The Grand Budapest Hotel

10 Aprile 2014

Se nel giudicare un regista avesse ancora senso appellarsi alla “coerenza autoriale” (tematica e stilistica), Wes Anderson avrebbe tutte le carte in regola per essere considerato uno dei maggiori cineasti viventi. Allo stesso modo, nel panorama del cinema mainstream contemporaneo, il regista texano è fra coloro che meno possono sottrarsi all'accusa di “fare sempre lo stesso film”. Le due constatazioni potrebbero riproporsi per l'ennesima volta di fronte a quest'ultimo The Grand Budapest Hotel (Gran Premio della giuria alla Berlinale 2014): capolavoro di coerenza espressiva per gli uni, esausta riproposizione di clichés per gli altri.

Era impensabile tuttavia che dopo un film come Moonrise Kingdom – il quale da un lato radicalizzava lo “stile-Anderson” e insieme apriva improvvisi squarci di sofferenza autentica in quel mondo bidimensionale – tutto rimanesse uguale a prima. Certo, ci sono ancora i colori pastello, la cura maniacale del dettaglio, l'ortogonalità dei movimenti di macchina: insomma, la “firma” andersoniana. Ma ormai anche i più irriducibili avversari del Nostro dovrebbero aver capito che non di vezzi si tratta, ma di elementi sostanziali del suo cinema. Allo stesso modo, rimangono le costanti narrative e tematiche, con il bildungsroman del fattorino d'albergo orfano Zero Moustafa (Toni Revolori) che trova il proprio “tutore e mentore” in Monsieur Gustave H. (Ralph Fiennes), azzimato concierge con un debole per le signore un po' avanti negli anni.

 


Ma tutti questi elementi vengono calati stavolta in una dimensione nuova: il Tempo. Meglio ancora, la Storia. Dai rassicuranti anni Sessanta degli USA “prima della rivoluzione” si passa, in The Grand Budapest Hotel, agli instabili anni Trenta dell'Europa entre-deux-guerres. Un bel salto per il regista texano, il quale, forse per tranquillizzare gli spettatori europei (e colti), si premura di porre il film dichiaratamente sotto il segno di Stefan Zweig – anche se l'immaginaria Repubblica di Zubrowka del film ha molto più in comune con la Mitteleuropa alla panna montata di Lubitsch o con la Medioka del Mickey Mouse di Floyd Gottfredson, che con il mito letterario della finis Austriae cantato da Joseph Roth, da Musil e dallo stesso Zweig.

Forse è anche a causa di questa distanza temporale (e culturale), che il film non riesce a toccare le corde profonde del precedente, “limitandosi” a orchestrare intorno alla coppia di protagonisti un intrigo che comprende un delitto eccellente, un celebre dipinto rinascimentale e una ricca eredità sulla quale in troppi vorrebbero mettere le mani. In altre parole, la trama del più classico whodunit dal sapore vagamente british (Anderson ben conosce l'iconografia di riferimento, come dimostrano la descrizione della famiglia Desgoffe und Taxis e la notevole sequenza al museo), innaffiato con abbondanti dosi di humor nero e condotto al ritmo forsennato di una slapstick comedy (l'evasione dei carcerati, l'inseguimento sugli sci).

 

The Grand Budapest Hotel

Come si diceva, è tuttavia l'irruzione della Storia nel mondo “miniaturizzato” di Anderson a costituire l'elemento di maggiore interesse del film. Dal punto di vista della narrazione, viene accentuato il ruolo della cornice (anzi, delle cornici): secondo un modello già collaudato (il libro ne I Tenenbaum, il sipario in Rushmore, il documentario oceanografico in Steve Zissou, il narratore interno in Moonrise), il regista colloca la vicenda principale nella dimensione del "già accaduto" e "già raccontato". In The Grand Budapest Hotel si passa dalla lettura di un romanzo il cui autore scopriamo subito essere defunto, alla voce dello scrittore in prima persona (Tom Wilkinson), fino alla testimonianza dell'ormai anziano Zero (F. Murray Abraham) che racconta la sua avventura di molti anni prima. Una vertiginosa mise en abîme a ritroso (2014, 1985, 1968, 1932, cui corrisponde, di volta in volta, un diverso formato d'inquadratura), che, al di là dell'evidente piacere dell'affresco storico, aumenta quel senso di ineluttabilità del cambiamento che è la vera costante di tutti i film di Anderson.

 

The Grand Budapest Hotel

Un cambiamento che passa anche per la violenza: tanto quella storica del nazifascismo (geniale, fra le altre, la scena in cui Dmitri/Adrien Brody sfascia rabbiosamente uno pseudo-Schiele, plateale allusione alla distruzione dell'entartete Kunst voluta dai nazisti) quanto quella socio-antropologica della cupidigia di denaro, incarnata dal molosso J.G. Jopling (Willem Defoe), che dissemina lungo tutto il film teste e falangi tagliate in gran quantità (insolita anche per uno come Anderson, grande fan dell'arma bianca: rasoi, coltelli a serramanico, forbici appuntite...). Una violenza, come dichiara amaro M. Gustave, cui ci si può opporre unicamente con “l'ultima debole scintilla di umanità”.


La Storia modifica, uccide, distrugge. Alla fine, quel che resta sono solo le memorie, i ricordi, le “amabili vecchie rovine”, come il Grand Budapest ormai in disarmo. Come suggerisce il cimitero posto in apertura del film, lo spettatore realizza alla fine di aver assistito ad una storia di morti che raccontano di altri morti, ambientata in un mondo già scomparso: “Il suo mondo era finito prima ancora che lui vi entrasse – chiosa l'ex fattorino Moustafa, a proposito di M. Gustave – Ma di certo lui ne sostenne l'illusione con grazia magistrale”. Che poi è quello che fa Wes Anderson con la sua Zubrowka: tentare meticolosamente di ricostruire quel mondo, reinventandolo come un fiabesco “paese dei balocchi”, tra una funicolare in miniatura e un fondale di montagne dipinte.

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