Due film e la questione razziale / American Black & White

22 Febbraio 2019

«Quando ti trovi in un’altra cultura, sei costretto a riesaminare la tua» (James Baldwin).

 

The Negro Motorist Green Book, o più semplicemente Green Book, era una pratica guida per automobilisti neri pubblicata fra il 1936 e il 1966. “Green” dal nome dell’editore che l’aveva inventata, Victor Hugo Green, per far fronte alle limitazioni imposte dalle discriminazioni razziali. Una sorta di guida di sopravvivenza nell’America dei bianchi. Oltre alle informazioni essenziali su alloggi, stazioni di servizio e garage, riportava anche dettagli sulle strutture per il tempo libero aperte agli afroamericani: saloni di bellezza, ristoranti e discoteche. 

È questo il libretto che Tony “Lip” Vallelonga, italoamericano con una carriera di buttafuori nei night club della Grande Mela, si vede consegnare nel primo giorno del suo nuovo lavoro, quello di autista per Don Shirley, pianista nero di gran successo in partenza per una tournée nel Sud degli Stati Uniti. Una storia vera. Più o meno. Per sicurezza sarebbe meglio dire verosimile. Green book è stato scritto e prodotto da Nick Vallelonga, il figlio di “Tony Lip”, che ha garantito sull’assoluta adesione al reale di quanto narrato. Maurice Shirley, unico fratello vivente di Don Shirley, ha però dichiarato che il pianista considerava l’italoamericano niente più che un collaboratore. 

 

 

Dirige Peter Farrelly, quello dei fratelli Farrelly, reucci della commedia demenziale hollywoodiana (Scemo e +Scemo, Tutti pazzi per Mary, Amore a prima svista), qui alla sua prima prova da solista. Vince la sfida confezionando un perfetto feel good movie, che parte da Il Colore Viola (Steven Spielberg) e passa da The Help (Tate Taylor) e Il diritto di contare (Theodore Melfi), guarda ai film commerciali più riusciti di Herbert Ross, Coppola e Zemeckis, e attinge a quello spirito anni ’80 che rinnegava l'autorialità in favore di un appeal emotivo immediato – e senza ambiguità morale – puntando più su una pacata dose di comicità che sull’ironia. Con Green Book si ride e si piange, il ritmo non perde un colpo, Viggo Mortensen e Mahershala Ali sono una coppia spassosa e mettono in scena una sorta di versione “rovesciata” di A Spasso con Daisy (stavolta lo chauffeur spiantato è un bianco e il ricco snob un afroamericano che non ha mai mangiato pollo fritto). 

 

Insomma, tutto secondo la grande tradizione hollywoodiana dei film sui diritti civili degli afroamericani diretti da registi bianchi. «The Green Book è un film sul razzismo fatto da gente bianca per un pubblico di gente bianca. Capite il problema?», ha scritto la columnist Jenni Miller. Le fa eco Noel Ransom su Vice: «Questa versione edulcorata del razzismo, nel tentativo di minimizzare il senso di colpa dell’uomo bianco, non è solo un simbolo della normalizzazione di quel razzismo “innocente” che Trump ha supportato da dietro le quinte; è anche rappresentativo del tipo di narrazione razziale che un'intera industria (compresa parte della critica) sta cercando di costruire». Una questione che magari può sembrare strana al lettore italiano (il protagonista bianco, che all’inizio butta nella pattumiera i bicchieri usati dagli operai neri che hanno aggiustato la caldaia di casa sua, diventa un eroe positivo che si fa paladino dell’uguaglianza), ma che negli Stati Uniti del MAGA suona come l’ennesima celebrazione del “salvatore bianco”. In effetti, ogni volta che Don Shirley si trova in pericolo “Tony Lip” interviene a salvarlo dai razzisti, dai poliziotti razzisti, dai commercianti razzisti, eccetera… fino a salvarlo anche dalla propria solitudine, perché, ovviamente, oltre all’incontro tra le diverse realtà razziali c’è anche l’incontro-scontro tra due caratteri che nella loro diversità troveranno motivo di arricchimento reciproco. Non è un caso che secondo Steven Spielberg – che con la sua Dreamworks ha traghettato il film verso la distribuzione Universal – Green Book sia il miglior buddy movie dai tempi di Butch Cassidy (1969).

 

 

Per il film di Farrelly, nonostante le critiche, pioggia di premi: tre Golden Globe vinti (Miglior film commedia o musicale, Miglior attore non protagonista a Mahershala Ali e miglior sceneggiatura) e cinque candidature agli Oscar (Miglior film, Miglior attore protagonista per Viggo Mortensen, Miglior attore non protagonista a Mahershala Ali, Miglior sceneggiatura originale e Miglior montaggio).

 

Performance meno brillante invece (sia considerando la stagione dei premi che il box office) per la sua controparte filmica “all black”, Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk) di Barry Jenkins. Un solo Golden Globe vinto su tre candidature (Miglior attrice non protagonista a Regina King) e tre nomination agli Oscar (Miglior attrice non protagonista a Regina King, Miglior colonna sonora a Nicholas Britell e miglior sceneggiatura non originale a Barry Jenkins). Giusto per fare un confronto con il precedente film di Jenkins, Moonlight si era accaparrato tre statuette su otto nomination, tra cui quella per il Miglior film (per la gioia dei produttori) e Miglior attore non protagonista, proprio a Mahershala Ali. 

 

Da una parte abbiamo un film pieno buoni sentimenti ma criticabile per la forma semplicistica con cui affronta il problema del razzismo; dall’altra un film che affronta il tema letteralmente dall’interno, facendo della complessità una forma di indagine, ma che non ha trovato empatia nel pubblico. In Italia, per esempio, Se la strada potesse parlare ha debuttato su 76 schermi per finire alla terza settimana di programmazione solo su 8 schermi, una vera e propria débâcle. Green Book, invece, ha aperto su 360 schermi finendo dritto al primo posto tra i film più visti con oltre due milioni di euro incassati. 

 

 

Se la strada potesse parlare è tratto dall’omonimo romanzo del 1974 di James Baldwin, primo autore nero a parlare apertamente nelle sue opere (La camera di Giovanni, 1956) di omosessualità nella comunità afroamericana – già tema centrale in Moonlight – cosa che gli valse a suo tempo gli strali dalle frange più agguerrite del movimento per i diritti civili. Il romanzo di Baldwin, ambientato a Harlem, racconta la storia di un'adolescente incinta e possiede già di suo una qualità cinematografica tale da farlo sembrare una sceneggiatura bell’e che pronta. Barry Jenkins, che ha in Baldwin una delle sue figure letterarie di riferimento, ne ricava un evocativo affresco che segue due giovani amanti alle prese con le difficoltà dell’integrazione razziale e le disparità di classi sociali.

 

Tish, diciannove anni (Kiki Layne) si ritrova incinta di Fonny (Stephan James, già visto in Selma e in Homecoming al fianco di Julia Roberts), 22enne finito dietro le sbarre a causa di una falsa accusa di stupro. «Come farai?» chiede Fonny a Tish, «Come ho fatto fino a ora» risponde lei.

Come nel romanzo, Tish racconta la storia attraverso due linee temporali simultanee: da una parte i primi passi della loro storia d’amore, dall’altra la tortuosa strada per restituire la libertà al ragazzo accusato calunniosamente. Il regista intreccia i due percorsi con estrema fluidità e grande finezza visiva attraverso un’estetica in cui colori primari e fantasie floreali si contrappongono ai primi piani su volti di sgargiante bellezza: un lavoro di ricerca su location, costumi e palettes che farebbe la gioia di Miles Aldridge. 

 

Gordon Parks, “Ellen Crying” (1968).


Fanno da contraltare alcune immagini in bianco e nero, fotografie di repertorio dei tumulti nella Harlem anni ’70 (come Ellen Crying, storica copertina di “Life” firmata da Gordon Parks), a ricordare il senso di oppressione che aleggiava su quelle strade, «la morte che attendeva i figli della nostra generazione», come spiega Tish allo spettatore. E se Farrelly, come abbiamo visto, guarda agli Eighties, Jenkins sembra collocarsi nel solco della tradizione del cinema americano dei Seventies, cupo e introspettivo, pieno di domande ma senza risposte. Entrambi i film rispettano alla perfezione il carattere della tradizione cinematografica a cui (consapevolmente o meno) si rifanno: «Se nel cinema hollywoodiano degli anni Settanta l’uomo generalmente perdeva di fronte al sistema, allo stato delle cose, alla verità o all’insistenza di una verità, in quello degli anni Ottanta trionfava quasi sempre», ha spiegato Pier Maria Bocchi nel suo Invasion USA. Idee e ideologie del cinema americano anni ‘ 80 (2016).

 

Ma basterebbe dare uno sguardo (un ascolto) alle rispettive colonne sonore per farsi un’idea della differenza che corre fra due pellicole. Nicholas Britell, musicista (bianco) già sodale di Natalie Portman, che torna a lavorare con Jenkins dopo Moonlight e compone una colonna sonora che rincorre il mito del jazz, attraverso un’orchestrazione dagli echi scuri e malinconici piena di archi e ottoni, dal carattere elegiaco e cupo. Da una parte si sviluppa il tema che accompagna la storia d’amore tra i due protagonisti, Tish e Fonny, e dall’altra, come in un drammatico doppelgänger, quella che sottolinea l’atmosfera senza speranza che pende su di loro, partendo da un innesto su Blue in Green di Miles Davis, suonata da un giradischi mentre Fonny e Tish ascoltano la storia di Daniel, amico di infanzia del protagonista, uscito da poco di prigione. Il suo racconto mette in luce i meccanismi di un sistema, sociale e giuridico, che legittima l’elezione dei membri della comunità afroamericano a capro espiatorio per qualsivoglia crimine o infrazione. Tra i brani non originali, invece, troviamo Nina Simone con That’s All I Ask, Al Green con For the Good Times, John Coltrane, Lee Hurst e Billy Preston.

 

Dietro la colonna sonora di Green Book c’è Kris Bowers, compositore afroamericano che allestisce un lavoro più leggero, arioso e luminoso. Tra i brani non originali troviamo quelli di interpreti neri come Little Richard (Lucille), Aretha Franklin (con Won’t BeLong, secondo 45 giri dal primo album Aretha: With The Ray Bryant Combo, pubblicato quando la cantante aveva appena 19 anni) e i The clovers, con One Mint Julep. È la musica nera che piaceva anche ai bianchi, quella che spesso dall’R’n’B veniva “candeggiata” per diventare rockabilly. Don Shirley in una scena del film infatti dichiara di non conoscere né Little Richard né Aretha Franklin. E quando “Tony Lip”, stupito, lo incalza («Ma è la vostra musica!»), il pianista fa spallucce: un modo per sottolineare ulteriormente il senso di non appartenenza alla comunità che caratterizza il personaggio. Al contrario, in Se la strada potesse parlare, la musica rafforza l’identità dei personaggi. In una scena vediamo Ernestine, una delle sorelle di Tish, che ascolta Nina Simone cantare «All that I ask is a smile or two / And nothing in this world will be too good for you». Ernestine chiude gli occhi, si muove al ritmo della musica e dice tra sé e sé: «Sing to me Nina, sing!», una vera e propria invocazione, che nell’adattamento italiano è diventata, più banalmente «Che voce stupenda!». 

 

 

Quello di Se la strada è un mondo di conflitti irrisolti e complessi, interni e esterni rispetto all’essere semplicemente parte o meno di una comunità. La pervasività dell’ingiustizia e un tema centrale o l’odio sembra sobbollire ovunque. Purtroppo, nella sua rincorsa verso uno sfrenato lirismo, il film perde slancio e ritmo – una qualità che non mancava a Moonlight, anche grazie alla divisione in tre parti che scandiva i tempi del racconto in maniera più efficace. 

Con Green Book Farrelly adotta un approccio più diretto, verso un lieto fine consolatorio e dalle intenzioni edificanti, a tratti furbetto, ma letteralmente sempre a fuoco. Anche nella messa in scena: la visione è ampia, dettagliata e sempre nitida. Lo spazio della narrazione (totalmente lineare) è quello dei non luoghi, lungo un road movie attraverso gli Stati Uniti degli anni ’60, scrupolosamente ricostruiti di città in città, di motel in motel. 

 

Jenkins invece pesca a piene mani – in maniera più sfacciata rispetto al suo esordio e senza farne alcun mistero – da Wong Kar-wai, maestro della struggente malinconia filmica. Del resto, la scena di Hong Kong Express (1994) con l’aeroplanino giocattolo che accompagna il rapporto amoroso, mentre in sottofondo risuona What a difference a day makes di Dinah Washington, è stata citata dallo stesso Jenkins come una folgorazione cinematografica, sia per il modo in cui condensa un’intera storia d’amore, sia per l’uso dell’icona black Dinah Washington come colonna sonora dello struggimento di un ragazzo cinese. Per dirla con una battuta, quella di Jenkins potrebbe essere definita una “appropriazione culturale” di ritorno. In Se la strada abbondano stilemi ripresi dal cinema di Wong, dalla costruzione narrativa circolare, alle scelte cromatiche (giallo cadmio abbinato al blu cobalto o al verde bottiglia o, ancora, al rosso cinabro: un’estetica perfetta per una dashboard di Tumblr) all’attenzione per il dettaglio (primi piani, arredi, vestiti, accessori), che Jenkins utilizza per sottolineare il carattere evocativo della narrazione, in cui, come nella memoria, il particolare prevale sull’insieme e il futuro rincorre il passato.

 

Foto di scena da “In the Mood for Love” (2000), di Wong Kar-Wai.

 

Anche il ruolo attribuito allo spazio è fortemente debitore del maestro cinese («Per me la cosa più importante riguardo la sceneggiatura è conoscere lo spazio in cui è ambientato. Lo spazio ti dice chi sono i personaggi», dichiarava Wong nel 2002). E la Beale Street di Jenkins è appunto un luogo fortemente connotato, storicamente e culturalmente. Un simbolo, come spiega l’incipit del film: «Beale Street è una via di New Orleans, dove mio padre, dove Louis Armstrong e il jazz sono nati. Ogni nero in America è nato a Beale Street, è nato nel quartiere nero di qualche città americana, che sia Jackson in Mississippi, o Harlem a New York. Beale Street è la nostra eredità». Se la strada suggerisce come la coppia protagonista sia destinata a inseguire un ideale al di là della propria portata, ma che vale ugualmente la pena perseguire: si configura al contempo come necessità e impossibilità di esprimere la propria eredità culturale. Il canto di un eroismo gentile forse destinato al fallimento.

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