Teorie e grandi catastrofi / Filosofi col mal di denti

19 Aprile 2022

Nell’agosto del 1756, Jean-Jacques Rousseau viveva e scriveva, in relativo isolamento, in uno chalet detto l’Ermitage annesso al Castello della Chevrette, nei pressi di Montmorency, dove l’aveva invitato Madame Louise d’Épinay. Nel suo eremo lo raggiunsero due poemi che Voltaire gli inviò di persona, il primo sulla legge naturale, il secondo sul terremoto di Lisbona dell’1 novembre 1755. Rousseau apprezzò il primo, ma ebbe parole molto severe sul secondo. Voltaire se la prese a male e meditò a lungo una risposta, che forse fu addirittura il Candide. Ma la rottura fra i due grandi non si ricompose più. Fu un’altra delle infinite scosse di assestamento, o di disassestamento, da attribuire al terremoto del 1755, che causò la distruzione non solo di Lisbona ma anche di molte città e villaggi vicini, di varie città a sud di Gibilterra, in quello che allora era il regno di Fez e oggi è il Marocco, e che fu avvertito in tutta l’Europa continentale e in buona parte del Nord Africa. Dopo il terremoto di Lisbona l’Europa non fu più la stessa, e nemmeno l’amicizia tra Rousseau e Voltaire si salvò. 

 

“Rimproverate a Pope e a Leibniz di insultare i nostri mali sostenendo che tutto è bene,” scrive Rousseau a Voltaire senza troppi giri di parole, “e ingigantite talmente il quadro delle nostre miserie, che ne aggravate il peso: invece delle consolazioni in cui speravo, voi finite col rattristarmi; si direbbe che temiate che io non mi renda conto a sufficienza di quanto sono infelice e che crediate – così sembra – di tranquillizzarmi provandomi che tutto è male”. Come se non bastasse, Rousseau rincara la dose: “State in guardia, Signore, accade esattamente il contrario di ciò che sostenete. Quell’ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come insopportabili. Il poema di Pope allevia i miei mali e mi invita alla pazienza; il vostro inasprisce le mie pene, mi spinge a lamentarmi e, togliendomi tutto all’infuori di qualche briciola di speranza, mi porta alla disperazione”. 

 

Il poema di Alexander Pope qui discusso è naturalmente il Saggio sull’uomo del 1734, il cui punto più conteso si trova alla fine della seconda epistola, ai versi 289-294 (sopportateli nella mia traduzione): “L’intera Natura non è che Arte, a te ignota; / Tutto il Caso è Direzione, che tu non puoi vedere; / La Dissonanza, è Armonia incompresa; / Tutto il Male parziale, è Bene universale: / E a dispetto dell’Orgoglio, a dispetto di una Ragione che va errando, / Una verità è palese: ciò che è, è giusto”. 

Solo dieci anni prima, Voltaire aveva molto apprezzato il poema di Pope, ma dopo il terremoto di Lisbona non riuscì più a identificarsi con l’ottimismo leibniziano del poeta inglese, al quale rispose in questi termini: “Filosofi fallaci che gridate: ‘Tutto è bene’, / Accorrete, contemplate queste tremende rovine, / Queste macerie, questi brandelli di carne e queste misere ceneri, / Queste donne, questi fanciulli l’un sull’altro ammassati, / Queste membra disperse sotto i marmi in frantumi” (vv. 4-8). E ancora: “’Tutto è bene’, voi dite, ‘e tutto è necessario’. / Come! Forse che l’universo intero, senza questa voragine infernale, / Senza inghiottire Lisbona, sarebbe stato più malvagio?” (vv. 42-44).

 

La traduzione questa volta non è mia. Viene da Voltaire, Rousseau, Kant. Filosofie della catastrofe, a cura di Andrea Tagliapietra (Cortina Editore, pp. 224), in cui il curatore ha raccolto, dopo una densa e chiarificatrice introduzione, i testi in cui tre tra i maggiori filosofi dell’illuminismo reagirono al terremoto di Lisbona. Oltre al poema di Voltaire e alla risposta di Rousseau abbiamo anche tre saggi del Kant scientifico, competente e aggiornato sulle teorie geologiche dei suoi tempi e sulle possibili cause dei terremoti, ma che si esprime anche sull’atteggiamento che l’umanità deve assumere rispetto alle catastrofi naturali, il cui male non viene tutto per nuocere. Primo, perché se le studiamo possiamo anche imparare come evitarle (perché, si chiede Kant, costruire case di sette piani in una zona sismica come era risaputo che lo fosse Lisbona?); secondo, perché come effetto dei terremoti possiamo anche godere di ottime acque termali che adesso sgorgano dal suolo. Non proprio tutto è bene, insomma, ma nemmeno tutto è male. Suvvia, un po’ di laico ottimismo.

 

Ma a questo punto mi viene la tentazione (viene a me, perché Tagliapietra, più saggiamente di me, non ci cade) di mettermi a giocare con l’anacronismo, e leggere la lettera di Rousseau non come se l’avesse indirizzata a Voltaire, ma come se Rousseau stesse rispondendo al Leopardi che a Bologna, il 22 aprile 1826, scrive: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive”. E aggiunge: “Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?” (Zibaldone, 4174).

 

 

Oppure, Rousseau potrebbe rispondere addirittura alla Ginestra, ricordando al suo autore che proprio da una concezione “buona” della natura era partito, nonché da una visione negativa della civilizzazione, esattamente come il suo maestro ginevrino, di cui una volta era lettore fedele, per rovesciare la prospettiva dopo aver incontrato le difficoltà della vita, precisamente come Voltaire aveva fatto dopo che la notizia del crollo di Lisbona l’aveva raggiunto. Ah, questi filosofi senza spina dorsale, che hanno scelto il pessimismo perché è più facile credere nella malvagità del tutto piuttosto che ammettere qualcosa di molto più difficile, e cioè che se Dio ha creato un universo così imperfetto è perché di meglio davvero non poteva fare: “I filosofi, a loro volta, non mi sembrano molto più ragionevoli quando li vedo prendersela con il cielo perché non riescono a essere impassibili o quando gridano che tutto è perduto perché hanno il mal di denti…”.

 

Quanti filosofi con il mal di denti non abbiamo visto, letto e sentito in questi mesi? Tutti a cantare la vecchia canzone, la stessa dai tempi di Platone: “Tutto va male? Sì, tutto va male perché non fate come dico io!” E come dici tu? “Be’, questo è un problema complesso…”. Leopardi, lo sappiamo, avrebbe due paroline sia per Rousseau sia per i filosofi con il mal di denti: tu, Rousseau, cosa te ne fai di un Dio che non riesce nemmeno a mettere insieme un universo decente? Se il tuo Dio è tutto qui, non faresti meglio a lasciarlo perdere? E voi, filosofi derelitti, che avete il mal di denti e volete fare i dentisti, siete proprio sicuri che se venisse a esistere quella “social catena” di cui ci sarebbe bisogno per difendersi dal terremoto di Lisbona, dall’eruzione del Vesuvio o dall’ultima pandemia, vi metterebbero alla sua testa? E soprattutto, credete davvero che il “conversar cittadino” sia lo strepito che fate in televisione?

 

Pare che Voltaire avesse una voce stridula. Spesso la si sente anche in quello che scrive. Non è il tono di Rousseau, scorbutico e accorato, e nemmeno quello di Kant: calmo, lucido, olimpico, di chi contempla i mali del mondo con acuta comprensione ma non dà mai l’idea che un giorno potrebbe esserne toccato anche lui. Tagliapietra si è accollato il compito di far risuonare assieme queste tre voci a commento di un evento che davvero cambiò l’Europa. Come osserva lui stesso, la ricostruzione di Lisbona, affidata al plenipotenziario Marchese di Pombal, fu il primo intervento “statale” in senso moderno, l’inizio dell’urbanistica come ancora la concepiamo, il trasferimento dei simboli del potere dalla vecchia sovranità alla nuova economia: “Con Pombal la catastrofe diviene amministrazione: ‘Ed ora? Seppelliamo i morti e diamo da mangiare ai vivi’ fu il suo motto. L’amministrazione prolunga lo stato d’emergenza e lo fa diventare quotidianità mediante una serie incalzante di riforme”, come l’abolizione della schiavitù (non nelle colonie, però) e la cacciata dei Gesuiti. La Praça do Comércio fu la prima grande piazza moderna ad essere intitolata al capitalismo e non a un re. Era un liberale, Pombal? Tutt’altro.

 

Era affiliato alla Massoneria, modernizzatore, ma assolutamente ditador, e per ricostruire il Portogallo non esitò a sfruttare le colonie oltremisura. Nel suo concetto di amministrazione non c’era posto per la democrazia. “Del resto,” scrive Tagliapietra, “l’amministrazione non discute, esegue: il razionalismo illuminista trova nell’assolutismo illuminato la forma politica più efficiente e corrispondente al funzionamento delle sue procedure. Viene in mente il detto di Federico II di Prussia che Kant cita anche nel suo celebre saggio su Che cos’è l’illuminismo?: ‘Ragionate quanto volete e su ciò che volete, ma obbedite’”.

 

Può darsi che proprio con il terremoto di Lisbona abbia inizio la biopolitica in senso moderno, il cui termine è stato reintrodotto da Foucault: l’attenzione del potere verso la vita dei cittadini, sia per amministrarla e preservarla in senso buono, sia per controllarla e contenerla in senso repressivo. È lo stesso Tagliapietra a citare Foucault all’inizio della sua introduzione, anche se non tanto sulla questione della biopolitica bensì su quella dell’ontologia del presente. Ogni evento di portata epocale, dal terremoto di Lisbona alla rivoluzione francese, dall’11 settembre 2001 al Covid-19 e ora alla guerra in Ucraina, richiama la filosofia al dovere del mal di denti, alla necessità di far scendere le idee dalle loro griglie teoriche giù nell’incertezza della vita. Non tutti i filosofi possono essere spaventosamente lucidi e distaccati come Kant, e nemmeno supremamente sprezzanti e insieme compassionevoli come Leopardi. La maggior parte sono come Voltaire e Rousseau, solo – diciamo così – un po’ meno geniali: si spaventano, si arrabbiano, cambiano idea, litigano, fanno la voce stridula, non si parlano più, continuano a parlare per proprio conto, sono insopportabili ma ci chiedono disperatamente di sopportarli. Forse li vorremmo più olimpici, ma non c’è scampo; sono come noi, e noi come loro. 

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