Il nostro saluto / Gli ultimi pasticcini con Giulia Niccolai
Oggi ho saputo che Giulia Niccolai se n’è andata. Ho guardato fuori dalla finestra di casa, per fissare nella mia memoria il colore del cielo. Era quasi giallo. La luce sembrava avvolgere tutto: gli alberi, il lago, le montagne sullo sfondo. Tutto mi è parso immobile. Forse ho capito cosa significa quando il tempo si ferma per un istante. Mi ha avvisata Nicoletta, una cara amica di Giulia. Non sono riuscita a farle molte domande, non ero preparata. Ho ascoltato le sue parole, quasi incredula, incerta se fosse davvero successo. Nicoletta stava in treno. Credo che a quella luce chiara del cielo, assocerò per sempre lo sferragliare del treno. Il primo giorno d’estate è un buon momento per sgusciare via. E poi, a pensarci, la luce ed i treni mi sono sempre piaciuti. Forse anche questo è un regalo, il suo modo di salutarmi come faceva quando andavo da lei a Milano.
Ho conosciuto Giulia perché mi interesso di fotografia e lei per una parte della sua vita ha fatto la fotografa. È stato due anni fa. Non ho molto riflettuto su come fare per conoscerla, forse sapevo che con lei non sarebbe stato troppo difficile. Ricordo che la nostra prima chiacchierata la facemmo a Ravenna, sedute davanti al palco del Teatro delle Albe. Lei avrebbe dovuto leggere e commentare le sue poesie insieme a Luigi durante la festa di Doppiozero. Eravamo tutti lì a sentirla: Federica, Anna, Marco, Roberto, Gabriele. E lei inizia con le sue poesie. O meglio i frisbee, come amava definirli: giochi di parole divertenti, dissacranti, che lei davvero lanciava al lettore come si fa quando si gioca fra bambini. Diceva che era un modo per condividere con gli altri piccoli istanti felici.
Giulia era così. Ed io la adoravo per questo. Andare a trovarla per me era come ripercorrere le tappe di un piccolo rito: Rovato, Stazione Centrale, Metro linea verde, fermata S. Agostino, e poi San Michele del Carso. Ma prima c’era una tappa fondamentale: i pasticcini. Sempre nello stesso posto, in numero pari, uguali per me e per lei. Sono golosa ed anche lei lo era. Sapeva come farmi felice: cucinava. Io di solito arrivavo verso le dieci, al mattino, le facevo mille domande sulle foto e poi si pranzava.
C’era una cosa che mi piaceva molto: un magnete attaccato al suo frigorifero. Mi faceva un po’ ridere: “Via delle Zoccolette”. Ovviamente le feci una domanda. Chissà, forse gliene avrò fatte troppe. “Quella via sta a Roma, ci ho abitato un anno con Giosetta Fioroni”. E quindi il pranzo si trasforma in un sorprendente racconto: la dolce vita romana, Fellini, Flaiano che tanto ammirava, Manganelli che stimava immensamente. E poi Moravia, “impossibile passare da Roma senza passare da Moravia!”, mi diceva. E “com’era Fellini?”, dico io. “Imprendibile, irraggiungibile. Fuggiva da tutto e da tutti”. Giulia gli ha scattato una foto bellissima. Lo ha preso, nonostante tutto. E si divertiva a raccontarmelo.
Giulia Niccolai, Federico Fellini in Via Veneto, Roma, febbraio 1960
Come mi piacerebbe sentirti di nuovo, cara Giulia. A volte credo di averti chiesto talmente tante di quelle cose da non sapere più cosa inventarmi, a volte penso che io non smetterei mai di fartele tutte queste domande. Perché c’è da dire che ad ogni domanda seguiva anche una grande risata. Era il suo modo affettuoso di accompagnarmi nel proprio passato, di condividere con me gli anni meravigliosi di quando faceva la fotografa. E non solo. Il mio stupore la faceva sorridere. E la mia curiosità nutriva i suoi ricordi. Ero letteralmente avvolta da quel suo modo giocoso di alleggerire tutto. Mi diceva: “sono passata dal centro del mondo alla cucina di Bazzano!”. Senza battere ciglio, aggiungo io. Aveva deciso si smettere con la fotografia e iniziare una nuova, e più difficile esperienza, che era la scrittura. Siamo andate insieme dalle sue parti in Emilia. E lei è stata qui al lago da me. Anche qui l’ho tempestata di domande. Però ho anche cucinato. Lei stava seduta, mi guardava ed io preparavo. Mi sorrideva. Se c’è una cosa di lei che è rimasta immutata è proprio il sorriso. Lo ricordo da un suo ritratto che qualcuno le fece a New York. Probabilmente un collega fotografo a cui aveva passato la fotocamera. Si era messa in posa, lei che non amava farsi ritrarre, ma quello fu uno dei momenti che aveva amato. La ricordo giovanissima, sorridente, entusiasta. Ed anche oggi la ricordo così.
Quando stavo da lei a Milano, dopo pranzo ci si spostava in salotto. Sedute l’una accanto all’altra, come in una seduta spiritica venivano evocati nomi di scrittori, poeti, fra cui Jack Kerouac, che lei aveva conosciuto a Roma. Ti rendi conto? Dicevo a me stessa. Sei a un passo da Kerouac! Ogni tanto partiva qualche frisbee, le sue poesie da lanciare al lettore, nel senso che me le recitava: “Como è Trieste Venezia”. Era del tutto naturale. Lo faceva senza mettersi in posa, con quel suo grande corpo, gli occhi perennemente allegri. E la tristezza sarebbe sparita.
Giulia Niccolai, cava di tufo, dintorni di Barletta, 1959
Oggi invece è davvero un giorno triste. Quando ho saputo che Giulia se n’è andata, Nicoletta mi ha detto una cosa: è nata nel giorno del solstizio d’inverno e se n’è andata il primo giorno d’estate. Il suo tempo era fatto di momenti magici, risate, coincidenze. E le sue parole erano piume, abbracci, carezze, come lo è stato il suo sguardo di fotografa. L’ultima volta che l’ho vista, meno di una settimana fa, le ho portato un dolce. E lei, guardandomi, sorride e dice: “Ma guarda com’è bello! Quasi impertinente! Ora ce lo mangiamo e poi si lavora”.
È il ricordo che porterò con me. Una torta in miniatura, le finestre socchiuse e la sua risata che riempie la stanza.
“Sei pronta Giulia?”, le chiedo. E lei risponde: “Naturale tesoro!”.