Prima della pensione in scena a Bologna / Le Belle Bandiere, Thomas Bernhard, il nazismo
Oddio, qualcuno avrà dimenticato accesa la suoneria del telefono, o addirittura è partita la musica stipata nella memoria di qualche cellulare. Un motivo classico, un violino, un pianoforte, i bassi. Una voce che canta sottotraccia, appena percepibile, sotto le parole di Elena Bucci che quasi danzando entra in scena, in quell’antro oscuro che è la casa delle sorelle Höller, lei, Vera, nomen omen, l’altra, Clara immobilizzata su una sedia a rotelle da quando un bombardamento americano, uno degli ultimi giorni di guerra, colpì la sua scuola, un’azione terroristica ribadisce il fratello, il Presidente di Tribunale, che le due donne aspettano nella caverna prigione, buia con qualche sprazzo di luce e ombre di sbarre, davanti a un asse da stiro per togliere pieghe alla toga del Giudice, con una poltrona su un lato, una sedia sull’altro, un pianoforte visibilmente finto, teatrale, il Presidente del Tribunale loro fratello Rudolf che le due donne attendono, civettuola Vera, danzate, in abiti zingareschi, rigida Clara, estranea a quel clima Biedermeier, a quella casa gonfia dei cimeli dei genitori, delle ossessioni, delle nevrosi instillate da un padre autoritario, delle fragilità di una madre suicidatasi perché non reggeva, un’azione terroristica ha ribadito il fratello atteso, l’Uomo, l’ex comandante delle SS e vicecapo del Lager, stimato da Himmler, Heinrich Himmler, il Grande Capo, di cui oggi ricorre il compleanno, un’azione terroristica ribadisce il fratello a un dottor Fromm, vecchio conoscente, dal cognome dichiaratamente ebraico, che richiama il famoso psicanalista di Avere o essere?, parente (illegittimo) del dottore nominato in Ritter, Dene, Voss, Frege, dottor Frege (come il filosofo logico-matematico).
Le Belle Bandiere, Elena Bucci e Marco Sgrosso con Elisabetta Vergani, portano in scena nella sala piccola dell’Arena del Sole di Bologna Prima della pensione di Thomas Bernhard per Emilia Romagna Teatro. Creano uno spettacolo scuro e sfaccettato, che affronta il grande misantropo austriaco come un classico (qual è) intriso di presagi e spiriti dissonanti (quelle musiche continuamente emergenti sotto la trama di parole laceranti come coltelli) ma anche di atmosfere ferme, ingabbiate, che richiamano Cechov, la tragedia greca (Elettra e Crisotemi che aspettano il ritorno del vendicatore Oreste), Beckett e il vaudeville, Feydeau e altre commedie borghesi di finzioni e inganni. Riescono a togliere a questo autore dalle mille facce quell’aria seriosa, estenuante, noiosa che spesso assume negli allestimenti italiani, senza rinunciare a nessuna delle sue taglienti profondità.
Prima della pensione è un testo teatrale del 1979. Possiamo considerarlo il primo tassello di una ideale, discorde trilogia, che continua con Ritter, Dene, Voss del 1986 e con Heldenplatz del 1988. Anche in Ritter, Dene, Voss ci sono due sorelle, che in un’opprimente casa di famiglia carica di quadri di parenti trapassati aspettano l’arrivo di un fratello, questa volta dimesso temporaneamente dallo Steinhof, il vecchio manicomio di Vienna. Non si esce dal gravame dei rapporti interpersonali e tra le generazioni in quella pièce, intitolata con i nomi degli interpreti della prima messa in scena a sottolineare la teatralità di una cerimonia di oppressione familiare e umana, risolta in una scena di follia sotto le note dell’Eroica di Beethoven (Prima della pensione si conclude con una catastrofe finale in cui emerge la Quinta di Beethoven). Aleggia intorno alle sorelle di Ritter, Dene, Voss e al loro fratello pazzo, ironicamente, lo spirito di Wittgenstein e dell’indeterminazione della verità. In Prima della pensione come in Heldenplatz, il capolavoro di Bernhard, rappresentato nel 1988 a Vienna in un Burgtheater assediato dai nazionalisti che accusavano lo scrittore di essere antiaustriaco, prende consistenza invece un altro fantasma del Novecento. Quello di un nazismo mai morto.
Le due sorelle e il fratello tutti gli anni festeggiano il compleanno di Himmler (bevendo champagne Principe di Metternich), con la consapevolezza di essere “cospiratori contro lo spirito maligno della vita” (Cospiratori è il sottotitolo aggiunto dalle Belle Bandiere a quello dato dall’autore alla commedia, Una tragedia dell’anima tedesca). In Heldenplatz la scena si sposta sull’altro versante del dramma, in una famiglia ebraica in cui, dopo il suicidio del professor Schuster, echeggiano ancora opprimenti, assassine, le voci che accolsero trionfalmente Hitler sulla Heldenplatz, Piazza degli Eroi, quando il Führer, acclamato dai viennesi festanti, proclamò l’annessione dell’Austria, l’Anschluss.
Il nazismo in Bernhard non è solo una maledizione storica: fa parte del carattere attuale dei popoli di lingua tedesca. Il nazismo non è stato mai dimenticato; come in questa pièce è stato coltivato nell’ombra. Il Presidente di Tribunale è rimasto nascosto per dieci anni in una cantina, e poi è riemerso al momento opportuno, è stato riabilitato e insignito di un’importante carica, e ormai non gli resta che aspettare per pochi mesi un’onorata pensione. La sorella Vera vive nel suo culto, di notte si trasporta nel suo letto e diventa la sua amante, mentre i due insieme tormentano l’altra congiunta, che accusano di “socialismo”, Clara, che legge, legge troppo e critica, che è stata innamorata di un “rivoluzionario”… Su tutti gravano voci, ectoplasmi del passato, i genitori, Himmler, il nazismo che non è morto, e che ritorna nel culto della radici locali, nell’odio per gli stranieri, nella xenofobia, nel partito di Haider che nel 1979 non aveva ancora assunto i connotati violenti che avrebbe avuto, diventando un antesignano dei movimenti della nuova destra estrema europea, quella che oggi minaccia fragili equilibri democratici. Ritorna, il nazismo, da quella cantina, da quell’antro degli Höller, dalla divisa delle SS accuratamente conservata che il Presidente indosserà nella festa, nella cena per Himmler, che si concluderà con una monumentale ubriacatura, con una pistola spianata contro le serrande chiuse, per non farsi vedere da una società nuova nella quale pure si vorrebbe emergere, contro il lampadario, contro le sorelle, contro un mondo che marcia e che si vorrebbe fermare per sempre, cullandolo con quelle musiche, le stesse che riempivano le notti del lager, Schubert, Strauss, Beethoven, Rachmaninov, nella bella pista sonora di Raffaele Bassetti mescolate con la voce di Marlene Dietrich, con note di pianoforte della musica “degenerata” di Schönberg, con aperure pop e rock, sempre sottotraccia, come un ostinato bordone delle parole, a indicare in modo incontrovertibile, inarrestabile, che il mondo sta fermo e va sempre avanti.
In Heldenplatz quello che era stato un timore, un presagio, uno sguardo al rinascere di una nostalgia mai morta, un riciclarsi di vecchi personaggi, diventa realtà, aggressioni contro gli ebrei, ex nazisti come Kurt Waldheim nei ruoli chiave del potere, riciclati come democristiani o socialdemocratici, in un nuovo stato che non aveva cancellato i vecchi privilegi, le avite fedi feudali e cattoliche, gli antichi pregiudizi e odi (e di questo tratta anche l’ultimo fluviale romanzo di Bernhard, Estinzione, dove si parla dell’anima spettrale del nazismo, un fantasma che non si riesce a togliersi di dosso, perché radicalmente intessuto nelle vite, nell’economia, nelle relazioni sociali, nella cultura, negli interessi).
Si parla di ricordi, di memorie, di valori, di ideali, di fedeltà nell’antro delle sorelle Höller e del loro venerato fratello, travestito da buon membro della nuova società, ma sempre pronto a indossare di nuovo la sua uniforme, almeno una volta all’anno. Si parla perfino di ecologia. Il presidente è riuscito a impedire la costruzione di una fabbrica dalle esalazioni velenose di fronte al loro buon rifugio, alla loro casetta. Ha ottenuto che fosse spostata di centottanta chilometri. Il giardino di casa lindo, pulito, e non importa se i veleni li respirano altri. La famiglia come rassicurazione, come nido di cospirazione, di difesa contro l’esterno, di coltura della diffidenza contro la diversità, dell’odio; l’agiatezza come disprezzo della gente “colpevole della propria miseria”; la cultura come privilegio; la fedeltà (all’idea, alla famiglia, al clan) come ferinità tribale, arcaica.
Tutto è altro da quello che appare. Tutto è cospirazione, finzione, teatro. E allora è tutta teatrale la chiave interpretativa di una Elena Bucci strepitosa, incontenibile, che gareggia peraltro nella terna delle finaliste al premio Ubu come migliore attrice (e sinceramente speriamo lo vinca) e di un Marco Sgrosso potente, invadente, entrambi formatisi con quel formidabile maestro di attori che fu Leo de Berardinis, di attori-autori, attori capaci di creare mondi attraverso i personaggi e non solo di rispecchiare caratteri. Civettuola all’inizio, zingaresca, apparentemente leggera, Vera nasconde continuamente, o fa riemergere, come quei suoni, quelle musiche sottotraccia, le sue nevrosi, le sue perfidie, il suo disprezzo del mondo e la sua debolezza, il suo barricarsi in una trincea fatta di ricordi, pregiudizi, ferocia. Gridolini, risolini, discese in toni nasali, arrochimenti, e di nuovo cinguettii, bamboleggiamenti, e durezze, diffidenze, crudeltà, trasalimenti, tenerezze costruiscono un personaggio mobilissimo, dalle mille, facce, tra le quali è indecidibile quale sia la “vera”. Un personaggio assediato da ombre, come la sorella, secco contraltare alla sua mobilità; un personaggio nevrotico, Vera, bipolare, che proietta ombre, strega da cartone animato e figura squassata dalle sue stesse proprie certezze.
In questa casa dei morti sembra di udire il grido cechoviano “A Mosca! A Mosca!”, ma come una retroflessione nel passato; si vive in un continuo stato ipnotico e si cerca una salvezza da se stessi nella menzogna dell’attesa di un Oreste vendicatore dell’ombra di Agamennone, o in una condanna al carcere interiore e sociale. Bucci e Sgrosso cercano opportuni antenati classici alla furia iconoclasta e contemporanea di Bernhard, aspettando un Godot che inopinatamente si materializza in un omone violento, rigido e paranoico, ingombrante, grottesca scoria del peggiore Novecento che si bea del fatto che quando andrà in pensione qualcuno dovrà ancora scontare per altri quindici anni la pena da lui inflittagli in tribunale. Un mondo di dannati secondo la bella lettura e interpretazione di Bucci e Sgrosso, che sono anche registi. Una caverna di morti viventi che si sublima nell’arte, nei lunghi luccicanti abiti da sera e nell’uniforme della festa tragica, che diventa a un certo punto seduta spiritica in luci verdi, fosforiche, contaminate, radioattive (luci, oscurità, ombre incombenti disegnate da Loredana Oddone; supervisione ai costumi, quotidiani, vezzosi, cerimoniali, di Ursula Patzak; ossessioni sonore di Raffaele Bassetti). Evocazione del passato che non si può portare in piazza, voglia di rompere tutto, di restaurare, di far riemergere, di farsi vedere, fino alla crisi finale, al collasso, allo svenimento di Rudolf, alla corrente elettrica che salta e alla telefonata all’unico che può intervenire, all’ebreo dottor Fromm, psicanalista sociale di tempi difficili, di società malate, dopo aver provato a togliere l’uniforme al fratello, a celarlo ancora alla luce del tempo.
All’Arena del Sole di Bologna fino al 22 gennaio; dal 24 gennaio al 5 febbraio al Teatro delle Passioni di Modena, dal 21 al 26 gennaio all’Elfo Puccini di Milano, dal 17 al 19 marzo al Teatro Era di Pontedera (Pisa), dal 23 al 25 marzo al Teatro Studio Scandicci (Firenze), dal 30 marzo al 1 aprile al Teatro Bonci di Cesena.