“Playtime”, 50 anni dopo / Tativille rivisitata

16 Dicembre 2017

Può accadere che un film riesca a cambiare il nostro modo di vedere le cose? Qualche volta sì. Secondo Wim Wenders, per esempio, il verde dei prati non è più stato lo stesso dopo Antonioni. Allo stesso modo, un corridoio di uffici o un ingorgo automobilistico non sembrano più gli stessi dopo Jacques Tati. Fateci caso. Dopo aver visto Playtime, lo sbuffare di una poltroncina in pelle – di quelle che potete trovare nell'anticamera di una banca o di uno studio medico – non avrà più lo stesso suono. 


 

 

Di Tati è stato detto (talvolta un po' a sproposito) che ha insegnato agli spettatori a “vedere” meglio, ad “ascoltare” meglio. Per questo ha girato Playtime su pellicola 70 mm; per questo ha registrato rumori e dialoghi su più piste sonore. Per godere davvero questa bal(l)ade di un gruppo di turiste americane e di un buffo everyman in soprabito grigio, bisognerebbe rivederla più volte (secondo Noël Burch, addirittura «da più distanze diverse»), prestando attenzione a ogni dettaglio della scenografia, a ogni rumore, a ogni azione.

 

Spettatori e critici non erano preparati a tanto (e c'è da domandarsi in quanti lo siano oggi). Così, quando il 16 dicembre 1967 questo monolite cinematografico atterrò nei cinema di Parigi, le reazioni furono, salvo eccezioni (celeberrima e citatissima la recensione-lettera aperta di Truffaut: «Playtime è l'Europa del 1968 filmata dal primo cineasta marziano»), perlopiù di sbigottimento, noia, rifiuto. «Un bidone mostruoso» (Henri Chapier, “Combat”); «Bressoniano nella forma e reazionario nella sostanza» (Goffredo Fofi, “Quaderni piacentini”); «Una pietosa buffoneria, dove l'ingenuità fa concorrenza con la pretenziosità» (Jean-Loup Passek, “Jeune cinéma”). I distributori non sapevano che farsene. Tati cercò in tutti i modi di salvare la sua creatura dal disastro, tagliando e rimontando. Tutto inutile: il film colò inesorabilmente a picco. E, come un vero capitano di lungo corso, Tati affondò con esso. 

 

Oggi il cinema di Tati – Playtime incluso – è oggetto di ammirazione indiscussa: da Lynch a Wes Anderson, da Iosseliani a Kaurismaki, sono in molti a rendergli più o meno apertamente omaggio. È facile, a cinquant'anni di distanza, irridere la miopia dei critici, l'ottusità dei distributori, la superficialità del pubblico. Bisognerebbe piuttosto ammettere che Tati, forte degli enormi incassi di Giorno di festa, Le vacanze di Monsieur Hulot e Mon Oncle (quest'ultimo insignito dell'Oscar come miglior film straniero), aveva lanciato il guanto di una sfida davvero ardua, fermamente convinto che gli spettatori l'avrebbero coraggiosamente accettata. Non fu così.

 

 

Ma che cos'ha questo film di tanto insolito da suscitare reazioni così scomposte? Le dimensioni, per cominciare. «Playtime c'est gigantesque, le plus grand film qui ait été tourné sur les temps modernes», ha scritto Marguerite Duras. Autentico kolossal comico, Playtime è stato realizzato nell'arco di tre anni complessivi (1964-1967), di cui soltanto uno effettivamente utilizzato per le riprese. Il resto venne impiegato nella costruzione della scenografia: Tativille, una metropoli edificata ex nihlo nei pressi di Vincennes dall'architetto Eugène Roman, a partire dai disegni di Jacques Lagrange e dello stesso Tati. Le cifre sono esorbitanti: otto ettari di superficie, 50.000 metri cubi di cemento, 4.000 metri quadri di plastica, 1.200 metri quadri di vetro; e inoltre un supermercato, impianti di riscaldamento, due centrali elettriche in grado di fornire energia a una popolazione di 15.000 abitanti. Il tutto, per un costo complessivo di oltre 15 milioni di euro attuali.

 

C'è qualcosa di meravigliosamente eroico e prometeico in tutto questo. Tativille è uno di quei “sogni a occhi aperti” che l'effimera storia del cinema è talvolta riuscita a partorire. Come la Montecarlo di Femmine folli ricostruita quasi in scala 1:1 da Erich von Stroheim o il battello trasportato oltre una montagna a forza di funi e pulegge nel Fitzcarraldo di Werner Herzog. È un po' difficile pensare a Tati come a una sorta di precursore di Herzog o come un “figlio spirituale” di Stroheim. Lui stesso, forse, avrebbe preferito il paragone con Buster Keaton, che in Come vinsi la guerra fa precipitare un autentico convoglio ferroviario in un fiume. Eppure, la sola idea di Tativille non ha nulla da invidiare a quelle imprese. Con un risvolto beffardo in più. La città di Tati doveva sopravvivere al film, essere trasformata in un centro di produzione cinetelevisivo: finì invece rasa al suolo per fare posto a un'autostrada. Involontariamente, Playtime ha dunque finito per essere, fra le altre cose, il “documentario” su una città perduta, come se un qualche greco antico, munito di macchina da presa, avesse fatto in tempo a filmare i giardini pensili di Babilonia. 

 

Jacques Tati (a destra) davanti a un modellino del set di Playtime.


A dispetto del parere di molti commentatori, Tativille non è Alphaville, la tecnocratica “capitale del dolore” di Godard; né tantomeno l'opprimente Metropolis ideata da Fritz Lang. Con Playtime, Tati ci offre invece la più sottile e complessa riflessione sull'architettura che il cinema abbia dato fino a oggi. Tativille è il precipitato delle fantasie che avevano guidato la progettazione urbanistica occidentale a partire dal secondo dopoguerra. Ripercorrendo i mutamenti del paesaggio urbano di quegli anni sulla scorta dei film di Tati, l'ingegnere e storico delle costruzioni Matteo Porrino ha ricordato come «le nuove teorie funzionaliste sulla città e l'abitazione […] avrebbero portato ben presto al formalismo e all'omologazione degli edifici». E concludeva, riferendosi esplicitamente a Playtime: «La nuova estetica modernista trattava il palazzo per uffici, così come l'aeroporto o il centro commerciale, come un monumento e trasformava la macchina, da strumento, in un magnifico oggetto di contemplazione».

 

Bella e invivibile, senza passato né memoria, Tativille è un macrocosmo artificiale che rimanda unicamente a se stesso: a sottolinearlo, nel corso del film, abbiamo la Torre Eiffel e l'Arco di trionfo riflessi sulle vetrate degli edifici, come miraggi. Un'artificialità che si riflette sia nella lingua («How do you say “drugstore” in French?», domanda l'americana Barbara. «Drugstore», risponde Hulot, soprappensiero) sia negli individui, di fatto indistinguibili gli uni dagli altri: persino Hulot, l'eroe comico, finisce per dissolversi in una serie pressoché infinita di sosia. Quanto all'ipervisibilità promessa dalla sovrabbondanza di superfici riflettenti, essa si traduce in un'incapacità di vedere o in un ostacolo al movimento (le pareti trasparenti si rispecchiano le une nelle altre, creando equivoci a non finire). 

 

 


Più che una critica pessimista della modernità, Playtime è l'opera di un «umanista perplesso» (così l'ha definito Giorgio Placereani) che ha vissuto la Francia dei Trente Glorieuses, si è guardato attorno a lungo e si è reso conto che qualcosa stonava. «Io non sono nemico della modernità, figuriamoci», protestava Tati a coloro (ed erano in tanti) che lo accusavano di essere soltanto un nostalgico conservatore. «Sono nemico dei programmatori della modernità... Io dico che l'uomo non è al passo dei tempi, non è ancora preparato al futuro che gli stanno facendo vivere. Dico che esiste una frattura tra quello che siamo realmente e quello che vogliono farci essere».

 

Non è un caso, forse, che il film esca soltanto sei mesi prima del maggio parigino. Lo slow burn della seconda parte del film, che ribalta il rigore geometrico e astratto della prima in un giocoso caos, per sfociare poi nel carosello finale delle automobili imbottigliate nel traffico, trova una sorta di pendant letterario nelle parole che Italo Calvino scrive nella primavera del 1968 dalla capitale francese: una città «senza macchine né metro, con code ai negozi... le macchine dei gollisti clacsonanti», in cui «non si fa altro che girare a piedi tra continui allarmi, in un clima di eccitazione straordinario». Sembra quasi l'illustrazione della tesi di Tati, secondo cui un vero film comico dovrebbe proseguire fuori dalla sala cinematografica e continuare nella vita quotidiana. 

 

 

Tati profetico, dunque? Semmai, Tati cronista visionario della propria epoca. Come giustamente scriveva Serge Daney, «ogni film di Tati segna nello stesso tempo: a) un momento nell'opera di Jacques Tati; b) un momento nella storia del cinema e della società francesi; c) un momento nella storia del cinema». Ecco, a mezzo secolo dal debutto, di Playtime rimane senza dubbio la grandezza, intesa come l'aspirazione a un cinema in grado di abbracciare con il proprio sguardo il mondo – e la vita, la società, il proprio tempo – nella sua interezza (Tati definiva Playtime «un film da abitare»). Uno sguardo capace di rivelare non soltanto le possibilità ancora inesplorate del grande schermo, ma anche quanto il mondo stesso sia una fonte inesauribile di spunti comici. 

 

Maurizio Nichetti ha raccontato che nell'autunno del 1979, fresco del successo internazionale di Ratataplan, era stato invitato alla Sorbona da Christian Depuyer, studioso di cinema italiano, per un incontro con gli studenti. Insieme ai due, ospite quasi inatteso, c'è Tati. È anziano e malato; dal 1973 non gira più film e soltanto da un paio d'anni è riuscito a riprendere il controllo delle sue opere, inghiottite dal disastro economico di Playtime. Lungo il tragitto verso l'università si mostra sfiduciato al giovane ospite italiano: il cinema comico è spacciato, inutile farsi illusioni, non c'è più posto per la pantomima e via di questo passo. Non appena scende dall'auto, però, tutto cambia. Racconta Nichetti: «Lo guardo bene per la prima volta, in piedi... Davanti a me Hulot sta attraversando la strada, si ferma a metà, comincia a evitare le macchine come un torero, fa una veronica. Come nei film, come nella vita, serio, impassibile, tragicamente comico nella difficoltà dell'attraversamento».

 

Se esiste una morale, in questo aneddoto o in tutto il cinema di Tati, è che il mondo è “solo” una gigantesca gag e bisognerebbe attraversarlo così, con serietà ma anche divertendosi (“Play time”, appunto). Come nei film, come nella vita.

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