Los Angeles, dov'è nato il pop
Il libro di Claudio Castellacci Los Angeles e le radici della cultura pop (Odoya, 2024) è la lunga voce di una ideale enciclopedia dedicata a questa straordinaria città americana, già presa molto sul serio da Alberto Arbasino in Le Muse a Los Angeles (2000) dove riunì i suoi molti reportage in un campionario di immagini pop che elevava le ville di Beverly Hills, i monumenti agli architetti di moda, gli ipermercati e le altre cattedrali moderne del consumo al rango di opere d'arte sofisticate, nello stesso modo in cui siamo ormai abituati a considerare "artistico" un oggetto kitsch, se immesso in un contesto raffinato.
Arbasino censiva i musei di quell'America – col complesso d'inferiorità nei confronti della colta Europa – raccontando gli splendidi quadri e sculture disseminati tra Malibu e San Simeon, ricongiungendo il supposto contrasto tra cultura alta e bassa, al di là delle convenzioni, degli snobismi estetici, delle ricette accademiche, in una specie di nuovo manierismo scatenato, dove gli attori di Hollywood sono tutt'uno con "i Canaletti, le Madonne del Pinturicchio e le poltroncine della Pompadour" che riempivano "la magione degli Hunnington a Pasadena" in una sorta di estetica del "Compro tutto!" tra il "più sontuoso e l'assolutamente autentico".
Castellacci, che ha vissuto a Los Angeles quando era corrispondente per il Corriere della Sera, stringe l'obiettivo sulla cultura di massa di una megalopoli consumista, tra modernità e rinvii all'antichità, ricomponendo la frattura tra élite e gusto massificato che il pop si era preso la briga di sanare. Dopo cento pagine, non a caso, appare un capitolo su expat molto raffinati, che si rifugiarono negli Stati Uniti costretti a scappare dal nazismo e scrissero a Los Angeles opere leggendarie. Max Horkheimer scelse "la brezza marina di Palisades" e fu raggiunto da Theodor Adorno, stabilitosi "al 316 di South Kenter Avenue", con i suoi vicini di Brentwood che "lo chiamavano familiarmente Teddie".
Qui lavorarono insieme alla Dialettica dell'Illuminismo. Adorno compose a Los Angeles alcuni frammenti di Minima Moralia, la Filosofia della musica moderna e La personalità autoritaria, trovando – scrive Castellacci – "persino il tempo per qualche scappatella extraconiugale che la moglie Gretel faceva finta di ignorare e per qualche uscita in società a fianco di Greta Garbo e l'onnipresente Charlie Chaplin". Pare che Adorno fosse sconcertato da quella commistione di cinema, fumetti, arte antica, canzonette che si respirava in città, osservava con sospetto quella che gli sembrava l'ennesima trappola del capitalismo per addomesticare le masse: "l'industria culturale defrauda ininterrottamente i suoi consumatori di ciò che ininterrottamente promette" scrisse, e aggiunse "citando Seneca: res severa verum gaudium (la vera gioia è austera)".
Adorno aveva capito che la frammentarietà sarebbe diventata il segno distintivo della cultura pop e, scrive Castellacci "già allora etichettava come menzognero il piacere estetico immediato causato da brandelli incompleti di prodotti culturali senza che questi fossero retti da un sofisticato reticolo di correlazioni interdipendenti tra i contenuti stessi, il know how che costituisce il vero discrimine dell'essere colti'". A un'industria culturale che si organizza secondo il principio della novità corrisponde un consumo straordinariamente instabile, dominato dalla imprevedibilità dei gusti: il libro di Castellacci è una documentata incursione in film, fumetti, canzoni, fantascienza, detective story, videogame, grafica, new age (esplorata da Patrizia Sanvitale, che firma nel libro una interessante appendice sulle nuove mode riflessive, di autocoscienza del sé, che imperversano ora a Los Angeles ma che, come lei documenta, hanno le radici nella controcultura nata negli anni '60, nei viaggi extracorporei, tra sciamani, Gestalt, yoga, alla ricerca dei guru).
Cuore del consumo culturale a Los Angeles sembrano le infatuazioni collettive che eccitano le folle ma senza mai disturbare istituzioni, valori o stili, non esprimono desideri davvero sovversivi ma manifestano passioni per differenze che non provocano disordini né rischi, solo emozioni istantanee. Los Angeles è una specie di "gigantesco flipper con parecchi milioni di palline che rimbalzano dal futuro. Una città più regale che reale e perciò un posto dove vale la pena sognare" spiega Ray Bradbury. Allo scrittore di Fahrenheit 451 Castellacci dedica alcune pagine perché "non potevi vivere a Los Angeles, fare il giornalista e non conoscere Ray Bradbury". Castellacci lo contatta per conto di Cartier (allora dirigeva anche il magazine della famosa casa di gioielli) e ne nasce una frequentazione ("entusiastica" da parte di Bradbury) perché il giornalista lo aveva sollecitato in quella che pare una vera e propria fissazione per lo scrittore: "Dopo un po' che stavi con lui non ci voleva molto a capire che, al di là della fantascienza, quello che lo interessava veramente era l'architettura o meglio l'urbanistica, che qui a Los Angeles sono realtà interconnesse con l'idea di futuro e di cultura popolare".
Bradbury usava la fantascienza per dirci – già in quegli anni (Cronache marziane è del 1950 ed è ambientato a partire dal 1999, fino all'ultimo racconto, nel 2026) che cosa avremmo dovuto fare per salvare le città e l'universo, un ambientalista ante litteram, che prefigura un mondo dove l'inverno diventa estate, violentato dalla fame di conquista degli umani e dalla tecnologia. Ma di Bradbury Castellacci riporta anche un consiglio che sembra scritto pensando all'oggi: "Devi essere veloce se vuoi essere un bravo scrittore. Se rallenti cominci a preoccuparti e a pensare se una parola può offendere: i repubblicani? I democratici? Le femministe? I comunisti? I cattolici? Allora sei finito. Non puoi soddisfare tutti quando scrivi. Non è scrivere quello". Los Angeles e le radici della cultura pop è un viaggio, una guida, un google su carta, una miniera di informazioni sulla cultura di massa che è cultura di consumo, costruita per il piacere immediato, la cui capacità seduttiva nasce in parte dalla sua semplicità: quando traspaiono contenuti ideologici sono secondari rispetto al diktat dello svago, del divertimento.
La cultura pop riconverte qualunque atteggiamento o discorso nel codice della modernità, il presente è la misura di tutte le cose, senza paura di anacronismi e liberi adattamenti, trasposizioni dal passato o riciclaggio dell'antico nel contemporaneo, come mirabilmente pasticciava Arbasino. Sembrerebbe fatta per esistere nell'immediato presente: così la lunga antologia di Castellacci (c'è un capitolo dedicato a Barbie, uno al parrucchiere di Marylin Monroe, una alla famosa scritta Hollywood) risponde a una duplice necessità, quella di divertire leggendola e quella di sottrarla al potere della moda che distrugge, che lavora sulla velocità dell'oblio.
Oggi che gli schermi elettronici devono sempre essere occupati da qualcosa e alla cultura del racconto si sostituisce quella del movimento basata sugli shock e al profluvio incontrollabile di immagini, conoscere le radici della cultura pop aiuta a capire il ruolo determinante che ha avuto nella diffusione di nuovi stili di vita, negli orientamenti degli atteggiamenti individuali e collettivi. Castellacci cita Edgard Morin: la cultura di massa è a volte liquidata con alterigia, è l'ignoranza delle persone colte, "frutto della stessa stereotipia volgare degli standard tanto disprezzati", perché non è vero che ciò che diverte non educa l'intelligenza.