Ritorna il classico di Carla Forti / L’eccidio Pardo Roques
È il primo agosto quando un gruppo di soldati tedeschi fa irruzione nella bella casa di Giuseppe Pardo Roques. A 68 anni è uno degli uomini più in vista di Pisa. Presidente della comunità ebraica locale, è un erudito, un benefattore. In città si favoleggia della sua ricchezza e della sua patologica fobia per i cani e i gatti. È il 1944 e quello che segue è uno degli eccidi più spietati di cui si serbi memoria.
I militari arrivano alle dieci del mattino e se ne vanno ubriachi nel primo pomeriggio. Si lasciano dietro i corpi straziati di dodici morti – cinque cristiani e sette ebrei, fra cui Pardo. La dimora, nel quartiere popolare di Sant’Andrea, è saccheggiata. Un furgone torna più volte a fare il carico di dipinti, oggetti preziosi, mobili di pregio.
Un mese più tardi Pisa è liberata. Un mese appena e quelle vite potevano fare il loro corso.
In questa tragedia ci sono domande che pesano come macigni. Perché la rete di complicità che così a lungo ha protetto Pardo d’improvviso cede? Chi ha messo i militari sulle sue tracce? È stata davvero, come si dice, la vendetta di un vicino? E per quale ragione dopo la guerra tanti preferiscono dimenticare?
Quel groviglio di interrogativi torna in un volume che ormai è un classico, Il caso Pardo Roques. Un eccidio del 1944 tra memoria e oblio di Carla Forti, da poco in libreria in un’edizione aggiornata (Quodlibet, 294 pp.) che, trascorsi i settant’anni prescritti, fa molti dei nomi taciuti nel 1998.
Nata a Verona nel 1938 e da tempo pisana d’adozione, la storica incrocia documenti d’archivio e testimonianze orali in una ricostruzione minuziosa che non si ferma ai fatti ma interroga l’intricato tessuto di emozioni, passioni e affetti che li racchiude.
Questa è una storia in cui si può entrare da tante porte e la prima è stata per me la letteratura. La figura enigmatica di Giuseppe Pardo Roques è stata a suo tempo ricreata con affetto da Silvano Arieti (1914 - 1981) nel romanzo The Parnas. A Scene from the Holocaust – in cui parnàs è il termine ebraico con cui gli ebrei sefarditi indicano il loro presidente. Il libro, che con notevole impatto drammatico intreccia fiction, ricordi e testimonianze, esce negli Stati Uniti nel 1979.
Ebreo pisano, Arieti non solo conosce Pardo dall’infanzia ma in gioventù ha frequentato spesso la sua casa. Per vent’anni l’elegante salone del primo piano è stato un ritrovo culturale di prestigio. “Gli orizzonti della vita di provincia, ristretti dal nazionalismo fascista, in casa di Pardo si aprivano al grande mondo”, ricorda Arieti. “È stato lì, in quel salotto, con il suo speciale miscuglio di intelligenza ebraica e appassionato internazionalismo, che ho ricevuto la mia prima preparazione per quella che doveva diventare la mia vita americana”.
Lì il parnàs lo riceve nel 1939, quando Arieti va a salutarlo prima di partire per gli Stati Uniti causa le leggi razziali approvate un anno prima. “Forse un giorno tornerai a Pisa e mi farai visita. Sarai pieno di sapere e saggezza, e sarai capace di aiutarmi”, gli dice Pardo accomiatandosi.
Sarà il loro ultimo incontro e Arieti, che diventerà uno psichiatra e una delle massime autorità in tema di schizofrenia, non saprà mai se l’uomo ha intuito che proprio la sua malattia ha gettato il seme di quella vocazione professionale.
A Pisa non è un segreto che il parnàs soffra di una grave fobia dei cani e dei gatti. Il disturbo non gli impedisce di ricoprire importanti cariche pubbliche, svolgere un ruolo di mecenate e filantropo o ricevere i poveri ogni venerdì, senza fare differenza fra ebrei e cristiani – l’unica richiesta è che si presentino prima delle stelle che segnano l’inizio del Sabato.
Scapolo, trascorre però molto tempo in casa, dove esorcizza il panico suscitato dagli animali con complicati rituali. Evita i viaggi ed esce con un bastone che si ruota attorno per accertarsi di essere al sicuro. Quando passa, i ragazzini del quartiere spesso abbaiano o gli aizzano contro un cane per farsi beffe del suo terrore.
La fobia non è però l’unica ragione per cui sceglie di trascorrere la guerra sotto gli occhi di tutti – nel suo palazzo, con un gruppo di amici ebrei che hanno chiesto ospitalità e due anziane domestiche cristiane che gli sono affezionate. Nella decisione di restare, benché con i suoi mezzi possa permettersi la fuga, entrano in gioco le dinamiche locali.
In città, Giuseppe Pardo Roques non è uno qualunque. È stato prosindaco e assessore, ha conoscenze in alto loco ed è abbastanza ricco da immaginare di potersi comprare la sicurezza. Di fatto fino all’ultimo sembra godere a Pisa di una speciale immunità. Si dice che conti su informatori e protezioni sicure, probabilmente in questura. In passato ha finanziato con generosità il Fascio locale e fino alla fine, scrive Forti, “sia il federale sia il segretario rionale ebbero per lui, a dispetto delle leggi razziali, un rispetto che sconfinava nella reverenza”.
Mentre i mesi passano, sente però che il terreno gli cede sotto i piedi. I documenti parlano di prepotenze e minacce da parte di vicini fino allora deferenti; altri vicini, legati a lui da un debito di riconoscenza, hanno lasciato la città. Quell’uomo fragile, che un po’ somiglia a Pirandello, “sente una nuova, ignota violenza irrompere nella sua esistenza. Le difese che la ricchezza, la classe, il decoroso riserbo hanno sempre frapposto fra lui e il mondo stanno cedendo, e lo lasciano brutalmente esposto”.
Lo scenario in cui matura il massacro è quello di una città spaccata in due – gli alleati premono su una sponda dell’Arno, i tedeschi resistono su quella opposta; i fascisti sono scappati a nord a fine giugno. A Pisa mancano l’acqua e la luce, i colpi di mortaio punteggiano le giornate, gli sfollati sono ovunque. Nel vuoto di potere che precede la Liberazione saccheggi, rapine e violenze sono all’ordine del giorno e quel giorno il bersaglio è Casa Pardo Roques.
“A voler dare forma verbale chiara e distinta a supposizioni, mezze voci, dubbi, deprecazioni, allusioni, leggende e affabulazioni circolanti in Sant’Andrea – scrive Forti – bisognerebbe dire che a perdere Pardo fu la sua ricchezza”. L’ipotesi è che, forse a seguito di una spiata, i militari tedeschi, qualcuno parlerà di SS, cerchino un ricco da depredare e solo dopo scoprano, dai libri e dagli oggetti, che è ebreo.
Si dice che all’arrivo l’ufficiale chieda dove si trovi la casa del “capitalista di Palestina”, ma sono attimi convulsi e potrebbe essere accaduto dopo. In ogni caso, sotto minaccia una vicina fornisce un’informazione generica.
Un altro vicino, Enrico Giordano, fascista tesserato, avrebbe invece indicato Casa Pardo Roques. “Gli ebrei stanno lì”, avrebbe detto. È un affittuario di Pardo, che lungo la via possiede molte proprietà, ha avuto uno screzio con lui per via di un orto. Dopo la guerra sarà processato e assolto per insufficienza di prove.
L’eccidio di Casa Pardo Roques è di una violenza inaudita. Gli occupanti sono malmenati e rinchiusi in un ripostiglio. I soldati lanciano all’interno bombe a mano e sparano raffiche di mitraglia. Pardo è percosso e trascinato in giro sanguinante alla ricerca di valori. I vicini sentono le sue urla disperate. Sarà trovato con il cranio sfondato. Nel primo pomeriggio, i militari escono ubriachi. Urlano, cantano. Secondo un testimone, sfilano lungo la via esibendo cappelli, bastoni da passeggio e rari strumenti musicali appena rubati.
Insieme a Pardo sono assassinati l’amico Teofilo Gallichi, ottantenne, con la moglie Ida De Cori e il figlio Cesare, 48 anni; Dario Gallichi, 73 anni, fratello di Teofilo e medico di Pardo; Ernesto Levi, 63 anni, con la moglie Cesira, originari di Genova. Ebrei. Quel giorno con loro trovano la morte la cameriera Silvia Bonanni che malgrado i rischi non ha voluto abbandonare Pardo; la governante Giovanna Ulivari, vedova dell’autista di Pardo; sua sorella Alice riparata lì dopo i bombardamenti; il vicino Dante Ristori, anziano fumista, lì per attingere acqua dal pozzo; Emilia Del Francia, che fa la spesa per casa Pardo e ha appena portato la carne. Cristiani.
Dante Ristori e Enrico Levi muoiono in ospedale. Quest’ultimo fa in tempo a raccontare quanto è accaduto.
Nel dopoguerra, dopo il processo, la strage di Casa Pardo Roques si cristallizza nel ricordo come uno dei tanti fatti di sangue di quel periodo. La comunità cittadina fatica a sentirlo come suo. E il mondo ebraico fatica a parlarne, nel timore di evocare la sua diversità. “La paura non era cessata”, scrive Carla Forti. “Se non paura, inquietudine, disagio. Di essere individuati come ebrei, dunque diversi e, in fondo, sospetti”.
È un capitolo di un processo più ampio. Dopo la guerra, come scrive la storica Anna Foa, la memoria della persecuzione antiebraica tende a scomparire nella ricostruzione dell’immagine che l’Italia fa di sé. C’è voglia di andare avanti, si deve vivere insieme: ci si accomoda nel mito degli italiani brava gente e si dimenticano le leggi razziali.
Da allora le cose sono cambiate. La persecuzione contro gli ebrei in Italia è ormai diventata parte della memoria collettiva, è oggetto di ricerca e insegnamento. Eppure, nel suo micidiale intreccio di privilegio, fragilità e razzismo il caso Pardo Roques conserva il magnetismo dell’attualità.
L’ultima porta da cui sono entrata alla ricerca del parnàs di Pisa passa per Google Earth. Casa Pardo Roques è sempre lì, a Pisa, in via Sant’Andrea. Un bel palazzo, affacciato su una strada stretta, affollata di macchine e motorini. Una sobria targa riporta i nomi dei morti.
Sul retro, il verde del giardino dove nei pomeriggi passeggiavano Pardo e gli amici. La sinagoga è là dietro e basta poco per raggiungere l’Arno. La bellezza dell’Italia mi raggiunge quaggiù in America come una stretta al cuore. Allargo l’immagine, affondo nella contiguità di balconi, orti, tetti e cortili e per un attimo mi sembra di sfiorare quella storia. È accaduto tutto lì, in quello spicchio di mondo – il tradimento, l’amicizia, l’orrore.