La cecità come scelta / Covid e la fine del sogno americano
Houston, 16 luglio 2020
L’ultimo giorno normale della mia vita è stato il 6 marzo 2020, l’ultima lezione che ho tenuto in classe. Ciò che ha salvato la mia università dalla pandemia, allora, è stato lo spring break, la vacanza di primavera che cominciava la settimana dopo. Tempo pochi giorni, e si è visto che tornare in classe non era più possibile. Io stavo insegnando un corso sulla biopolitica. Parlavamo e abbiamo continuato a parlare via Teams di Michel Foucault, Hannah Arendt, Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Antonio Negri, Michael Hardt, Paolo Virno, Donna Haraway, Judith Butler, Anthony Kwame Appiah, Slavoj Žižek e altri ancora. Ancora prima che la pandemia raggiungesse il Texas, ogni settimana trovavo, senza neanche doverlo cercare troppo, qualche articolo di giornalismo investigativo che mettevo a disposizione degli studenti e sembrava scritto apposta per il mio corso.
Se Achille Mbembe parlava di necropolitica e di necropotere, di schiavitù e di colonialismo come stati di eccezione permanente, e del modo in cui le popolazioni soggette potevano essere controllate verticalizzando il loro spazio (non entrerò in particolari perché non è questo il punto che voglio discutere, ma da qui devo partire), ecco che un articolo del New York Times veniva a puntino e riportava il discorso all’America. Se Warren Montag faceva partire la necroeconomia da Adam Smith (il tranquillo presupposto secondo il quale, in un mondo retto dalla “mano invisibile del mercato” – versione capitalista della Divina Provvidenza – qualcuno dovrà essere sacrificato, anzi molti, ma in ultima analisi lo faranno con gioia – sì, sto semplificando), ecco che trovavo subito tutte le informazioni che volevo su due casi di necroeconomia americana che tenevano banco prima dell’attuale pandemia. Il primo era il dilagare di decessi causati da oppioidi (180.000 morti nel corso di vari anni), prescritti da dottori che non sono sempre privi di scrupoli, no, semplicemente sanno che i loro pazienti non possono permettersi né cure costose né chirurgie, possono solo prendere oxycontin e un giorno o l’altro morire di overdose. Il secondo è il deterioramento dell’acqua potabile, sempre nelle zone più povere del paese, dovuto all’invecchiamento delle infrastrutture che nessuno rinnova, e che causano malattie dalle quali i poveri in questione non possono permettersi di guarire. Eravamo perfino arrivati a discutere il primo dei due tristemente famosi interventi di Agamben all’inizio della pandemia (“Vogliono imporci lo stato di eccezione!”), anzi gliel’avevo tradotto io prima ancora che uscisse in inglese. Non mi pareva il caso di dichiararmi né a favore né contro. Facevo solo notare che i media, se vogliono, possono terrorizzarci con qualunque cosa. Se ogni inverno la televisione dedicasse quattro ore su ventiquattro a chi in quella giornata è morto d’influenza, l’influenza sarebbe un problema nazionale, no? Sulle successive prese di posizione di Agamben (“Insegnare online è come sottoscrivere fedeltà al fascismo!”) al momento preferisco sorvolare.
Perché la prendo così alla lontana, in un giorno in cui lo Houston Chronicle pubblica 43 pagine di necrologi di morti di Coronavirus, molti dei quali si potevano assolutamente evitare? Perché non so come fare altrimenti. Quello che state leggendo non è un articolo serio e ponderato su quello che sta accadendo in Texas e negli Stati Uniti. È uno sfogo. Soprattutto non voglio mettermi nella posizione di chi ho sinceramente detestato negli ultimi mesi: quelli che sanno tutto, che hanno capito tutto, che sei ore dopo il primo colpo di tosse sanno già da dove viene la malattia, chi l’ha causata, dove si prende, chi l’ha voluta, chi ci guadagna e soprattutto chi è il Grande Vecchio che manovra il mondo dal suo castello nei Carpazi. Faccio fatica a parlare del presente perché la mente continua ad andarmi indietro nel tempo, ai primi anni dopo il mio trasferimento negli Stati Uniti, alle cose di cui mi accorgevo e alle quali non volevo dare troppo peso perché non volevo essere il viaggiatore che sa tutto, arriva in un paese nuovo e dopo due settimane ha già capito la psicologia, l’antropologia, la biologia e la fisica di tutta la popolazione ed è già pronto al vecchio gioco del vado, capisco l’America e torno – anche perché io sapevo che non sarei tornato, che sarei rimasto qui, ed ero io che dovevo capire, non ero io che dovevo spiegare.
Ma dalle impressioni non potevo difendermi, le potevo solo archiviare. Poiché non sto iniziando un libro, anche se potrei, devo solo riassumere queste forti impressioni in uno sgomento – lo provavo allora e lo provo ancora adesso – davanti all’intensità con la quale gli americani riescono a credere. A credere in qualunque cosa e senza distinzioni di valore: nella loro eccezionalità, nella serie televisiva che stanno guardando, nel loro Dio fatto a loro strettissima misura, nell’ultimo prodotto che hanno visto pubblicizzato in televisione, nell’ultima causa che hanno abbracciato, nell’ultima teoria di complotto che hanno visto su youtube, nelle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e in Barack Obama che è un alieno venuto da Sirio. Avevo già formulato un giudizio, molti anni fa, ma l’avevo tenuto per me, perché non sono un ingrato. Gli Stati Uniti e le università per cui ho lavorato, a New York e a Houston, mi hanno chiesto molto, ma mi hanno dato molto di più di quello che avrei potuto avere in qualunque altra parte del mondo, Italia inclusa. Io non potevo e non posso che ringraziare tutti quelli con cui ho lavorato. Con quale autorità potrei permettermi di dire che per quanto ho capito io – e magari non ho capito niente, e se è così spero che qualcun altro capisca più di me – gli americani non sono molto furbi?
Intelligenti, dedicati, tenaci, instancabili, sì. Ma furbi, ecco, quello no. La furbizia è una dote mediterranea, viene dall’essere stati conquistati e dominati per secoli, dal sapere che non ti puoi fidare di nessuno, che sulla pubblica piazza lo puoi dire e lo devi dire, che tu credi nel tuo sindaco, nel tuo partito, nel tuo parroco, nella tua nazione, nel duce, nel presidente e nel papa, ma dentro le mura di casa tua la storia può essere ben diversa, e ti prepari ad affrontare le cose non importa chi vince. Non è una bella dote, la furbizia, e soprattutto chi è convinto di essere molto furbo non lo è per niente.
Il vero furbo è quello che sa benissimo di poter essere ingannato anche e soprattutto da se stesso, e non dà troppa importanza alle sue opinioni. È una dote brutta e cinica, ma ti aiuta a sopravvivere. Gli americani delle grandi pianure, del centro del continente, quelli che guardano con disprezzo a New York e a Los Angeles e si ritengono, solo loro, i veri americani, questa dote brutta e cinica non l’hanno mai imparata (e anche gli altri non la praticano molto bene), non ne hanno mai avuto bisogno perché non sono mai stati sconfitti.
Un momento, si dirà, certo che lo sono stati. È dall’epoca del Vietnam che non hanno fatto altro che accumulare sconfitte militari. Ma non lo sanno. Hanno sviluppato un’arte della negazione della realtà che non ha uguali al mondo. Certo, lo so che la realtà ormai è un optional anche in molte altre parti del pianeta. Negare la realtà e costruirsi un castello incantato di fantasie paranoidi è un meccanismo di difesa dall’ineluttabile, valido (per un po’, non per molto) quanto ogni altro. Ma gli Stati Uniti non sono nati su queste basi, non dovevano esserlo, non doveva andare così.
Invece sta accadendo questo: che gli Stati Uniti vengono oggi sconfitti dal più stupido degli organismi, più stupido ancora del loro presidente, e si sono impegnati nel più grande esperimento di rimozione della realtà che si sia mai visto nella storia. Ce ne sono stati altri, ma non su questa scala. Del resto, la scala conta poi così tanto? Perché un piccolo esempio non può valere quanto uno grande? Non posso togliermi di mente la storia che Jared Diamond racconta in Collasso a proposito dei vichinghi e degli inuit in Groenlandia.
Arrivano i vichinghi, colonizzano la Groenlandia e vogliono vivere da vichinghi, mangiando carne di manzo, non quelle foche puzzolenti che mangiano gli inuit. Importano mucche dalla Norvegia, più mucche che possono. Le mucche mangiano tutta la poca erba disponibile, non hanno più niente di cui sostenersi e devono essere abbattute. E i vichinghi cominciano ad avere fame. Ora, il vichingo furbo cosa farebbe? Magari andrebbe a spiare come fanno gli inuit a sopravvivere, magari cercherebbe di imparare come si fa a cacciare le foche, anche se non gli piacciono. Ma il vichingo non è furbo. Lui ha il suo lifestyle, e non è mica un selvaggio come gli inuit. Continua a mangiare le sue mucche finché di mucche non ce n’è più, dopo di che comincia a morire anche lui. E Diamond si chiede: che cosa sarà passato per la testa all’ultimo vichingo rimasto mentre stava per morire, ultimo della sua razza, mentre intorno a lui quei selvaggi degli inuit sopravvivevano come avevano sempre fatto?
È la stessa domanda che mi faccio io ogni giorno che qui in Texas c’è qualcuno che muore di COVID perché credeva che fosse una bufala. Due giorni fa è morto uno di 37 anni che aveva postato sui suoi social: “Io non mi metterò mai quella maschera del cazzo!” Pochi giorni prima, a San Antonio, è morto uno di trent’anni. Ultime parole twittate: “Credevo che fosse una bufala, mi sono sbagliato”. Accendo la televisione e vedo un medico intervistato in un ospedale nella parte nord della città, le cui unità di cura intensiva sono strapiene. È fuori dalla grazia di Dio, e dall’accento capisco che è italiano: “Vengono i parenti dei ricoverati,” dice, “e non vogliono mettersi la mascherina, dicono che è una bufala!”
È vero, l’ha detto il presidente a suo tempo, che era una bufala. Ma era mesi fa, e ormai non lo dice più neanche lui. Dice che tutto è sotto controllo e che nessuno ha affrontato la situazione meglio di lui. Questo è un capitolo a parte, ma restiamo sulla bufala. L’ha detto mesi fa, appunto. Con tutto quello che è venuto dopo, perché così tanta gente si è attaccata a quella frase come a un’ancora di salvezza (“It’s a hoax!”) e ci sta ancora attaccata? Perché vogliono morire per difendere la loro convinzione? Perché morire per una bufala?
La gente muore per qualunque motivo. Per la patria e per il re, per Mussolini, per Hitler, per Lenin, per Stalin, per Mao e per Pol Pot. In Texas, c’è chi voleva morire perché il suo barbiere potesse riaprire. Nelle settimane di un lockdown peraltro non totale, quando le cose stavano andando meglio – finché il governatore ha deciso di annullarlo e la vera catastrofe è cominciata – una milizia armata si è presentata davanti a un barbiere dalle parti di Dallas per dargli il diritto costituzionale di riaprire, e il giovanotto intervistato con un AR-15 in mano ha dichiarato che lui per quel barbiere era disposto a morire. Spero almeno che facesse dei tagli eccezionali.
L’ordine simbolico si è ridotto a ben poco, se mettere una mascherina lo fa crollare. Eppure questo è ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Siamo di fronte a quella che Ernesto De Martino chiamava “apocalisse culturale” o, per essere più chiari, una “fine del mondo”. “Non c’è il diritto costituzionale di non prendersi il coronavirus” ha detto uno dei miliziani in difesa dei barbieri e dei saloni di tatuaggi. Quando il governatore del Texas ha imposto l’uso delle mascherine in tutte le contee dove ci sono più di 20 casi (ed è stata la prima volta in cui l’ho visto preoccupato, anzi spaventato), è stato sepolto da una valanga di insulti sui social media: venduto ai liberal, traditore, non ti voteremo più (e magari…). Il vicegovernatore, che per qualche motivo locale è più potente del governatore, è andato da Fox News a dire che i medici dovrebbero stare zitti e comunque lui a loro non crede.
Il vicegovernatore è lo stesso ad aver detto, già mesi fa, che i vecchi, lui compreso, devono essere preparati a morire purché l’economia non si fermi. Non è stato accolto da un coro di pernacchie, ma con il silenzio degli spartani alle Termopili.
Adesso muoiono anche i giovani. Meno. D’accordo, ma anche loro. Ma la vera questione è un’altra. La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, che per gli americani è il prequel della Costituzione, dice chiaramente che tutti hanno diritto alla vita, alla libertà, e alla ricerca della felicità. Lasciamo perdere le implicazioni giuridiche e politiche di un linguaggio di fine Settecento e prendiamo le parole alla lettera. Dov’è finito il diritto alla vita in questa pulsione di morte che sta devastando gli Stati Uniti? Se non c’è il diritto costituzionale di non prendersi il COVID-19, vuol dire forse che c’è il diritto costituzionale di contagiare gli altri? Cos’è questa fregola di morire per chiunque, per Trump, per un barbiere, per un bar? Forse i survival skills che si insegnano nei corsi di sopravvivenza nascondono una colossale pulsione di morte? È una psicosi di massa quella che coinvolge ormai il 40 per cento della popolazione – che è quella che voterà per Trump e forse riuscirà a farlo vincere ancora perché non è la paura della morte a fermarli, ma il godimento di sfidarla, e Trump questo godimento glielo dà. Una volta stavo spiegando in classe il concetto di pulsione di morte quando mi interruppe uno studente afroamericano. “So esattamente di che cosa sta parlando,” mi disse. “Io sono stato nell’esercito, e quando ci hanno chiesto perché volevamo diventare dei marines, quello vicino a me ha risposto: ‘Perché voglio sfidare la morte’”.
Chi muore perché “era una bufala” o perché lui quella maschera del cazzo non se la mette, forse non si ritiene un eroe nel momento in cui si rende conto che non ce la farà, ma i suoi amici lo trattano come tale, e come tale lo celebreranno. Il diritto alla vita di cui parlava la Dichiarazione d’indipendenza si è rivelato come l’altra faccia del diritto alla morte. E io – d’accordo, non ho le prove – sono certo, certissimo, che la maggior parte della gente qui non ha capito il concetto di “asintomatico”. Ti vuoi contagiare? Padronissimo, ma non sei padrone di contagiare me. Sembra facile da capire, no? No, non lo è. La parola “asymptomatic” era sconosciuta fio a pochi mesi fa, non fa parte del linguaggio di nessuno, è una parola di cinque sillabe, è greca, nessun cowboy l’ha mai usata, farebbe anche fatica a pronunciarla (sono ingiusto, lo so, mi sto sfogando, va bene?). Leggo articoli di dottori sconsolati, hanno capito che la malattia più grande non è il COVID, è la disinformazione. Le domande che gli vengono rivolte non hanno nessun legame con la realtà. Ancora una volta il bisogno americano di credere, per favore fatemi credere in qualcosa per cui vale la pena di morire prende il sopravvento.
La parola chiave è proprio godimento. La classe operaia in America non ha più nessuna fiducia nel futuro, sa di essere stata esclusa dal sogno americano anche se continua a sognarlo (“Lo chiamano sogno americano,” diceva il comico George Carlin, “perché bisogna proprio essere ben addormentati per poterci credere”), dunque vive nel presente, e nel godimento, qualunque godimento, che il presente può offrire. La classe medio-superiore, la borghesia, risparmia, fa progetti, pensa alla carriera, alla casa, all’università in cui mandare i figli. Sa trattenere, anche per tutta la vita, la ricerca del piacere. La classe operaia non ha più voglia di vivere così perché sa che non serve a nulla. Non ha più voglia di avere fiducia in qualunque progetto sociale che alla fine li lascerà da parte perché non sono abbastanza smagati, abbastanza istruiti, abbastanza consapevoli del mondo in cui vivono. E dunque prendono quello che c’è, e subito. Se hanno voglia di mangiare schifezze le mangiano, se hanno voglia di ubriacarsi si ubriacano, se hanno voglia di sesso lo fanno. Perché non dovrebbero? Che sicurezze hanno nella vita? Domani possono perdere tutto, il lavoro, l’assicurazione sanitaria, la casa, la famiglia. Che cosa gli succede di meglio se non lo fanno? Non puoi andare a fargli la morale, a spiegare che devono essere razionali, prendere precauzioni, informarsi, credere alla “scienza” o a chi ha una laurea in tasca. Sono disposti a credere a tutto tranne che alla scienza, perché la scienza (quando l’ho detto ai miei studenti sono rimasti sorpresi) ha sempre torto. La scienza non è l’informazione che ricevi oggi e che domani sarà superata da un’altra informazione. La scienza è un processo, non un fatto e nemmeno un dato. Ma questi sono discorsi da laureato e non gli è mai venuto niente di bene, a loro, da chi aveva una laurea in tasca, come è tristemente vero che per loro non cambierà molto a novembre (se ci arriviamo), non importa chi vincerà le prossime elezioni (se ci saranno).
30 marzo circa, una coppia dell'Arizona ha sentito Trump in televisione che incoraggiava l'uso di un certo preparato il cui nome cominciava con clor… Sono andati di corsa giù in cantina dove hanno trovato una bottiglia di detergente per vasche di pesci il cui nome cominciava con clor… L’hanno bevuta. Il marito è morto, la moglie è finita in ospedale. Non sono stati gli unici. C’è una “chiesa” in Florida, ardente sostenitrice di Trump, che predica il lavaggio intestinale a base di disinfettanti, per avere un corpo il più possibile pulito per quando Gesù ritornerà. Non è una novità. Ci sono esempi del genere nel cristianesimo del secondo secolo, quando si predicava la castrazione per andare in paradiso senza quegli imbarazzanti organi sessuali. Ma adesso siamo nel ventunesimo secolo e la mia domanda è questa: se un Imam fondamentalista dicesse a un membro dell'Isis di bersi una caraffa di candeggina, lui lo farebbe? Se Hitler avesse detto (detto, non ordinato) a una SS di bersi un litro di varechina alla sua salute, la SS l'avrebbe fatto? Se Mao avesse consigliato a una guardia rossa di pulirsi l’intestino con un bel bicchierone di clorochina, la guardia rossa l'avrebbe bevuta? Non ho una risposta, e so che il problema non riguarda più solo l’America, di casi ce ne sono stati anche altrove. Ma è dall’America che viene tutto, è all’America che abbiamo sempre guardato, e ora dall’America viene un desiderio di morte che fa impallidire il vecchio nichilismo mediterraneo (che è poi un altro nome della furberia).
Il serpente nel Giardino dell’Eden è proprio quella terribile paroletta, “diritti”. Io ho il “diritto costituzionale” di prendermi il COVID, se voglio, ho il “diritto costituzionale” di non mettermi la mascherina quando vado a fare la spesa, ho il “diritto costituzionale” di andare dal barbiere e di farmi un tatuaggio. Ma, primo: il proprio lifestyle non può essere e non sarà mai un diritto costituzionale; secondo (e qui mi rifaccio a Simone Weil, La prima radice), i diritti sono tali di fronte alla legge, non di fronte alla comunità. Davanti alla comunità il singolo ha solo degli obblighi, e la comunità ha degli obblighi verso di lui. Io ho l’obbligo di non fare del male alla mia comunità, e la mia comunità ha l’obbligo di non fare del male a me. La confusione tra diritto e obbligo distrugge ogni comunità. Purtroppo questa confusione è rampante anche dove non la si dovrebbe vedere, tra la sinistra (accademica e non), e perfino nei movimenti in difesa dei diritti civili e delle minoranze. Non ripeterò la vecchia, reazionaria frase, “Dove ci sono dei diritti ci sono anche dei doveri”. Dirò piuttosto che dove non ci sono diritti ci sono obblighi. Se il diritto viene ridotto al diritto di fare questo e di fare quest’altro – cioè il mio privilegio di classe o di razza di fare quello che mi pare, e a ramengo il mondo intero – lo stesso concetto di diritto alla vita non sta più in piedi, perché allora ci sarebbe anche il dovere di vivere. Ma se io sono vivo, allora devo fare di tutto perché la mia comunità viva, e la mia comunità ha l’obbligo di mantenermi in vita, anche se sono vecchio, anche se sono povero, anche se il colore della mia pelle non è quello della maggioranza dei miei concittadini, e anche se sono uno che sarebbe meglio per tutti se sparissi dalla faccia della Terra. Non ci sono eccezioni.
La conseguenza più triste di questo culto di morte che ha preso gli Stati Uniti per la gola, e che si riassume in Trump ma è cominciato prima di lui e non finirà con lui, è che anche le persone più miti finiscono per arrabbiarsi parecchio con i covidioti in marcia, e con qualche ragione (Gli idioti in marcia era il titolo di un racconto distopico degli anni Cinquanta, autore Cyril M. Kornbluth, in cui gli idioti, ormai la maggioranza sul pianeta Terra, vengono convinti a emigrare su Venere dopo essere stati convinti che è un paradiso tropicale). Non è bello leggere di un altro idiota che è morto perché “era una bufala” e pensare: “Bene. Uno di meno, e un letto d’ospedale in più per chi ne ha davvero bisogno”. È orribile, non foss’altro per tutto quello che ho appena scritto sugli obblighi che il vivere in una comunità impone (Simone Weil va ancora più in là: sostiene che un uomo solo nell’universo non avrebbe diritti ma avrebbe comunque degli obblighi). Non posso liquidare la questione sostenendo che chi mette a repentaglio la sua vita, quella della sua famiglia, e magari anche la mia, perché la Costituzione non dice che lui deve mettersi la mascherina, se l’è voluta e non è un mio problema. Purtroppo lo è.
Ma non posso neanche ignorare che, appunto, siamo di fronte a un esperimento epocale di disgregazione del concetto stesso di comunità, e la furberia di sopravvivenza, che è anti-comunitaria per eccellenza, è ormai necessaria. Lo stress che un presidente sociopatico esercita sulla psiche dei suoi cittadini, non importa se sono sostenitori od oppositori, sta raggiungendo limiti che la nazione non può più tollerare senza finire essa stessa soggetta a episodi psicotici acuti. Conferenza stampa di pochi giorni fa: Come stanno andando le cose, signor presidente? Bene, benissimo, stiamo facendo un ottimo lavoro. Si rivolge a un tale seduto alla sua destra: Quanti morti? 130.000, signor presidente. Ah, sì, 130.000, Dunque, dicevo, stiamo facendo un ottimo lavoro…
Queste iniezioni giornaliere di disempatia, in cui il presidente parla dei suoi cittadini come di un formicaio appena bruciato (nel plauso del già citato 40%) hanno l’effetto di farti sentire ancora meno empatico di quello che sei, e io non mi escludo. Non sarebbero così efficaci, però, se non si basassero su un fondo comune già presente, su una sociopatia diffusa che è sempre stata parte dell’anima americana. Insieme al puritanesimo e all’illuminismo, il libertarismo estremo, cioè il rifiuto totale dell’idea di società civile (quella degli obblighi e non dei diritti), ha contribuito per la sua parte a fare dell’America quello che è stata e quello che è oggi. Ma quello che sarà domani non lo sappiamo, perché questa creatura essenzialmente folle che è l’“americano” di razza bianca (gli altri hanno altri problemi), devastato dal suo Dio, dal suo paesaggio e dal suo clima (se non siete mai stati nel nord del Texas, diciamo tra Abilene e Lubbock, non potete capire la sensazione fisica che il resto del mondo semplicemente non esista), e che finora trovava sfogo nell’alcol, nelle armi o nella convinzione di essere razzialmente superiore, ora capisce che il suo mondo sta per finire, e nella sua caduta ci deve trascinare con lui.
Di Alessandro Carrera, doppiozero ha pubblicato l'ebook Bob Dylan