciò con chiarezza all’epoca che la ragione umana aveva cominciato a essere diventata impotente nei confronti dell’Altro. Ciò che questo film ha soprattutto evidenziato è la crisi del soggetto occidentale e della sua possibilità d’interpretare il mondo e plasmarlo secondo la sua volontà. In precedenza, infatti, l’atto di vedere dell’essere umano era considerato come un atto di conoscenza e dunque di dominio sulla realtà, ma adesso non ci si può più fidare di quello che l’occhio vede. Non a caso all’inizio di Blade Runner è presente la celebre inquadratura a tutto schermo di un occhio azzurro spalancato sul quale si riflettono i bagliori infuocati di una Los Angeles notturna e infernale. È una sorta di “occhio-specchio”, un occhio cioè che si limita a riflettere la realtà esterna, ma che non appartiene più a un soggetto dotato della capacità di agire su di essa.

 

Per questo non turba chi lo guarda. Per lo spettatore davanti al film, tale occhio non appartiene a qualcuno che lo sta vedendo, ma è uno specchio che si limita semplicemente a riflettere uno spazio urbano che egli non conosce e dal quale non viene perciò ad essere coinvolto. D’altronde, sembra che si tratti dell’occhio di uno dei tanti replicanti, i quali sono impiegati dagli esseri umani come strumenti per esplorare le zone dell’Extramondo considerate troppo rischiose. È cioè un “occhio-protesi” che consente all’umanità di vedere anche dove non può essere presente. Se la modernità è nata nel Rinascimento con l’invenzione della prospettiva, che ha consentito agli esseri umani di stabilire un punto di vista a partire dal quale potevano dominare il mondo, ora nel postmoderno tende a prevalere un’indistinzione tra l’occhio e la realtà che esso guarda, cioè tra il soggetto e l’oggetto della visione. L’occhio del replicante che viene mostrato all’inizio di Blade Runner costituisce dunque un’esplicita metafora dell’intensa crisi in atto per la soggettività umana.

 

Essendo l’occhio del replicante un occhio artificiale, la sua visione deumanizzata prefigura inoltre il predominio sociale successivo dell’immagine digitale. Cioè un’immagine di sintesi che può prescindere totalmente dall’atto di visione effettuato dall’occhio umano. Un’immagine generata da una macchina che, come succede di frequente in Blade Runner, può essere facilmente manipolata e falsificata. D’altronde, appare sempre più evidente oggi che, come è stato sostenuto da Silvio Alovisio nel volume di Bertetti e Scolari Lo sguardo degli angeli, «crescono le potenze dell’occhio, ma diminuiscono in proporzione le conoscenze effettivamente raccolte.

 

Lo spazio dell’immagine non può più dire nulla, o quasi nulla, sul mondo: è un’entità autonoma, con le sue leggi, le sue geometrie non euclidee» (p. 42). In precedenza, la fotografia era un documento, una prova che attestava la presenza del soggetto, mentre ora si conferma che il soggetto umano tende ad uscire di scena e con esso sparisce anche la sua immagine fotografica.

Un film come Blade Runner può dunque essere considerato il risultato di quella fase sociale d’intensi cambiamenti che ha caratterizzato gli anni Settanta in Occidente e che ha portato a una nuova tappa evolutiva del capitalismo: il «biocapitalismo» (Codeluppi). Certamente, infatti, nelle società occidentali si sono presentati durante il Novecento diversi periodi di forte trasformazione. Si pensi, ad esempio, agli anni Venti e Trenta oppure agli anni Cinquanta e Sessanta. Ma è probabilmente durante gli anni Settanta che sono avvenuti i mutamenti più radicali, destinati a plasmare la struttura economica e sociale del mondo occidentale contemporaneo.

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