Applausi nel cassetto / Ana Blandiana: scrittrici e spie
La Securitate voleva fare di Herta Müller una spia. La delatrice perfetta, di cui nessuno avrebbe mai sospettato. Ma la futura Premio Nobel per la letteratura, ogni volta che la convocavano al posto di polizia, si aggrappava alla poesia per trovare il coraggio di dire no. Recitava i versi degli autori amati, a bassa voce, come fossero giaculatorie. E non cedeva nemmeno quando la chiamavano cagna, puttana. O la irridevano minacciandola: “Racconteremo a tutti delle orge che fai con i tuoi amici”.
Herta Müller, però, non aveva fatto i conti con quelli che Michel Foucault, nel suo libro Sorvegliare e punire, chiama “i mezzi del buon addestramento”. Ovvero, gli strumenti che il Potere usa per piegare al proprio volere chi si ostina a pensare liberamente. Infatti, quando molto tempo dopo riuscì ad abbandonare la Romania e a espatriare in Germania, si trovò di nuovo al centro di sospetti infamanti. I tedeschi vociferavano che la scrittrice fosse una spia della Securitate mascherata da dissidente. Non si fidavano di quella donna venuta da Bucarest, figlia di un nazista morto a 50 anni bruciato dal troppo alcol.
Adesso, non era più il regime comunista di Nicolae Ceaușescu a costruire attorno a lei arzigogolati teoremi accusatori. No, era l’Occidente libero, democratico, a sputarle addosso fantasiose accuse. Perché, in fondo, “ogni Potere crea i suoi colpevoli”.
Questo concetto, la scrittrice romena di Nitchidorf lo ha dovuto capire in fretta. Per raccontarlo, poi, nel libro intervista con Angelika Klammer La mia patria era un seme di mela (tradotto da Margherita Carbonaro per Feltrinelli nel 2015). Ma anche in tanti altri romanzi: In viaggio su una gamba sola, Il paese delle prugne verdi, Oggi avrei preferito non incontrarmi, Bassure.
Sorvegliare e punire è una delle più tenebrose arti esercitate dal Potere. Una raffinata strategia che spinge gli occhiuti controllori a inventare sempre più macchinose forme di pressione. Come quelle degli oscuri invasori della “Casa tomada”. La casa occupata che lo scrittore argentino Julio Cortázar inventava, nel 1946, per la sua raccolta di racconti Bestiario. Una vecchia dimora popolata di presenze inquiete, misteriose, tanto da indurre il lettore a pensare che i due protagonisti, fratello e sorella in odore di incesto, stiano vivendo una moderna rivisitazione di “The fall of the house of Usher” di Edgar Allan Poe. E che, invece, si rivela una sottile allegoria delle forme di pressione angoscianti e angosciose che si possono attuare nei confronti delle persone. Una sorta di premonizione dell’autoesilio che avrebbe portato lo scrittore argentino, nato in un sobborgo di Bruxelles, a vivere gran parte della sua vita a Parigi, lontano da Buenos Aires.
Ana Blandiana si spinge un passo più in là. La scrittrice romena inventa una replica di Joseph K. di Il processo di Franz Kafka, il personaggio che una mattina viene arrestato “perché qualcuno doveva averlo denunciato, senza che avesse fatto nulla di male”. Lo catapulta in un momento storico in cui il Potere di Nicolae Ceaușescu ha ridicolizzato ogni richiamo alla ragione. Imprigionando i suoi sudditi in uno schema di controllo che non risponde più ad alcuna regola. Dal momento che si permette di perseguitare le persone con metodi del tutto slegati da un seppur formale rispetto di leggi oppressive.
Tutto è grottesco in Applausi nel cassetto, il romanzo di Ana Blandiana, la poetessa romena di Timişoara che ha creato insieme al marito Romulus Rusa il Memoriale delle vittime del comunismo e della resistenza. Tradotto con grande forza da Luisa Valmarin per Elliot (pagg. 389, euro 18,50), il libro diventa pagina dopo pagina un fluviale, multiforme affresco pieno di simboli e di metafore, che reinventa in forma narrativa la censura e l’isolamento vissuto negli anni Ottanta del ‘900 da Odilia Valeria Conan, questo il vero nome della scrittrice.
Per molto tempo la Securitate ha chiuso Ana Blandiana dentro un recinto. Pedinata da loschi figuri, isolata dagli affetti più cari, impossibilitata a pubblicare i suoi libri, lei ha trovato nella scrittura la forma di resistenza più forte alla tentazione di lasciarsi portare via dalla depressione. Il suo nome è stato cancellato a lungo dagli avvenimenti culturali. Volevano che i romeni dimenticassero la scrittrice, membro di diverse accademie della poesia europea, insignita in Italia dei Premi Acerbi e Camaiore per le sue raccolte di versi: Un tempo gli alberi avevano gli occhi (Donzelli 2004), Il mondo sillaba per sillaba (Edizioni Saecula 2012), L’orologio senza ore (Elliot 2018).
Proprio lì, tra le parole e le storie, attento a non disancorarsi dalla scrittura, anche quando il buio della ragione sembra prevalere su tutto, si rifugia il protagonista di Applausi nel cassetto. Sì, perché Alexandre Şerban si trova a chiedersi se sia stato più vigliacco o più coraggioso degli altri suoi amici, ricordando che “tutto era cominciato banalmente” con una sorta di festa tra amici a casa sua. Dove, a differenza delle sedute approvate dal Partito, c’era “un maggior grado di libertà delle discussioni e per la presenza, piuttosto anemica, di qualche spuntino e di bevande alcoliche”. Fino a quando un trillo del campanello, “violento e impaziente”, è riuscito a fermare nella gola dei convitati le frasi che stavano pronunciando.
Tre “uomini furiosi” si materializzano dal nulla. Tre sconosciuti che entrano in casa spingendo il padrone da parte. Un grassone, un mingherlino e un tipo più anziano, che non dichiarano chi sia stato a mandarli e perché. Probabilmente fanno parte di un sistema di controllo concentrico. Pedine di un microcosmo popolato, su e giù per le scale del condominio, nelle strade del rione, nei quartieri che si spingono verso la periferia, da altrettanti figuri “intenti a sorvegliarsi l’un l’altro, ma al tempo stesso solidali tra loro”.
Non formulano accuse, non recitano regolamenti né oscuri articoli di leggi. Anzi, cercano di creare attorno a loro un’atmosfera cameratesca. Gigioneggiano, ridono, prendono in giro gli annichiliti convitati. Ogni loro parola, però, cela il soffio di qualche livida minaccia. Non si riferiscono mai ai loro mandanti. Loro sono l’incarnazione stessa di chi controlla, sorveglia, e se serve punisce.
“Non mi conosci, non sai chi sono – spiega quello che sembra il capo del terzetto – e del resto la mia persona privata non ha assolutamente alcuna importanza. Non sono io qui, ma la mia funzione, e una funzione non può essere né vigliacca, né ipocrita. Una funzione non ha sentimenti, ma indicazioni e obiettivi”.
Ma poi, che senso ha sapere chi sono esattamente gli uomini che si permettono di terremotare le vite degli altri? La funzione non ha nome. Esegue ordini che si autoalimentano, e che non hanno bisogno di giustificarsi davanti a nessun tribunale. “Potevano dirmi – pensa Alexandre Şerban – che erano della nettezza urbana o dell’Icral o dell’Icab o dell’Ideb, comunque non so che significato abbiano tutte queste serie di iniziali, quale altro significato oltre a quello di avere diritti su di me. Chi gli avesse dato questi diritti era anche più difficile da capire: altre iniziali, probabilmente, ancora più ermetiche, corroborate da diritti anche maggiori”.
C’è un solo antidoto per ribellarsi al controllo totale. Accettare la malattia, l’anomalia, le accuse più assurde che grandinano su chi si ostina a pensare seguendo le traiettorie del pensiero libero. Costringersi a fare il proprio lavoro, a scrivere ascoltando l’urgenza di libertà che rimbomba nella testa. Nella convinzione che è necessario accettare “la follia, nella misura in cui la razionalità, la salute, la mia normalità ne hanno bisogno per difendersi da loro”.
Ed è questo “vaccino ancora non omologato”, il rifiuto di seguire la logica claustrofobica di qualsivoglia tipo di canone comportamentale, che fa esplodere la struttura di Applausi nel cassetto. Pagina dopo pagina il romanzo si frammenta, si ramifica in una grandinata di vicende apparentemente slegate tra loro. In un labirinto di destini incrociati. Una storia vede muoversi diversi personaggi attorno a uno scavo archeologico di un sito bizantino. Un’altra racconta l’impensabile internamento di uno scrittore in un ospedale psichiatrico soltanto per aver ricordato, nel corso di una visita ufficiale a un misterioso istituto di rieducazione, che lì un tempo c’era una chiesa. Un’altra ancora segue il confrontarsi di un solitario autore con l’eterno scorrere di un fiume.
Erano gli anni del terrore staliniano quando Michail Bulgàkov decise di portare al centro del suo capolavoro Il Maestro e Margherita (pubblicato appena nel 1967, quasi trent’anni dopo la morte dell’autore) un bizzarro esemplare di dissidente. Uno scrittore che si era messo a lavorare a una storia su Ponzio Pilato e che la critica di regime aveva demolito subito, bollandolo come pazzo. Perché, come sentenzia la compagna Mardare di Applausi nel cassetto, “voi scrittori vi lasciate trasportare troppo dalla fantasia invece di basarvi principalmente sui fattori di qualità ed efficienza della realtà con sviluppo prioritario”.
Per la compagna Mardare, come per tutti gli altri sgherri che servono “la funzione”, il Verbo incarnato in pochi, basilari, immutabili dettami ideologici, l’atto di scrivere è un’attività sovversiva. Ha la forza di una locomotiva lanciata a tutta velocità contro il muro della realtà. Fermarla non è affatto semplice. Perché servirebbe, come spiegava lo scrittore ungherese Peter Esterházy nel suo Non c’è arte (tradotto da Mariarosaria Sciglitano con Giorgio Pressburger per Feltrinelli nel 2008), “una procedura qualsiasi, cosa che poteva essere considerata come una sorta di prima presa delle misure, un primo passo seppure incerto sulla strada – annunciatasi visibilmente complicata –, verso la giustizia sociale”.
E non importa se quella procedura prevede l’uso della forza, delle minacce, delle botte. Oppure richiede la somministrazione del più sottile metodo di disgregazione psichica. Quello che l’ambiguo, camaleontico, grottesco dottor Bentan mette in pratica in un bizzarro manicomio per rieducare lo scrittore. Facendo ricorso anche ai richiami erotici di una fragile infermiera, trasformata in una bambola di carne al servizio della causa.
Una prigione sanitaria delle emozioni, dei pensieri, del concetto stesso di essere, il manicomio di Applausi nel cassetto, che richiama alla memoria il calvario del matematico marxista Leonid Plyusch. Curato per anni in strutture psichiatriche di Stato con massicce dosi di haloperidol e insulina. Nel tentativo di sradicargli dalla testa le sue idee sulla plateale violazione dei diritti dell’uomo perpetrata con sistematica puntualità nell’Urss.
Un sistema, quello dell’internamento nei manicomi, reputato necessario per rieducare chi metteva in dubbio la bontà del modello sovietico. Perché, come spiegava Stalin, “quando i bolscevichi sono arrivati al potere, erano teneri e permissivi con i loro avversari. Avevamo cominciato con un grande errore. La tolleranza verso quel tipo di potere era un crimine contro le classi lavoratrici”.
Alla grande poetessa Anna Achmatova, che trascorse diciassette mesi al gelo fuori dalle carceri di Leningrado per avere notizie di suo figlio Lev, una donna chiese: “Ma lei può descrivere questo?”. Lei rispose: “Posso”. E dopo qualche tempo diede forma a una delle sue liriche più strazianti e belle: “Requiem”. Forse Ana Blandiana si è ricordata di lei, mentre scriveva Applausi nel cassetto, un romanzo nato nel silenzio e nella solitudine della persecuzione politica. E portato a termine dopo la morte violenta del dittatore Ceaușescu.
Ana Blandiana ha voluto fare di questo libro un viaggio nelle distorsioni del Potere. Un’irridente, linguisticamente stratificata analisi dei pericoli legati alla trasformazione dell’ideologia in dogma. Un liberissimo, appassionato ragionamento sul ruolo della letteratura che può scardinare e ricomporre a piacimento gli schemi strutturali del romanzo stesso. Perché, in fondo, ogni autore deve tenere fede a un unico dovere: quello di esprimersi con l’aiuto della scrittura.
La poesia, l’invenzione letteraria, dice Ana Blandiana, non potrà mai inchinarsi davanti a nessuno. Non dovrà indietreggiare se la realtà va fuori rotta. Non smetterà di credere che il presente sia solo uno specchio in cui si riflettono il passato e il futuro. Come nel quadro di Giorgione “Le tre età dell’uomo”. E che nessun Potere potrà mai illudersi di indirizzare, con il proprio credo, il libero dialogo tra gli esseri umani e la Storia. Perché i libri non bruciano, diceva l’aristocratico, diabolico Woland di Bulgakov. I pensieri non restano fermi a lungo nelle strettoie di una prigione. E la libertà di immaginare sguscia via quando le catene provano a bloccarla.