Ricordi di un entomologo / Jean-Henri Fabre, La passione degli insetti
Jean-Henri Fabre è stato il principe degli entomologi, il fondatore di questo mestiere, così strano, curioso ed emozionante. Ma prima di tutto è stato uno scrittore, e che scrittore! Chi legge Ricordi di un entomologo (tr. it. di Laura Frausin Guarino, Adelphi), capisce al volo cosa significa saper descrivere, raccontare e commentare. Basta una sola riga d’avvio d’un capitolo di quel libro pubblicato in originale in dieci volumi tra il 1879 e il 1907, per capire cosa vuol dire esporre una materia così splendida, eppure anche ostica, com’è la vita degli insetti. “Ecco come andarono le cose”, così principia Lo scarabeo d’oro, primo capitolo del primo volume dei Ricordi, per poi proseguire: “Eravamo cinque o sei, io il più vecchio, il maestro, ma soprattutto il compagno e l’amico; loro giovani dal cuore ardente, dalla fervida immaginazione, traboccanti di quella linfa che scorre nella primavera della vita e ci rende così esuberanti e assetati di conoscenza”. Fabre sta per raccontare la ricerca dello scarabeo sacro in un villaggio vicino ad Avignone nei pressi del Rodano da parte di un gruppo di osservatori guidati da lui. La sua prosa raccoglie il meglio della lingua francese dell’Ottocento: elegante, ricca, piena di termini desueti, capace di reggere frasi lunghe e ampie, e d’inarcarsi senza perdere in freschezza e vivacità. Fabre effonde passione in ogni riga, e sviluppa attese e curiosità come solo un fervente devoto sa fare. Prima ancora che uno scienziato, il Padre dell’entomologia, è infatti un narratore di fatti minimi. Com’è stata ricca e sontuosa la scienza, fino a che ha avuto autori come lui.
Quasi della stessa levatura – forse un gradino in meno – è la prosa di Konrad Lorenz, quella dei libri più narrativi, come L’anello di Re Salomone. Lorenz tuttavia non possiede la plasticità di Fabre, per quanto sia un narratore in questo libro, e anche in altri. Poi dopo di loro la prosa scientifica dei successori è andata via via perdendo la vitalità di questi fondatori, per quanto gli entomologi, forse in virtù della loro attività così particolare, che porta all’osservazione del minuscolo, sono tra i naturalisti ancora oggi quelli più dotati d’una lingua letteraria; forse è la necessità di comunicare qualcosa che appartiene all’esperienza di tutti, perché gli insetti ci circondano, e da bambini sono uno dei primi oggetti di spontanea osservazione. Jean-Henri Fabre nasce a Saint-Léons nel 1823; è un autodidatta, studia botanica, poi diventa professore di Liceo, e corrispondente di Darwin, di cui parla nel secondo volume dei Ricordi, per quanto Fabre sia poco convinto delle idee evoluzionistiche.
Nonostante questo apprezza ed è apprezzato di Darwin proprio per i dettagli delle descrizioni. Anche Darwin è un’ottima penna, tuttavia Fabre lo supera quanto immaginazione letteraria, non certo per l’immaginazione scientifica, che in Darwin è a livelli eccelsi e probabilmente inarrivabili. Lo scarabeo d’oro e La gabbia, i due primi capitoli dei Ricordi, sono un assaggio goloso: di sicuro chi comincia a leggere non riuscirà a fermarsi e troverà soddisfazione nel volume adelphiano di 645 pagine. Che sia venuta finalmente l’ora di pubblicare in italiano l’intera opera dell’entomologo francese? Da tanti anni non si trovava infatti più in commercio la traduzione di Paola e Giorgio Celli dei due primi tomi del naturalista francese, pubblicata da Einaudi nel 1972 nella collana dei Millenni. Lo scarabeo stercorario è uno degli insetti preferiti da Fabre in virtù del suo colore, ma anche per l’attività che ci descrive in modo fascinoso: la pallottola di sterco che fa rotolare davanti a sé. Per gli antichi egizi, ricorda, quella palla di materiale di scarto animale era l’immagine stessa del mondo.
Ma prima di raccontare le peripezie dello scarabeo il nostro autore ci introduce ai vari coleotteri che s’incontrano sull’altopiano sabbioso di Les Angles nel corso della ricerca del suo beniamino. Sono descrizioni che possiedono la bellezza del ritratto pittorico. Con piccoli tocchi, riferimenti precisi, e senza mai affondare nell’arida scienza classificatoria, facendo lievitare le frasi con la sua capacità di creare attese da narratore, Fabre ci rende edotti sulla dotazione degli insetti: corni appuntiti e curvati all’indietro, punte taglienti, raschiatori, vomeri naturali, bracci e tubercoli. Il culmine è raggiunto nella descrizione delle ametiste: gli stercorari sono autentici gioielli viventi, in particolare quelli che vivono nei paesi tropicali, il cui verde sfavillante compete con gli smeraldi; nella Guyana invece sono rossi con sfumature metalliche tra il rame e il rubino. Meno belli, ma non per questo meno interessanti, gli stercorari che vivono in Francia, cui dedica i due capitoli tradotti ottimamente da Laura Frausin Guarino, la cui prosa è più tambureggiante di quella dei coniugi Celli, altrettanto bravi e competenti. Giorgio, personaggio oggi dimenticato, è stato non solo entomologo, docente all’Università di Bologna, ma anche un poeta sperimentale, romanziere, divulgatore eccellente, bizzarro membro del Gruppo 63, amico di Umberto Eco e probabile ispiratore del metodo con cui si uccidono i monaci nell'abbazia del Nome della rosa.
Celli nella sua prefazione al volume einaudiano sottolinea come la filosofia della Natura di Fabre sia formulata in chiave spiritualista, “nonché una teoria del comportamento istintivo che, senza essere particolarmente originale, viene sviluppata organicamente e per qualche aspetto conserva ancora oggi un certo grado di attendibilità”. Il primo capitolo riguarda dunque la palla di sterco, il modo con cui lo scarabeo la sposta e la gestisce, poi il suo utilizzo come cibo e alimento per le uova deposte dentro la pallottola, che a volte arriva alle dimensioni d’una arancia. Sono pagine in cui Fabre riferisce come l’insetto che spinge venga aiutato da un altro coleottero, che poi tenta lestamente di derubarlo. Cita Proudhon e il suo “la proprietà è un furto”, e anche l’opera di un altro naturalista, Emile Blanchard, zoologo che lo ha preceduto di poco in quel mestiere d’osservatore d’insetti, ed Etienne Mulsant, autore di una storia naturale dei coleotteri di Francia a cui Fabre si ispira e attinge. Se alla fine l’insetto ce la fa, la propria palla viene portata in una tana sotterranea e lì se ne nutre. Quella tana Fabre però non l’ha mai trovata, come racconta, e perciò la descrive attraverso le parole di altri studiosi di scarabei non sacri. Sono pagine in cui sembra di assistere a un film scientifico, perché le parole del naturalista gareggiano con le immagini visive, tanto da farci vedere ciò di cui parla come se fossimo con lui sui sentieri e nei terreni alla ricerca di questo insetto sacro.
Il naturalista francese si entusiasma delle peripezie erculee dei suoi insetti, e rivolto a loro li incoraggia: “Su, forza!”. Come novello Sisifo, l’insetto deve spingere in alto la palla, la quale rotola di continuo in basso, e ancora riprova. Per studiare il suo animale Fabre si procura lo sterco pagando uno stalliere, cosa che provoca, come racconta, un guaio con il suo datore di lavoro. Fa esperimenti ingabbiando i suoi scarabei, a volte con scarsi successi. Nonostante questo non s’avvilisce mai, perché il suo regno, oltre che nell’entomologica, è nella letteratura. Un altro aspetto originale del libro riguarda l’attenzione ai luoghi. Senza i luoghi i Ricordi non avrebbero la forza che hanno: sono fondamentali come mostrano anche le fotografie scattate dal figlio Paul e inserite nel libro, che danno un po’ il sapore dell’epoca e della fotografia scientifica da dilettanti (ecco cosa è Fabre padre: un dilettante nel senso etimologico del termine: uno che prova piacere e dà piacere ai suoi lettori con l’entusiasmo del neofita). Già nelle prime pagine sono i luoghi dove si trovano gli insetti ad essere descritti, ma il culmine è nella ascesa al Mont Ventoux nella “Prima serie” dei Ricordi, lo stesso scalato da Francesco Petrarca nel 1336, situato in Provenza, una cima di quasi 2000 metri che Fabre ha salito tante volte. In cima le nuvole basse fanno smarrire l’orientamento all’entomologo e ai suoi amici che vagano fino a che, fiutando il vento e la direzione della pioggia sui loro abiti, capiscono la direzione da prendere per arrivare al rifugio. L’altro aspetto che salta agli occhi è che Fabre non è quasi mai solo nelle sue esplorazioni: le condivide con parenti e amici. Un’allegra brigata che esplora luoghi sabbiosi, colline, prati, giardini, montagne. La scienza non è per lui solitudine ma condivisione.
Per quanto, come ogni per vero entomologo, c’è all’origine di tutto una passione personale, singolare e individuale, ma sempre spartita con altri, almeno nella caccia all’insetto. Non a caso Gerard Durrell nella sua introduzione al libro parla di esplorazione dell’Africa nera. Che gli insetti siano il nostro continente oscuro? Possibile. Chi non ancora conosce la prosa di questo erede dei romantici del suo paese, nutrito di arte e letteratura simbolista, non ha che da procurarsi il primo volume di questa epopea entomologica, che non ha nulla da invidiare a un grande romanzo dell’età tardo romantica. Vi troverete all’opera un Balzac del mondo minimo e quasi invisibile, quello che si muove sotto i nostri piedi. E sarà come fare un viaggio in un pianeta semisconosciuto, l’Amazzonia lillipuzziana, che, come scrive nella sua presentazione al libro Gerald Durrell, rischiamo sempre di calpestare con le nostre scarpe e “che così raramente ci degniamo di osservare”.
Questo testo riprende alcune parti di un articolo apparso nella sezione per gli abbonati del quotidiano “La Repubblica”, che ringraziamo.