Speciale
Un verso, la poesia su Doppiozero / Paul Celan. Laudato tu sia, Nessuno
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso apre la seconda strofe della poesia di Paul Celan intitolata Psalm (Salmo), cuore della raccolta Die Niemandsrose (La rosa di Nessuno), del 1963. Un verso che nel suo movimento e nella sua intonazione accoglie la preghiera rivolta a Colui che è il principio e il fondamento del visibile e dell’invisibile, e allo stesso tempo mostra di quella preghiera l’aspro e desolato rovesciamento, la sua amara cancellazione. La laude è infatti diretta a un’altra presenza, anzi all’abolizione e alla deflagrazione di ogni presenza, Nessuno. Nella traduzione ho usato la forma medievale, ancora prossima al latino liturgico della Laus Deo, che può rinviare anche al francescano Cantico delle creature (“Laudato sii, mi’ Signore”). Anche il titolo della poesia, Psalm, rinvia alla preghiera biblica (il libro dei Salmi).
Ma ecco il testo nella lingua tedesca di Paul Celan, seguito da una mia traduzione che risale al 1996 (ora nel quaderno di traduzioni poetiche L’ospitalità della lingua).
Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehm,
niemand bespricht unsern Staub.
Niemand.
Gelobt seist du, Niemand.
Dir zulieb wollen
wir blühn.
Dir
entgegen.
Ein Nichts
waren wir, sind wir, werden
wir bleiben, blühend :
die Nichts-, die
Niemandsrose.
Mit
dem Griffel seelenhell,
dem Staubfaden himmelswüst,
der Krone rot
von Purpurwort, das wir sangen
über, o über
dem Dorn.
Nessuno con terra e argilla ci forma,
nessuno soffia nella nostra polvere.
Nessuno.
Laudato tu sia, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire,
incontro a te
venire.
Un nulla eravamo,
siamo, fiorendo,
un nulla resteremo :
rosadinulla,
rosadinessuno.
Con
il pistillo animachiara,
lo stame cielodeserto,
la rossa corolla
del verboporpora che noi cantammo,
sopra, oh! sopra
la spina.
Il gelo di un’assenza senza confini, il vuoto della perdita di ogni senso, è raccolto nel Niemand, nel Nessuno che apre la poesia. Il niente si fa figura, dunque, si leva dal vuoto diventando destinatario dell’allocuzione poetica. Non si tratta di una semplice sostituzione di Nessuno a Dio, del niente al divino, ma di una rappresentazione che svuota la creazione, l’atto della creazione descritto nella Genesi (2,7), del suo stesso gesto, del suo senso, anche se la materia per dire questa cancellazione non muta, è ancora la terra, e l’argilla, e la polvere, e su di esse c’è il soffio: “Nessuno con terra e argilla ci forma, / nessuno soffia nella nostra polvere”. Si potrebbe annettere questa scena deprivata del suo sovrano fondamento a una teologia apofatica che nomina l’Assenza, a un’idea di creazione destituita del suo principio, e certamente sullo sfondo c’è anche questo sguardo sul nulla sconfinato che presiede alla parola, che insidia la parola e la ferisce (ma è più esplicita in Edmond Jabès, dal Libro delle interrogazioni al Libro dell’ospitalità, questa immagine di una creazione sospesa nel vuoto di senso, e nella ferita dell’Assenza).
Qui l’aspra parodia della Genesi (parodia nel cui ordine va ascritta anche l’operetta morale di Leopardi Storia del genere umano, che ricalca nel titolo la Historia totius generis humani della Vulgata) ha un doppio movimento: da una parte dice la cancellazione del divino dischiusasi col tragico del Novecento – la nientificazione messa in opera nei campi di sterminio –, dall’altra allude a quel “nessuno”, a quella privazione di nome, e di memoria, che sta nel respiro stesso dell’epoca perché nell’epoca ha aperto, con la Shoah, l’abisso del vuoto di senso. Giuseppe Bevilacqua, strenuo e mirabile traduttore e interprete dell’opera poetica di Celan (a lui dobbiamo l’ottimo “Meridiano” celaniano), sottolinea bene, nel Niemand, questa presenza dei “sommersi”, per usare la parola di Primo Levi, cioè “i morti ignoti, cancellati totalmente dalla dimensione dell’esistere perché privati anche della sopravvivenza o reviviscenza nella memoria e nella pietà dei viventi”.
E quanto questa opposizione di oblio e memoria (Papavero e memoria, Mohn und Gedächtnis, è il titolo della prima raccolta poetica di Celan) agisca nel farsi stesso della poesia, della sua lingua, è anche detto dalla dedica della raccolta Die Niemandsrose a un poeta come Mandel’štam, poeta dell’esilio, della sparizione nella terra dell’esilio, poeta tradotto da Celan (che è anche traduttore di Ungaretti : il che va ricordato proprio a proposito del rapporto tra il tragico e la memoria). “Si pensa contro l’oblio”, dice Jabès in uno scritto intitolato appunto Sur la poésie. Mentre cito questa frase, riferendola alla poesia di Celan, risento la voce di Jabès che mi raccontava, nella sua casa parigina di rue l’Epée de bois, di quando Celan, in quella stessa casa, leggeva ad alta voce, certe sere, le proprie poesie (e sul poeta di Die Niemnadsrose Jabès ha scritto pagine molto belle, in una commemorazione tenuta in Germania, rievocando la scena interiore di un dialogo amicale).
Torniamo al “fiorire”, a quel wollen /wir blühn della seconda strofe, che sopravviene come un’onda di vita a dare ai versi un loro ritmo. Quel “fiorire” da una parte è la forma visibile dell’assenza, il suo mostrarsi, dall’altra è il movimento verso la memoria che la poesia accoglie e rappresenta. Questo fiorire è dunque anche un attingere alla luce della parola poetica, che è parola “sorvolata da stelle”, das sternüberflogne, come Celan dice in Argumentum e silentio, una poesia dedicata a René Char.
Nel fiorire permane, certo, l’appartenenza al nulla, ma questo nulla si mostra nella forma della rosa, rosadinulla, rosadinessuno: è il lampo dell’apparire, il lampo dell’esistere, sul fondo vuoto di senso, che prende la forma della rosa. Questa rosa è la poesia, il fiore della poesia, ma nel suo nome, nella sua lingua, non abolisce il respiro del nulla, non abolisce il tragico che abita le sue lettere.
Die Niemandsrose, che dà il titolo alla raccolta di sessantotto poesie, compendia in un solo nome quelle due figure, peraltro congiunte, che per un poeta come Leopardi sono il deserto e il fiore. La leopardiana ginestra, con il suo esile profumo, con il suo fuggitivo apparire contro la scena della distruzione, e sul fondo di una civiltà che abolisce il senso della finitudine, annuncia la celaniana rosadinessuno. La ginestra e la Niemandrose. L’una e l’altra dicono la poesia, la sua lotta contro la cancellazione, contro l’oblio. Ma anche, allo stesso tempo, dicono l’appartenenza del fiorire al tragico. Dicono la ferita che nessun dio può redimere.
L’ultima strofe descrive, ricorrendo alle immagini di una cristologia del dolore (la corolla, il rossoporpora, la spina), questo cuore di luce nel deserto e nel nulla che è la poesia: la dolorosa rima (schmerzliche Reim) del poeta qui cerca parole che, in un giro di lampeggianti condensazioni di immagini, e congiungendo figure e colori, dicano il cuore della rosa, il battito cardiaco della poesia. Il baleno di luce nella ferita. Anche questo baleno via via nell’ultima stagione della poesia di Celan si spegnerà.
È solo qualche appunto al margine di Psalm, non certo un commento. Il testo andrebbe letto in una relazione stretta con gli altri testi di tutta la raccolta Die Niemandsrose, nei cui versi centrale è la figura di Mandel’štam, e con essa, le figurazioni dell’esilio, le immagini del disperso e della sparizione. Poi che la poesia di Celan è una tessitura tesissima e ricca di rinvii, un cammino lungo diverse stazioni con mille risonanze, fatto di dialoghi profondi con i poeti tradotti, con la grande poesia non solo tedesca, con le figure di un’epoca che ha tolto alla bellezza la sua luce.
Un verso:
Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde
Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle
Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva
Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato
Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri
John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre
Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest'albero mutilato
Antonio Machado. Viandante, non c'è cammino