Museo Archeologico di Napoli / Amori Divini
Qui a Napoli la giornata è afosa. La notte precedente ha piovuto poco, il che ha contribuito a innalzare il livello di umidità. Per rinfrescarsi, un custode del Museo Archeologico ha trasportato su un balcone, oltre il delimitatore di percorso, una sedia sulla quale si è seduto comodamente. Per non annoiarsi, visto che è tutto solo, naviga in rete con un dispositivo mobile.
Non c’è problema, nelle sale a lui affidate in custodia ci sono solo cocci che non si è mai saputo bene come ricomporre. L’infranto non si può ricomporre, sosteneva Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia. Lo sapeva anche Ovidio che i cocci li ha ricomposti per gioco a modo suo.
“A dire di forme alterate in forme di corpi mai visti / mi sento sedotto; dèi, ah, date respiro all'impresa avviata”. Dal 10 luglio al 15 settembre 2017 Vittorio Sermonti legge le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone (Ad Alta Voce, RAI, Radio3, da lunedì a venerdì, ore 17).
La lettura ad alta voce aggiunge al testo poetico un tono ironico mettendo in risalto l’inverosimiglianza delle leggende narrate. Perso il suo valore sociale e religioso, il mito è ridotto a un prodotto della finzione poetica che Ovidio maneggia come i decoratori francesi della seconda metà del Settecento maneggiavano i motivi ornamentali: riccioli e arabeschi, volute e ondulazioni. Uno sfoggio di abilità ed eleganza, in breve una questione di stile. Nel suo poema la metamorfosi è anche quella dei generi poetici che mescola e con-fonde tra loro. Il flusso delle immagini con-fonde i generi letterari come un mulinello nella corrente di un fiume trascina foglie e rami rimestandoli a ogni vortice. Questo rimestio produce una schiuma leggera, iridescente, cangiante e inconsistente. È una sostanza molto simile per la sua inconsistenza e la sua spettacolare iridescenza a quella prodotta dalla centrifuga dei segni, dei codici e dei linguaggi in cui siamo immersi.
Quella di Ovidio è una società delle apparenze che mostra delle analogie con la nostra, sostiene Giampiero Rosati nel saggio Narciso e Pigmalione: illusione e spettacolo nelle Metamorfosi di Ovidio (Edizioni Della Normale, 2017). Narciso e Pigmalione costituiscono due figure emblematiche della finzione che fa cortocircuito con la realtà. Sedotto dalla sua immagine riflessa, di cui non comprende l’apparenza, Narciso si ripiega su se stesso. In un rilievo in stucco di età flavia ritrovato a Stabia, il riflettersi del viso di Narciso sulla superficie di una fonte d’acqua è reso con pochi tratti di straordinaria efficacia. Alla sua sinistra un erote funerario assiste all’impossibile rapporto amoroso di Narciso con la propria immagine, che lo consumerà fino alla morte. Il suo corpo si trasformerà in un fiore, ma i corpi delle ragazze in slip e reggiseno che scattano selfie davanti allo specchio per le loro pagine Facebook e Instagram? Il mito non ha perso la sua attualità: nella piega dall’avambraccio che si flette sul braccio per scattare un selfie allo specchio s’annida l’insidia narcisistica del ripiegamento su se stessi. Anche il mito di Pigmalione non ha perso il suo smalto. Sedotto dalla sua stessa opera scolpita in avorio Pigmalione assiste alla trasformazione della finzione in una realtà che conserva i caratteri della finzione, una realtà aumentata nella quale la rappresentazione interagisce con la realtà trasformandola, reinventandola, non semplicemente rappresentandola. La seduzione opera così un processo di trasformazione rendendo ambiguo e metamorfico ciò che definiamo reale.
I miti di seduzione e trasformazione costituiscono il tema della mostra Amori Divini allestita in alcune sale del Museo Archeologico di Napoli (fino al 16 ottobre 2017). Il pregio della mostra è sollecitare un inedito interesse per le opere esposte, “Illuminate” dal poema di Ovidio che fornisce la chiave di lettura della mostra.
Il proposito dei curatori è circoscritto a un’indagine dei meccanismi di trasmissione e ricezione del mito greco attraverso i secoli, ma ora, qui, davanti a queste opere che sembrano sorprendentemente sgusciare dal poema di Ovidio, come non mettere a confronto la società delle apparenze del poeta con la nostra? In entrambe, la crisi delle ideologie e l’assenza di riferimenti certi segnano una fase di incertezza, mutazione, ambiguità, con-fusione: il falso può essere credibile, come le cosiddette post-verità, ma al tempo stesso il reale può essere ingannevole.
Il mondo di Ovidio, come il nostro, frana sotto i piedi tra bolle iridescenti, colori e fuochi d’artificio. Nel tentativo di afferrarlo si sfalda tra le nostre mani. È il fallimento del pensiero critico su cultura e società, al quale non resta che il distacco e l’ironia, sottolineata dalla lettura ad alta voce di Sermonti.
Mentre penso all’ironia come ultima risorsa del pensiero critico osservando le decorazioni in opus sectile dei pavimenti, rinvenute in area vesuviana e ricollocate in queste sale con qualche adattamento nella prima metà dell’Ottocento, emerge il ricordo di una conversazione con Francesco Leonetti avvenuta nella pausa di un convegno a Imola nei primi anni novanta.
A quel tempo Leonetti aveva naturalmente già ben chiara l'idea che era finita l'età dell'intellettuale, sostituito dall'opinionista e dallo show-man, ai quali oggi possiamo aggiungere anche il blogger, era cioè finito il ruolo del pensiero critico su cultura e società per fare spazio alla cultura dello spettacolo. Nel corso della conversazione avrebbe potuto trovare spazio anche qualche considerazione sull’ironia con la quale prendere una distanza critica dal presente ma per Leonetti, impegnato in un corpo a corpo che non ammette alcuna distanza, questo era inconcepibile.
La mostra ha dunque il pregio di portare indirettamente l’attenzione sulla crisi che stiamo attraversando e sul fatto che l’ironia potrebbe essere una risorsa del pensiero critico, se pur debole, con la quale prendere una distanza critica dal nostro presente, come Ovidio al suo, ma una volta giunto nella sala dove è esposto il gruppo scultoreo Symplegma di Satiro ed ermafrodito del I secolo d.C. proveniente dalla Villa di Oplontis (Parco Archeologico di Pompei) resto senza parole. L’opera è di una tale potenza visiva che annichilisce ogni congettura sulla crisi del pensiero critico, sull’ironia e su tutto il resto.
La scultura è presentata al pubblico in modo che l’ermafrodito mostri la schiena allo spettatore volgendo di lato il suo viso con una torsione del corpo. L’allestimento espositivo restituisce l’effetto di sorpresa che si pensa l’artista volesse ottenere: invitati dalla torsione del dorso a spostare la visuale dal lato opposto, si scopre l’ambigua identità di quello che sembrava essere un corpo femminile. Si riconoscerà in questa scelta espositiva l’aderenza a un cliché iconografico della seduzione erotica adottato anche in altre opere. Per esempio nella Venere Callipige esposta al piano di sotto. Lo riconosciamo anche in alcune immagini pubblicitarie e nella pornografia d’atmosfera, che non ha il carattere anatomico della versione hard. A questo cliché iconografico si sovrappone l’idea, formulata da Adolf von Hildebrand (Il problema della Forma nell'arte figurativa, a cura di Andrea Pinotti e Fabrizio Scrivano, Palermo 2001, p. 73) e sostenuta da Heinrich Wölfflin (L'arte classica. Introduzione al Rinascimento italiano, a cura di Rodolfo Paoli, Firenze 1978, p. 50), che la scultura antica abbia un punto di vista che prevale su tutti gli altri. Non sembra però essere questo il caso perché qualcosa mi spinge a osservare la scultura da ogni lato senza trovare un punto fermo.
Passo mentalmente in rassegna diverse ipotesi. La prima è quella cinetica di Rudolf Wittkower che trasforma lo spettatore statico in spettatore dinamico (La scultura raccontata da Rudolf Wittkower, a cura di Renato Pedio, Torino 1985, pp. 177-178), che però non posso applicare a una scultura di derivazione ellenistica, a rigore neppure alle sculture tardorinascimentali alle quali Wittkower si riferisce perché la teoria è contraddetta da Leonardo da Vinci nel suo Trattato della Pittura (a cura di Raphael du Fresne, Parigi 1651, edizione italiana a cura di Ettore Camesasca, Milano 1995, p.36). Questa iperattività della visione dipende forse dallo spessore di cui parla Auguste Rodin (H.C.E. Dujardin-Beaumetz, Entretiens avec Rodin, Parigi 1913, p.81), da porre in relazione con quanto scrive ancora Leonardo (Trattato della Pittura, p.34) richiamando l’effetto della linea funzionale descritta da Plinio, che lascia immaginare quelle parti che la figura nasconde dietro di sé?
Mah!
Continuo a girare attorno alla scultura passando in rassegna altre cinque o sei teorie diverse e in conflitto tra loro finché, considerando l’impressionante naturalismo dell’opera, concepita attraverso un’attenta osservazione della natura e del movimento del corpo umano (questa è una caratteristica dell’arte ellenistica), un’ipotesi prende il sopravvento sulle altre.
I neuroni specchio attivati dall’osservazione di un gesto o anche da una sua rappresentazione plastica stimolano in noi un movimento e insieme liberano un’emozione per empatia, come spiega l’applicazione di questa scoperta scientifica all’estetica (Cinzia di Dio, Emiliano Macaluso, Giacomo Rizzolatti, La bellezza aurea. Risposta cerebrale alle sculture classiche e rinascimentali, Psico-Art n°1, 2010).
Il gruppo scultoreo può essere considerato il fermo immagine di un equilibrio dinamico. La capacità di equilibrio dinamico consiste in uno spostamento del baricentro del corpo, con conseguente perdita e riacquisto dell’equilibrio, che per questa ragione è definito dinamico. Attratto a terra dalla gravitazione, il nostro corpo si regge solo se mantiene l’equilibrio statico e si muove solo se mantiene l’equilibrio dinamico. Il satiro riacquisterà l’equilibrio o la sua caduta sarà rovinosa? Il fermo immagine non lo rivela lasciando intendere che la relazione tra il perdere e il riacquistare l’equilibrio è una relazione drammatica. La rappresentazione congela l’azione nel punto critico di un equilibrio dinamico, che nell’economia della coordinazione motoria ha necessità di essere integrato dalla capacità di ritmo, che dosa i tempi e le intensità del movimento rendendolo fluido.
Il formidabile ritmo delle forme plastiche, che accompagna l’equilibrio dinamico, è messo in moto dalla bramosia del satiro, come il ritmo del poema ovidiano è messo in moto dall’eros, tema della produzione giovanile del poeta che si associa al mito nella produzione matura. Le Metamorfosi di Ovidio e il gruppo scultoreo in mostra all’Archeologico restituiscono una concezione della forma nella quale convivono la misura e la pulsione, l’equilibrio e il rischio di un passo falso. La stessa etimologia del termine piede, inteso come misura del verso poetico, richiama il ritmo ottenuto battendo a terra con il piede.
Torno nella terza sala per confrontare Symplegma di Satiro ed Ermafrodito con Ganimede abbevera l’aquila, opera neoclassica modellata in gesso da Bertel Thorvaldsen nel 1817. Ciò che del mondo antico all’algido Neoclassicismo è sfuggito, consegnandolo così ai tempi moderni, è il selvatico impulso all’azione, la pulsione intimamente connessa all’equilibrio e alla cadenza del ritmo, alla misura del metro. Un connubio perfettamente realizzato nell’opera di Ovidio. A questo proposito l’autore commenta: “provavo a scrivere un discorso non vincolato dal ritmo. Ma senza volere affiorava la poesia con le sue cadenze” (Tristia, IV, 10, 20-27).
La bellezza di Symplegma, che vale da sola una visita all’esposizione, sta nel mostrare come senza questa criticità non ci sarebbe equilibrio, né misura, né ritmo, sta nel mostrare come il piede è sempre in bilico sull’orlo di un precipizio.
Che sia questa l’idea di equilibrio e misura diffusasi lungo la costa del Mar Egeo, tra Grecia e Asia Minore? Alle ore 01:30 (ora locale) del 21 luglio, una scossa di magnitudo 6,7 ha squassato la terra tra la città turca di Bodrum (l’antica Alicarnasso) e l’isola greca di Kos. Cerco nella galleria fotografica del mio smartphone una fotografia del gruppo scultoreo Dioniso, Satiro e Pan (150-200 d.C.) che ho scattato al Museo Archeologico di Kos dodici ore prima del terremoto. Dioniso si piega verso il satiro perdendo il suo baricentro con un’eleganza che potrebbe tradursi in un passo di danza, così come in una rovinosa caduta. Due morti, 200 feriti e un ammontare cospicuo di danni materiali. Chiudo l’app della galleria fotografica e ripongo nella tasca lo smartphone lanciando un ultimo sguardo al gruppo scultoreo che mi ha trattenuto presso di sé più di un’ora combinando idee, ricordi e forti emozioni.
Come proposto dai curatori della mostra, il visitatore può ammirare Symplegma di Satiro ed Ermafrodito e altre opere esposte (pitture parietali e vascolari, sculture in gesso, in marmo e in bronzo, gemme e suppellettili, opere dal XVI al XIX secolo) attraverso le Metamorfosi di Ovidio ma, viceversa, può anche interpretare il poema di Ovidio attraverso la visione del gruppo scultoreo di derivazione ellenistica in cui si riflette una concezione della forma artistica e letteraria per la quale non c’è misura senza slancio e non c’è equilibrio senza rischio di precipitare. L’estetica di Ovidio pone la phantasia, l’immaginazione dell’artista al di sopra della mimesis, dell’imitazione del vero, inaugurando una nuova concezione dell’arte e della letteratura dalla quale è stato tratto quanto detto a proposito dell’incerto confine tra realtà ed apparenza, ma non si può negare che la pulsione erotica che anima la sua opera sia stata anche la causa della sua catastrofica caduta nella realtà.
“Due crimini m’hanno perduto, un carme [forse l’Ars amatoria esclusa dalle biblioteche pubbliche come opera in contrasto con la politica moralizzante di Augusto] e un errore, ma della seconda colpa devo tacere” scrive Ovidio in Tristia (II, 207-10), riferendosi a un fatto che non è noto, si suppone un adulterio nel quale Ovidio sarebbe stato coinvolto. Il carme e l’errore sono costati al poeta il confino a Tomi, una città sul Mar Nero (oggi Costanza).
Nella sua opera dominata dall’Eros e da un equilibrio instabile, che Sermonti riferisce agli scarti di timbro e alle aritmie del testo poetico, si riflette una concezione della forma artistica dove l’equilibrio si conquista assumendosi il rischio di precipitare.
Una concezione anacronistica? La storia ha delle sue correnti carsiche che riemergono improvvisamente in superficie in modo anacronistico scombussolando cronologie e schemi interpretativi, soprattutto in arte. A questo riguardo Marcel Duchamp, padre putativo dell’arte contemporanea, ci sorprende ancora una volta.
Trascrivo la testimonianza dell’artista Arakawa raccolta da Nicola e Carla Pellegrini nel 2004: “una sera, durante una cena a New York, una bella ragazza seduta di fronte a Duchamp diceva quanto fosse interessata alle espressioni artistiche nuove, e che Duchamp (un po’ ubriaco e forse anche per fare colpo sulla ragazza) si era alzato e l’aveva pregata di seguirlo. Arrivato all’ultimo piano del grattacielo, seguito da molti altri commensali, aveva scavalcato il parapetto, camminato lungo il cornicione e, una volta rientrato, aveva detto: Vedi, per te sono solo un vecchio ubriaco, ma per me è un lavoro del tutto nuovo”.
Spinto dall’ebbrezza o da Eros, o da entrambi, Duchamp si espone al rischio di precipitare camminando in equilibrio sul cornicione all’ultimo piano del grattacielo per dimostrare in cosa consiste la sua arte. Questa testimonianza invita a riconsiderare i termini del debito che l’arte contemporanea ha contratto con Duchamp alla luce della relazione anacronistica che l’opera d’arte intrattiene con la storia, e con la vita. L’opera di Duchamp è un dispositivo che fa coesistere la provocazione dadaista e la criticità necessaria al bello, il passo instabile e la scossa che ha devastato Kos, in breve la vita con tutte le sue contraddizioni, pulsioni e slanci.
Forse potrebbero essere questi dispositivi a riempire il vuoto lasciato dal pensiero critico. L’ironia da sola non basta a trarci in salvo dalla centrifuga di segni esplosi nella quale annaspiamo. Serve lo slancio vitale, la passione che spinge all’azione e un equilibrio che si ottiene solo esponendosi al rischio di precipitare.