Otto autoritratti / In cattedra. Il docente universitario
Pochi secondi dopo l’accensione dello schermo, il doodle di Google – saluto mattutino per gli internauti di buona parte del globo – mi notifica che il 5 ottobre è la Giornata mondiale degli insegnanti. Di insegnamento l’Unesco si occupa da molto tempo, potremmo dire da sempre; la Recommendation concerning the Status of Teachers risale addirittura al 1966. Ma il tema sta acquistando una crescente attualità. La ragione è semplice. I progressi della tecnologia e le trasformazioni sociali che ne discendono sono più rapidi di qualunque previsione: nessuno può garantire quindi che fra qualche decennio, o qualche lustro, gli studenti universitari incontreranno in aula una persona in carne ed ossa – ammesso e non concesso che sarà sopravvissuta la prassi di recarsi in un’aula. In cattedra, o accanto alla cattedra, potrebbe comparire l’ologramma del massimo specialista della disciplina oggetto del corso, che terrà loro una lezione magistrale, fondata su una competenza inarrivabile per la maggior parte dei suoi colleghi. Fantascienza? Può darsi. Ma tante prassi che ormai ci sono divenute familiari sarebbero state considerate fantascienza fino a non molto tempo fa.
Tante operazioni che un tempo sarebbero passate attraverso un contatto personale, comprensivo di parole e di gesti, e di contatti fisici, sia pur indiretti (come un passaggio di carte o di denaro) vengono sbrigate oggi attraverso una tastiera e uno schermo. Siamo davvero sicuri che quella degli insegnanti non sia una categoria professionale suscettibile di estinzione?
Tale prospettiva – che spero di non essere il solo a considerare deprecabile – costituisce il remoto sfondo di una raccolta di saggi da poco in libreria, curata da Chiara Cappelletto, che insegna Estetica alla Statale di Milano: In cattedra. Il docente universitario in 8 autoritratti (Cortina).
L’intento del volume non è di fare il punto sulla situazione dell’insegnamento universitario in Italia oggi, né di misurarsi con inquietanti scenari futuribili. Si tratta, come recita il sottotitolo, di una riflessione di alcuni docenti sul proprio operare: un esercizio di autocoscienza professionale, rigorosamente fondato sull’esperienza diretta. Il panorama disciplinare abbracciato non è vastissimo: si parla solo di sapere umanistico – dalla filosofia alla letteratura, dall’antropologia alla teoria politica – con prevalenza di competenze sull’antichità e il Medioevo. Nessuna ambizione, dunque, di rappresentatività estensiva. Il risultato è tuttavia di notevole interesse, anche perché i profili culturali degli autori sono molto vari, e molto ricchi. Tutti hanno avuto importanti esperienze internazionali; quattro su nove (otto più la curatrice) lavorano tuttora all’estero, precisamente in Francia, Belgio, Inghilterra, Stati Uniti (ma anche il mondo tedesco è ben rappresentato nei curricula); tutti hanno quindi avuto modo di ragionare sulla relazione con studenti diversi da loro per madrelingua, formazione scolastica, ‘cultura’ in senso lato – oltre che per età, come inevitabilmente avviene nei rapporti docente-discente; e sappiamo quanto profondo si sia fatto il divario tra le generazioni nel passaggio dal XX al XXI secolo.
Ecco i nomi e le afferenze degli autori, in ordine alfabetico. Giovanna Borradori (Estetica, Vassar College, New York), Gianluca Briguglia (Storia delle dottrine politiche, Ca’ Foscari), Marco Formisano (Letteratura latina, Gent), Manuele Gragnolati (Letteratura italiana medievale, Sorbonne), Antonio Montefusco (Filologia mediolatina, Ca’ Foscari), Silvia Romani (Antropologia nel mondo antico, Statale), Miriam Ronzoni (Teoria politica, Manchester), Stefano Simonetta (Storia della filosofia medievale, Statale). Ognuno degli interventi meriterebbe una riflessione a sé. Particolarmente significativi, tuttavia, sono gli elementi comuni, i temi che attraversano più interventi. In primo luogo, il richiamo alla concretezza locale e corporea. L’insegnamento è un’attività situata, vincolata a un tempo e a un luogo particolari; è importante considerare tale circostanza come una risorsa, e non come un limite, un ostacolo o un dato accessorio e ininfluente. Valorizzarla serve anche a innescare la maturazione di una sensibilità per la storia; molto efficace è l’esempio del Palais Universitaire di Strasburgo, sulla cui facciata si legge un’epigrafe – Litteris et patriae – concepita con riferimento non alla Francia, bensì alla Germania (l’edificio è degli anni Ottanta del sec. XIX), dettaglio che di solito sfugge agli studenti, e non solo a loro. Altrettanto importante è rompere l’inerzia tradizionale che tende a vedere nei risultati delle riflessioni e delle ricerche i prodotti di un pensiero disincarnato. Il pensiero è invece per sua natura legato a un individuo: l’attività intellettuale è sempre condizionata – il che significa anche: resa possibile – dal vissuto personale. Entrambi questi aspetti implicano la valorizzazione della retorica (sia come prassi, sia come oggetto di studio), in quanto disciplina che persegue l’adeguatezza dei discorsi a un determinato contesto e a determinati destinatari.
Ricorrenti sono anche i richiami al movimento e alle distanze, spaziali e temporali. Gli autori di questi saggi si possono dire tutti, chi più chi meno, un po’ nomadi, sia per vocazione, caso, o opportunità. Ciò che ne discende è una rinnovata consapevolezza del rilievo che hanno, nei testi fondativi della nostra cultura (dalla Bibbia ai poemi omerici all’Eneide) i temi dell’esplorazione, dell’espatrio, dell’esilio, sulla scorta dell’idea di «erranza» di Édouard Glissant. Una diversa fenomenologia dello straniamento spaziale riguarda poi la dimensione carceraria. Discutere di filosofia in un luogo di reclusione sollecita la riflessione su un nesso quanto mai rilevante nella storia del pensiero: basti ricordare le figure di Socrate, Boezio, Tommaso Moro, Campanella, Gramsci. Agli intervalli geografici, che si possono colmare spostandosi fisicamente, si aggiunge la lontananza storica, a volte dissimulata ma non azzerata dalla familiarità con i documenti e i monumenti che il passato ci ha lasciato in eredità. Idee correnti e luoghi comuni su questa o quella epoca o figura fanno intralcio alla comprensione critica: indispensabile è quindi superarli; ma senza dimenticarsi che rappresentano anche una via d’accesso, un canale di contatto. E qui interviene un’altra categoria cruciale: la relazione fra identità e alterità. L’orientamento prevalente in questi saggi, fatta salva la distinzione tra alius (altro fra molti) e alter (altro fra due) è la valorizzazione dell’alterità come «reagente» per la comprensione del contemporaneo. Da questo punto di vista, l’antichità classica seguita a rappresentare un riferimento esemplare.
Pagine particolarmente suggestive sono dedicate a Dante. Nella visione critica più diffusa ha un peso decisivo l’imputazione di organicità e compattezza: l’opera dantesca poggerebbe su una concezione della realtà coerente, unitaria e sistematica. Gragnolati mostra invece come sia possibile infrangere l’immagine di un Dante monolitico, facendo leva sulle contraddizioni documentabili nei suoi scritti: dall’oscillazione circa la maggiore o minore dignità del latino e del volgare, fra il De vulgari e l’Epistola a Cangrande, all’incertezza della Commedia circa l’unità o la pluralità delle forme nel rapporto fra anima e corpo. È l’anima da considerare la «forma» (nel senso aristotelico) del corpo, ovvero corpo e anima rappresentano sostanze separate, ciascuno con la propria forma e materia? La teoria delle «ombre» (il simulacro corporeo che l’anima dei trapassati si finge dall’aria) e la letizia che i beati dimostrano nel canto XIV del Paradiso alla prospettiva del futuro e definitivo ricongiungimento con la propria spoglia terrena suggeriscono conclusioni discordanti. Una tensione non risolta caratterizza nel poema dantesco il rapporto con la corporeità, e dunque con la vita sulla Terra.
Nell’insieme, queste testimonianze convergono nel prospettare un’immagine di docente abbastanza coerente. Un docente flessibile, attento alle peculiarità del contesto dove opera e agli orientamenti dei propri interlocutori, che non si fa illusioni sull’oggettività del sapere e diffida degli eccessi di specializzazione, che persegue il dialogo senza dedicarsi a coltivare il proprio personale carisma. E soprattutto, un docente capace di problematizzare la propria disciplina in modo tale da sollecitare interrogativi sull’interpretazione della realtà presente. Che questo risultato possa essere raggiunto anche insegnando filosofia medievale o filologia classica non dovrebbe suscitare stupore. Ma che la generalità dei docenti universitari ne siano abbastanza persuasi da vivere il proprio mestiere con serenità, e con fiducia nei propri mezzi, oltre che nel valore della cultura, non lo darei per garantito. Da questo punto di vista, In cattedra è un’operazione senz’altro meritoria.
In cattedra. Il docente universitario in 8 autoritratti, a cura di Chiara Cappelletto, Raffaello Cortina, pp. 314.