L'autunno a Parigi

3 Gennaio 2016

Strano constatare quanto la realtà e la sua crudezza necessitino di risuonare attraverso la memoria per trovare le parole. Cerco di mettere ordine tra i pensieri di questa stagione costellata di cadaveri mentre ascolto in maniera compulsiva Sign O' the Times, una canzone di trent'anni fa che parla di AIDS e di ragazzini fatti di crack, di fucili mitragliatori e di bombe atomiche, di destino, di ingiustizia e di speranza. Questione di pochi giorni, poi come al solito va a finire con i Sangue Misto a ripetizione, come se la chiave per uscire da questo labirinto di morte e di follia stesse nascosta in qualche piega degli anni ‘90, in quei concerti improvvisati negli spazi dismessi delle borgate, nei miei viaggi in motorino verso le periferie di Roma alla scoperta di interi universi dei quali, essendo cresciuto al centro della città, non sospettavo nemmeno l'esistenza. 

 

Réamur - Sébastopol, Paris 2013

 

E dunque, di nuovo a parlare dei fatti propri? Ancora in prima fila a dire "c'ero anch'io"? Va bene, la nostra civiltà sta declinando verso un delirio di egotismo; va bene tutto, va bene così: l'era del consenso, la morte delle ideologie, lo sradicamento esistenziale,  la noia. Queste sono ormai le regole del gioco. Ma finire ammazzati per il concerto di un gruppo di hipster californiani col biglietto d'ingresso a trenta euro, uccidere e farsi uccidere nel nome di un messianismo posticcio, predicato via social network da un'accolita di bigotti mediorientali repressi, fuori di testa e riempiti di armi e soldi pur di tenere in piedi il solito vecchio Grande Gioco, no, questo è troppo. 

 

Certo, anche negli anni della mia gioventù non è che la gente fosse poi tanto più sveglia (talvolta mi domando se lo sia mai stata), ma la lezione mandata a memoria da quei tempi è che "basta cominciare da principio, come l'ABC..." e le cose, in un modo o nell'altro, prendono a filare. Al principio, secondo alcuni, ci sarebbe l'insanabile frattura che separa il centro dalla periferia e che si rifletterebbe nella differenza tra il profilo dei carnefici e quello delle vittime: la racaille contro les bobos, i dannati della terra contro la farsa dell'integrazione, i poveri contro i ricchi. Un simile approccio funziona benissimo sul piano teorico, ma mostra evidenti segni di debolezza non appena gli si pongano di fronte alcune delle forme di espressione del terrore contemporaneo che ne tratteggiano in maniera più efficace la fisionomia. 

 

Una lettura ragionata del video-testamento prodotto dal giovane terrorista che nel gennaio del 2015 prese d'assalto il supermercato Hyper Cacher di Porte de Vincennes è emblematica in questo senso. 

In quel documento raggelante il carnefice definisce sé stesso attraverso una serie di pose e di atteggiamenti che tradiscono la sua totale appartenenza alla sfera semantica della cultura dominante occidentale contro la quale egli si appresta a scatenare la sua furia omicida. I tre momenti che scandiscono la rappresentazione richiamano un immaginario che pare strutturato sui più vieti stereotipi del mainstream cinematografico e televisivo: nel primo siede a gambe incrociate e indossa una djellaba ed una kefiah alla maniera di Bin Laden nei suoi videomessaggi di quindici anni fa; nel secondo è ripreso di tre quarti, in posa plastica, con addosso un giubbotto antiproiettile camouflage che non sfigurerebbe nella dotazione del protagonista di qualche videogioco sparatutto; nel terzo, la giacca di cuoio nero e lo zuccotto di lana che indossa fanno pensare all'abbigliamento di un gangster saltato fuori da qualche ghetto movie di quart'ordine. 

 

Il pensiero corre più nella direzione del primordiale desiderio mimetico di René Girard che verso la lotta di classe e ci sarebbe quasi da ridere, se non fosse per il kalashnikov appoggiato contro il muro alle sue spalle e per la scia di morte che questo giovane banlieuesard ha lasciato dietro di sé prima di venire a sua volta ucciso dalla polizia. Forse la chiave risiede davvero nella memoria - memoria personale, s'intende, dal momento che quella collettiva risulta poco utile nell'elaborazione dell'urgenza del presente. Chissà che risalendo lungo il filo dei ricordi non mi riesca di trovare qualche nodo cui aggrapparmi per evitare di scivolare giù nel baratro dell'odio, di abbandonarmi al tiepido conforto dell'indifferenza, di farmi trascinare nella spirale senza fine della vendetta. 

 

Il primo nodo che incontro riporta a galla una fresca ventata di novità. È il concerto dei Mano Negra: la loro prima volta a Roma, la mia prima volta al Forte Prenestino, ingresso a sottoscrizione. Ho diciassette anni e buona parte delle sensazioni che mi travolgono nel corso di quella serata mi accompagneranno per il resto della vita; tra le altre cose, quella sera imparo che "centro" e "periferia" sono concetti permeabili. Trascorrono due anni e tutto cambia, ma sulla scorta di quella lezione che oramai si è fatta regola mi ritrovo ad annusare l'aria di Belleville, alla ricerca dei profumi dell'hashish e della menta che nella mia immaginazione sono l'odore di Parigi. Sarà una grande delusione, quando ci tornerò vent'anni più tardi, non ritrovarci più les arabes, che nel frattempo hanno svenduto mezzo quartiere a les chinois e sono spariti oltre l'impenetrabile muraglia del Périf. Proprio il Périf, o per meglio dire le sue porte, sono un altro nodo. La linea 3 che arriva a Porte de Bagnolet, l'ultima fermata è per i clienti. "Guarda," mi dice Fab "scendono tutti alla penultima; quelli rimasti te li ritrovi su al parchetto, scommetti?" E in effetti sono tutti lì con noi, dieci minuti dopo, in una bella fila ordinata per acquistare un po' di frappe. Mai vista una scena simile: si sa che per i parigini faire la queue è una sorta di imperativo categorico, ma mettersi in coda per comprare il fumo... 

 

Tra i palazzoni di venti piani che circondano questo mercato surreale, decine di ragazzini neri e arabi corrono su e giù per mantenere in piedi il business; gli acquirenti sono invece tutti bianchi. Un imponente graffito campeggia sul grande muro grigio del campetto da basket: "Islam c'est la paix" recita. "Staremo mica finanziando Al Qaeda?" chiedo a Fab. Le sentinelle ci disperdono, stanno arrivando les flics, ci tocca aspettare. Dall'alto della collinetta dove ci arrampichiamo per passare il tempo si apre la vista ad est: una distesa sterminata di palazzi grigi, tutti uguali, a perdita d'occhio. È la banlieue, finalmente. Rispetto alle modeste proporzioni di Parigi, in cui l'illusione ottica dei boulevards stempera a malapena la soffocante tirannia del vis-à-vis, sembra un mondo sconfinato. 

 

Nei due anni in cui ho vissuto a Parigi non ho mai visitato la banlieue, fatta eccezione per un paio di puntate a Montreuil e a Pantin per vedere dei concerti - ma lì non conta, sono zone pacificate. Solo una volta, mentre ero alla Défense per scattare qualche foto, sono sceso dalla scala sbagliata e mi sono ritrovato nelle mire di una pattuglia di poliziotti, evidentemente incuriositi dalla mia attrezzatura. "Vous faites quoi ici, monsieur?" hanno domandato, con l'aria sorpresa. "Je vais prendre quelques photos de La Défense." ho risposto. "Ici c'est pas La Défense, monsieur, c'est Nanterre. Soyez vigilant" hanno detto. Ho girato i tacchi di fronte ai pericoli dell'alterità e sono rientrato a testa bassa nella mia sicura fortezza europea. 

 

Les Orgues des Flandres, Paris 2013

 

A Parigi manca l'aria, sembra di vivere in una città a compartimenti stagni. Il movimento sinuoso e circolare degli arrondissements procede per sincopi a causa della sistematica intromissione dei boulevards che tentano di ricondurre il corpo urbano al principio ragionato della linea retta e lo dividono per settori strategici; l'imponenza dei giganteschi viali alberati appare come un esercizio di retorica della forza che richiama le stragi e le devastazioni di cui la città fu testimone nel corso del XIX secolo. L'intera pianta della Parigi haussmaniana sembra disegnata secondo criteri di ordine pubblico e il decoro un po' kitsch delle sue facciate nasconde a malapena il ricordo degli assedi, delle barricate e delle piogge di bombe incendiarie. La città è disseminata di lapidi e targhe che commemorano massacri, rastrellamenti, esecuzioni di massa: il basamento della Colonne de Juillet è una fossa comune; lungo il muro sud-est del Père Lachaise vennero fucilate centoquarantasette persone; il tragitto della Rue de Rivoli è tracciato prendendo a modello il tiro di una palla di cannone. Il clima non è migliorato: il sabato pomeriggio aux Halles, nel punto nodale della città, il centro e la periferia vengono a coincidere, ma se la periferia si mostra in tutto il suo vigore attraverso la settimanale processione dei suoi figli, il centro risponde con la muscolare esibizione di uno schieramento di poliziotti in tenuta antisommossa. 

 

Il gruppetto di ragazzi neri che stazionano lungo il lato della chiesa di Saint-Merri rivolto verso il Pompidou è un altro nodo. Trascorrono le loro giornate a sbevazzare e a farsi le canne, ascoltando la musica dai cellulari, totalmente indifferenti rispetto all'incessante flusso dei turisti che gli scivolano intorno. Alle otto della sera, giusto in tempo per l'ultima corsa della RER, abbandonano la loro terrasse improvvisata e spariscono nel nulla oltre il Périf, lasciandosi alle spalle i residui della loro vita di strada: mozziconi di sigaretta, cocci di bottiglia, odore di ganja e avanzi di street food da quattro soldi. 

Sarà stata la nostalgia di Roma o l'insopportabile sussiego parigino ad avermeli fatti sembrare come le uniche persone normali presenti in città? 

 

In questi freddi giorni di guerra ripenso a loro e alla loro allegria, e la prima cosa che mi viene in mente è che se un commando terrorista decidesse di attaccare Beaubourg dal lato sud probabilmente sarebbero i primi ad essere falciati. Eppure, per quel poco che li ho potuti conoscere attraverso l'osservazione quotidiana, sono sicuro che se tornassi oggi a Parigi li troverei al loro posto, incuranti dello stato d'assedio, troppo presi dal gusto di représenter Paname per potersi preoccupare del rischio di finire ammazzati. Ed ecco che l'ultimo nodo viene al pettine, nella forma di una vecchia storia di guerra: è un racconto che girava ai tempi del Kosovo sui ragazzi di Belgrado e sulle loro notti trascorse ad ubriacarsi sopra i tetti dei palazzi di fronte allo spettacolo terribile delle bombe della NATO che piovevano sulla loro città. Difficile non pensare alla reazione dei parigini che, all'indomani del massacro del 13 novembre, sono tornati ad affollare les terrasses dei bar e dei ristoranti sfidando lo spettro del terrore generalizzato. Da più parti si è guardato a questo atteggiamento come all'ennesima riprova dell'edonismo esasperato del nostro stile di vita che continuerebbe ad accecarci rispetto alla tragica concatenazione delle cause e degli effetti; allo stesso modo, la disperata prova di coraggio dei giovani serbi sembrava disegnare il ritratto di una generazione disillusa e rassegnata al nichilismo di fronte ad un destino in apparenza ineluttabile. 

 

Beaubourg view, 2012

 

Se c'è un tratto comune che affiora dall'accostamento di queste due storie - al di là del fatto che i carnefici, nel momento in cui si trovano a scambiarsi di ruolo con le vittime, sembrano reagire alla loro stessa maniera - è l'ostentazione della propria umana fragilità al cospetto del mortifero dilagare della guerra. Al netto di tutta l'enfasi del presente sulla debolezza dei nostri valori, forse la via per uscire da questa notte in cui i tamburi suonano sempre più forte si può trovare soltanto rovesciando i termini della questione e rivendicando in maniera netta il paradosso per il quale è la debolezza stessa a dover essere considerata un valore e che, indipendentemente dal lato della barricata dietro il quale ci si trovi schierati, esso va difeso a tutti i costi. Risalendo lungo il filo dei ricordi mi ritrovo a fissare un piccolo promemoria per l'avvenire: quando sarò a Parigi, recarmi al Père-Lachaise e cercare la tomba dove riposa Mathilde Arditti, vedova Canetti. La ragione di questo appunto in mezzo al fiume dei pensieri non nasce tanto dalla volontà di rendere omaggio a una inveterata pacifista, quanto dalla necessità di ricordare che "è bene che si affermi il diritto del più debole. Quelli che noi non riusciamo a proteggere devono poter rinfacciarci che non abbiamo fatto niente per la loro salvezza. Nel loro rimprovero è racchiusa la sfida che tramandano a noi, la divina illusione che potremmo riuscire a vincere la morte". 

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